Alessandro Begani e la difesa di Gaeta

Il mondo che Alessandro Begani osserva dall’alto dei bastioni di Gaeta è un mondo ormai trasformato. Da quando la testa coronata del Borbone è rotolata nel cesto nulla è più stato lo stesso.

In molti lo avevano intuito, che vittorie e sconfitte non avrebbero più condizionato il fluire della storia, rallentato forse, ma non arrestato. Come saggiamente interpretò lo stesso von Clausewitz, l’epoca delle guerre dinastiche era tramontata, nessun esercito avrebbe più seguito una testa coronata semplicemente per compiacere le ambizioni di sua graziosità. L’era delle guerre di popolo era cominciata. La cannonata di Valmy aveva aperto una breccia nella quale negli anni seguenti con le ordinate colonne di granatieri dell’Imperatore penetrerà in quella decrepita e stanca Europa la fresca brezza delle idee della Rivoluzione. È con questa consapevolezza che il maresciallo Alessandro Begani scruta il mare.

Suo padre, il Capitano, glielo aveva insegnato sin da bambino: fa il tuo dovere, esegui gli ordini, rispetta la famiglia, servi la patria. E glielo avevano ripetuto alla Reale Accademia Militare dove maturava la sua formazione di artigliere. È lì però, proprio tra le mura di quella prestigiosa scuola militare che domina il Golfo di Napoli dalla collina di Pizzofalcone che Alessandro incontra per la prima volta i principi della Rivoluzione. Quelle idee erano arrivate tra i banchi dei cadetti come la brezza marina che risale dal borgo di Santa Lucia a solleticare gli animi di quei giovani dai facili entusiasmi. Alessandro era stato tra i primi a restarne affascinato, non foss’altro che per l’ammirazione che nutriva per il suo mentore e maestro di allora, il Generale François René Jean de Pommereul che dal 1787 serviva a Napoli come consulente militare per l’artiglieria. Ateo, anticlericale impenitente, Pommereul abbracciò con entusiasmo la filosofia della Rivoluzione. Quando i Borbone di Napoli decisero di schierarsi con le potenze europee contro la Francia chiese di essere congedato per tornare in patria a servire il governo rivoluzionario. Il fascino che esercitava su molti dei suoi cadetti, e l’amicizia particolare che intratteneva proprio con Begani portarono su quest’ultimo le attenzioni della polizia borbonica. E proprio sulla scorta di quell’amicizia il giovane ufficiale d’artiglieria, al ritorno dal suo primo prestigioso incarico nell’assedio di Tolone, dove pure s’era distinto, accusato di giacobinismo fu arrestato nel dicembre 1794 e tradotto in carcere, lì ove rimase per quattro lunghi anni sino al 25 luglio 1798. Se l’obiettivo della polizia borbonica era quello di piegare il soldato Begani il risultato fu però un vero fallimento. Alessandro uscì di prigione ancora più convinto di quelle che ormai erano le sue idee.

Furono quelli gli anni delle scelte radicali, e lui scelse. Scelse la Rivoluzione andando ad ingrossare le fila dei napoletani che combatteranno sotto le insegne del Francese, prima quelle repubblicane poi quelle imperiali. Seguì il cuore ed i propri ideali di rinnovamento e di progresso.  Appena uscito di prigione fuggì nel Lazio dove si unì ai francesi e agli insorti repubblicani, distinguendosi nella difesa di Ancona dove Monnier con poche centinaia di soldati italiani e francesi tenne testa per più mesi alle riunite flotte turco–russe che lo stringevano da mare ed agli austriaci che completavano l’assedio via terra. Ma fu sotto il comando del generale Beauharnais che Begani, combattendo per difendere i confini della Francia assediata dalle potenze europee, si guadagnò i galloni di capo battaglione.

Immaginate di essere un giovane ufficiale carico di fervore e di speranze di progresso civile e di ritrovarvi nell’esercito più giovane, più fresco, più moderno e più ideologizzato d’Europa, per chiunque sarebbe stata un’esperienza esaltante e probabilmente per Begani lo sarà, radicando ancora di più in lui le idee di rinnovamento che costituiranno uno degli aspetti fondamentali della sua carriera di soldato.

Nel luglio 1806, dopo una lunga esperienza maturata sui campi di battaglia, Begani rientrava nella sua amata patria, quel Regno di Napoli ora sotto la guida di Giuseppe Bonaparte, e con il grado di Maggiore inviato di stanza a Capua ricevette l’ordine di riorganizzare le artiglierie del regno. La meticolosità con la quale svolse il suo compito e le grandi capacità organizzative che accoglievano e facevano proprie le moderne esperienze degli eserciti napoleonici in merito all’arma d’artiglieria, gli guadagnarono il grado di colonnello, ottenuto nel 1810 quando il regno era oramai passato sotto il comando del carismatico ed ambizioso cognato dell’Imperatore, Gioacchino Murat.

Sarà proprio a Begani, nominato Maresciallo di campo nel 1814, che Murat affiderà il comando dei parchi di artiglieria nella campagna d’Italia che vedrà l’esercito del regno schierato questa volta al fianco delle truppe inglesi ed austriache contro i francesi. Se da un lato Murat fu accusato per questo di tradire l’illustre cognato, dall’altro il re di Napoli cercava così di conservare quel regno che con tanta fatica stava riorganizzando e che dopo anni era riuscito a rimettere finanziariamente in sesto. Da servitore dello stato qual era Begani fu tra i 22000 napoletani impiegati in quella campagna. Certo non doveva essere facile per chi era cresciuto nel mito del generale còrso che da artigliere si era fatto imperatore, proprio da artigliere ad artigliere, guardando a quella emblematica figura di uomo come apicale rappresentante dei rivolgimenti di quella rivoluzione che di fatto aveva mutato radicalmente le cose d’Europa, nell’assetto politico e non solo, e verso il quale da sempre si era rivolto uno sguardo ammirato, affrontare le sue forze sul campo da avversario. Fu una breve esperienza ma certamente drammatica.

Molto più esaltante dovette invece risultare il tentativo del re Gioacchino di sfidare le potenze europee che con ogni probabilità avrebbero favorito una restaurazione borbonica anche a Napoli. Il coraggioso re di Napoli faceva appello al popolo d’Italia affinché sostenesse la sua campagna per ottenere libertà per tutta la Penisola. Agli ufficiali napoletani impregnati dei valori rivoluzionari dovette sembrare un buon motivo per cui battersi, un buon motivo per seguire il loro sovrano fino alla fine, ma l’ambizioso sogno di un’Italia liberata dalle ingerenze straniere grazie alle truppe napoletane guidate da Gioacchino Murat si infranse nel maggio del 1815 a Tolentino.

Era la fine di un sogno. Di lì a poco anche quel gigante della storia che fu Bonaparte cedeva alle forze della Restaurazione sul fatale campo di Waterloo.

E Begani? Begani scrutava il mare. L’ultimo incarico affidatogli dal re era quello di tenere la piazza di Gaeta, primo baluardo del regno. Ma appena insediato si rese subito conto che nulla era predisposto affinché Gaeta potesse efficacemente resistere ad un assedio.

Scrisse al Ministero della guerra per ottenere tutte le risorse necessarie e i mezzi atti a sostenere efficacemente la difesa. Appena messo piede nella fortezza inviò missive richiedendo carte dettagliate della piazza e del circondario, l’invio di ufficiali del genio dei quali Gaeta era completamente sprovvista, e di topografi, chiese inoltre che gli fosse inviata prontamente quella compagnia di artiglieria che inutilmente veniva lasciata di stanza a Castellammare, ed in ultimo il sostegno di alcune compagnie di fanteria. Begani si rese conto che gli stessi magazzini di rifornimento erano posizionati talmente male, così esposti al fuoco, che rischiavano di essere incendiati dal nemico nelle prime fasi di assedio.  Pur considerando che la fortezza non necessitasse di una guarnigione troppo numerosa per essere difesa, chiese comunque al comando l’invio di 3500 uomini. Paradossalmente Mcdonald rispondeva ordinando a Begani, il quale al momento poteva contare solo su 400 uomini del X di linea e alcune compagnie d’elite in grado di assicurare il servizio giornaliero della piazza, di sostenere Manhès e coprire le gole di Itri, cosa che ovviamente risultava impossibile.

In questo giocava il contrasto in seno ai comandi napoletani sull’utilità o meno di concentrare le difese sul confine ed in particolare su Gaeta.

Ben presto Begani si rese conto della situazione disperata. I suoi uomini dovevano ancora essere pagati e le sue lettere inviate a Napoli per richiedere i fondi necessari alla paga della truppa restavano inascoltate. D’altronde la capitale stessa era già nel caos e presto le navi inglesi si sarebbero fatte vedere nel golfo.

Quando oramai fu chiaro con la ritirata delle truppe napoletane che il regno era perduto, il re in fuga, la situazione si fece ancora più drammatica. I forti di Ancona e di Pescara che il 25 maggio erano ancora saldamente nelle mani dei napoletani cadevano il 28 maggio l’uno ed il 31 l’altro. Cosa avrebbe mai potuto fare un servitore dello Stato, un soldato, un uomo che aveva creduto fermamente alle istanze di rinnovamento della Rivoluzione? Begani si dispose a subire l’assedio.

I suoi uomini lo vedevano ispezionare meticolosamente le fortificazioni ancora quando dopo Tolentino tutti attendevano un imminente rompete le righe. Lo osservavano passeggiare pensieroso sui camminamenti di ronda, controllare il lavoro dei piantoni, quando il vento portava già le drammatiche note della fine dell’Impero. La fermezza del comandante non trovava però riscontro in truppe che senza paga e con il regno ormai in balia di austriaci ed inglesi ambivano solo ad arrendersi. Fu allora che cominciarono le defezioni.

La sera del 12 maggio la guarnigione ebbe ordine di chiudersi nella piazzaforte, ed il 22 il suo blocco era completato: squadre navali inglesi la chiudevano dal mare e truppe austriache da terra. Begani disponeva di un battaglione del X di linea, due battaglioni del XII di linea, quattro compagnie di miliziani provinciali, due compagnie di artiglieria, un centinaio di soldati del treno e trecento zappatori, oltre ad una decina di lance cannoniere.

Il Generale Bianchi, il trionfatore di Tolentino, intimò a Begani di arrendersi: la guerra era perduta, Murat aveva lasciato il regno, non aveva alcun senso resistere. L’austriaco fece sapere che se la guarnigione napoletana non si fosse arresa non sarebbero stati applicati i principi della convenzione di Casalanza. Il 30 maggio la tensione tra le mura di Gaeta salì alle stelle e molti soldati si ammutinarono: le forze provinciali e gli uomini del X di linea si ribellarono ai loro comandanti, ed ucciso l’ufficiale in comando, il maggiore Francesco Niccolini di Vico Pisano che aveva tentato di fermarli, in trecento abbandonarono la fortezza. Begani agì con fermezza. Non potendo permettersi tra le mura della sua fortezza uomini pronti alla ribellione, il giorno dopo espulse il resto delle milizie provinciali e del X. Così con una guarnigione ridotta di 1600 uomini fedeli, ed abbandonando le posizioni più avanzate per rinchiudersi nella fortezza, Begani si dispose alla resistenza.

Dal mare gli inglesi si muovevano baldanzosi, sicuri di una pronta resa. Non avevano fatto i conti però con l’artigliere al comando della piazza. Il fuoco dalla cittadella fortificata era talmente efficace che diverse navi, seriamente danneggiate, dovettero lasciare l’assedio.

A terra agli austriaci non andava meglio. Tutti i lavori realizzati dalla fanteria per avvicinarsi alle mura e disporsi all’assalto venivano prontamente distrutti da un preciso tiro delle artiglierie e da coraggiose sortite. Dopo quattro lunghi mesi di assedio e numerose perdite gli alleati non erano riusciti ancora a venire a capo delle difese di Gaeta. Begani resisteva.

Non sappiamo cosa passasse nella mente del maresciallo Begani che nonostante il mondo attorno a lui fosse crollato, nonostante Murat fosse stato sconfitto e Napoleone avesse perso l’Impero, continuava imperterrito ad opporsi al nemico. Secondo alcuni cronisti fu la notizia della deportazione a Sant’Elena di Napoleone ad indurre Begani finalmente alla resa, ma è molto più probabile che dal principio di questo assedio il maresciallo napoletano avesse in mente un piano ben preciso. Se è vero che tutto era perduto qualcosa si poteva ancora salvare, certo l’onore delle armi innanzitutto, ma anche qualcosa di più. L’obiettivo di Bergani era politico e lo dimostrano le condizioni che pose agli alleati per la sua resa. Decise di capitolare infatti solo a patto che la piazza di Gaeta e tutto il parco di artiglieria fossero consegnati nelle mani di rappresentanti dei Borbone, e non di forze straniere. Né austriaci, né tantomeno inglesi avrebbero messo le mani su quell’importante fortezza strategica per la difesa dei confini dello stato. Con quest’atto che aveva un senso tutt’altro che dimostrativo, il comandante Begani stava rivendicando l’autonomia e l’indipendenza del regno a prescindere dalla dinastia regnante. Gaeta e con essa il regno restavano, nel bene e nel male, ai napoletani.

Gli alleati loro malgrado accettarono le condizioni per schiodare quel cocciuto comandante napoletano da quella fortezza la cui conquista chissà quante perdite avrebbe ancora potuto costare.

A testa alta Begani firmava la resa l’8 agosto 1815, lasciava Gaeta. Andrà esule in Corsica. Ma la sua storia non era finita. Tornerà ancora a servire lo stato, a propugnare l’ammodernamento ed il rinnovamento non solo dell’esercito, fin quando gli verrà consentito avere un ruolo dai suoi vecchi avversari, e fin quando avrà vita. Alessandro Begani morirà il 24 aprile 1837. Oggi riposa in pace proprio su quella rocca che lo rese celebre, a Gaeta su quel promontorio che difese strenuamente guadagnandosi fama ed onore.

 

 

 

Autore articolo: Giuseppe De Simone

Bibliografia: M. D’Ayala, Le vite de’ più celebri capitani e soldati napoletani; P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825; A. Ulloa, Antologia Militare, N. Morelli Di Gregorio, Biografia dei contemporanei del Regno di Napoli; M. H. Weil, Joachim Murat Roi de Naples – La dernière anée de Règne; M. Mazziotti,Nuovi documenti sul gen. Alessandro Begani e i suoi accusatori in Rassegna storica del Risorgimento, 1917.

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe De Simone, laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, presso la Sapienza – Università di Roma, con una tesi in Storia Militare su “L’esercito francese e la Guerra d’Algeria”, è studioso di storia del Mezzogiorno d’Italia.

Giuseppe De Simone

Giuseppe De Simone, laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, presso la Sapienza – Università di Roma, con una tesi in Storia Militare su “L’esercito francese e la Guerra d’Algeria”, è studioso di storia del Mezzogiorno d’Italia.

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