Ernesto il disingannato, il primo romanzo borbonico della letteratura italiana

Correva l’anno 1866: nella Napoli da poco conquistata dalle truppe piemontesi apparve una rivista satirica (ma solo in apparenza) redatta interamente in vernacolo. Si chiamava Lo Trovatore ed usciva tre volte alla settimana con il sottotitolo di Giornale spassatiempo. Ma la satira era finalizzata a evitare gli strali della censura (che pure non mancarono). Infatti una manchette affermava (in dialetto) «Pubblicherà tutto quello che trova» e il disegno della testata mostrava un trovatore (nel senso di trovarobe, non di poeta medioevale) che con una lanterna si avvicinava ad una grotta (“Ministeri”) nella quale si trovava un drago (“Consorteria”) che stava divorando il “Popolo”, mentre nelle vicinanze strisciava il serpente “Camorra”.

Cos’era la “consorteria”? Era l’accordo tra camorristi e liberali che, dopo l’Unità, si spartivano il potere a Napoli ed erano quindi invisi sia ai borbonici che a coloro che si erano illusi in un cambiamento positivo con l’avvento dei Savoia.

Il giornale, nel corso degli anni, si caratterizzò in maniera sempre più esplicitamente cattolica e legittimista, mutuando dalla rivista «La Civiltà cattolica» anche l’idea di pubblicare in ogni numero un romanzo “morale”. Così, tra il 1873 ed il 1874 dette alle stampe Il passato e il presente ovvero Ernesto il disingannato, il primo romanzo “borbonico” italiano, da poco ristampato (D’Amico Editore, Nocera Inferiore 2017, p. 240, € 15).

La trama inizia nel 1858 e segue le vicende di Ernesto, un giovane perbene ma in gravi ristrettezze finanziarie, cui viene offerto un impiego da parte di una società affiliata alla massoneria: egli lavorerà a lungo come agente filo-unitario per preparare il terreno affinché l’invasione garibaldina, anziché essere gettata immediatamente a mare dall’esercito napoletano, divenga la nota passeggiata che farà cadere in pochi mesi il più antico Regno italiano. Ernesto agisce in buona fede per gli ideali di “unità e libertà” che ha sentito propalare dal Quarantotto in poi, rimanendo però invischiato in una serie di truffe, corruzioni e ruberie; essendo comunque un giovane cristianamente educato, quando si rende conto che alle belle parole di “unità e libertà” non corrispondono i fatti, ma che tutti i “martiri” della rivoluzione italiana vogliono in realtà solamente arricchirsi a spese dei “fratelli” che hanno contribuito a “liberare”, decide di accusare quelli che crede i pochi elementi traditori. Si ritrova però subito di fronte alla “consorteria”, cioè all’unione dei camorristi e dei liberali, che ha preso il potere e non intende rinunciarvi. Ernesto denuncia le ruberie, ma viene zittito ed anzi a sua volta ingiustamente incriminato, finendo in carcere e disingannandosi completamente rispetto alle aspettative preunitarie.

Napoli, Via San Paolo nel quartiere San Lorenzo, il luogo in cui, nella finzione letteraria, era situata la casa di Ernesto. Autore foto: Vincenzo D’Amico

A tale aperto j’accuse! sulla situazione amministrativa post-unitaria, nella seconda parte del romanzo si aggiunge una visione politica che va molto al di là dei confini napoletani: la restaurazione del Re legittimo deve essere soprattutto lotta alla rivoluzione, non semplice restituzione del Trono al Re scacciato. Ecco perché i legittimisti di tutta Europa si devono riunire sotto le bandiere di Carlo VII di Spagna, il pretendente al trono carlista, perché dalla sua vittoria dipenderanno il ritorno in Francia di Enrico V e a Napoli di Francesco II.

Il romanzo fu pensato come arma per la battaglia culturale: i redattori de Lo Trovatore avevano ben chiaro il ruolo della letteratura nella battaglia politica ed Ernesto, lungi dall’essere un semplice intrattenimento, era un mezzo fondamentale per convincere il maggior numero di lettori, in ogni tempo sicuramente più attratti da un romanzo (o da un’opera teatrale, lirica o, in anni più recenti, cinematografica) che non da un “fondo” di analisi politica.

Chi ne fu l’autore? È arduo dirlo: forse si può pensare all’opera di più mani e, in particolare, a quelle dell’editore-direttore Pasquale Tomas, che affrontava coraggiosamente i continui attacchi della censura (pagando anche con il carcere) e che decise di trasformare il foglio da dialettale in italiano per evitare di dare l’idea di «un giornale da buffoni, o per lo meno una gazzetta teatrale» cambiando il sottotitolo da “Giornale spassatiempo” a “Giornale politico pel popolo”. Il Trovatore si definiva apertamente “legittimista”, “cattolico”, “borbonico” e un suo memorabile editoriale (4 gennaio 1873) si chiudeva traducendo fedelmente il motto carlista «Dios, Patria, Fueros, Rey»: «Quindi riepilogando diciamo, che noi saremo la vigile sentinella del popolo napolitano, propugneremo la integrità della Fede de’ nostri padri, e saremo apostoli della verità, sfolgorando la menzogna, sinanche detta da grandi o da re: borbonici legittimisti per convinzione e per principi, propugneremo anche a costo di qualsiasi sacrificio il dritto della legittimità. In una parola, sulla nostra bandiera è scritto: Per Dio, per la Patria, per la Giustizia e pel Diritto legittimo!!!».

Il romanzo Ernesto il disingannato, pur non essendo un capolavoro letterario, ha però il primato di essere il primo romanzo “borbonico” della letteratura italiana, il primo romanzo carlista italiano e, in fin dei conti, un buon romanzo cattolico con il pregio di farsi leggere tutto di un fiato e di ribadire alcuni imprescindibili valori della politica cristiana. La sua ristampa, a cura di Gianandrea de Antonellis, non costituisce la semplice riscoperta di un testo sconosciuto ma è soprattutto un monito ad ampliare, al di là di ogni singolo nazionalismo, la visione della Restaurazione di una monarchia cattolica che sui principi del Carlismo ponga le basi imprescindibili per una nuova società cristiana. Per questo è arricchito dalla prefazione di S.A.R. Don Sisto Enrico di Borbone, dalla post-fazione di Francesco Maurizio di Giovine, che sintetizza quasi due secoli di vicende del Carlismo, e da una serie di documenti inediti, tra cui una lettera-manifesto di Carlo VII e uno scritto programmatico di Francisco Elías de Tejada, diventando un ottimo strumento per far conoscere meglio al pubblico italiano l’ideologia carlista. Va ricordato che essa non è legata a mere questioni dinastiche, bensì alla contrapposizione tra la Monarchia tradizionale e cattolica a quella moderna di stampo liberale, di fatto anticristiana (pensiamo soltanto alla deriva omosessualista che si è avuta in numerosi Regni europei).

Il romanzo e gli scritti che lo accompagnano costituiscono dunque un valido e sintetico manualetto di politica cristiana.

 

 

Autore: Luigi Vinciguerra

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