Gli scugnizzi di Mancini e Gemito

Un’artista inquieto e stravagante s’aggirava per i quartieri popolari della Napoli ottocentesca. Antonio Mancini camminava fianco a fianco col suo amico Vincenzo Gemito, dei due era forse lui che anticipava i risvolti creativi di un’osservazione acuta e sensibile alla più eccitata fantasia. Attraversano le strade più rumorose, sporche, poveri e lì trovavano la loro fonte di ispirazione.

Mancini stupì e conquistò la critica per la spiccata caratterizzazione sentimentale dei suoi personaggi. Trionfò con “Ritratto di bambina” del 1867, con “Lo scugnizzo” del 1868 e con “Prevetariello” del 1870. Era romano ma a Napoli trovò la sua più proficua ispirazione.

Scene di vita quotidiana presero forma sulle sue tele con protagonisti adolescenti emarginati che vagavano tra i vicoli popolari. A questa coscienza pittorica non contribuì tanto il morellismo in voga, ma il Seicento coi suoi maestri, Caravaggio, Preti e Cavallino che proprio nelle chiese di Napoli il Mancini poté studiare.

Elaborò così uno stile peculiare e tra il 1875 ed il 1878 conquistò Parigi; aveva raggiunto una incredibile celebrità internazionale e Goupil riuscì a legarlo con un contratto d’esclusiva. Mancini portò in Francia il suo mondo di scugnizzi, le sue note psicologiche, i colori intensi di una pittura realistica. Lo raggiunsero l’amico Vincenzo Gemito ed il suo modello preferito, Luigiello, un orfano dalla folta chioma riccioluta, numerose volte al centro dei suoi dipinti, anzitutto dell’emozionante capolavoro “Saltimbanco con violino”.

L’eredità della grande statuaria classica fiorì con più viogoroso sfavillio nella scultura di Gemito. Con l’amico pittore condivideva il gusto per i maestri del Seicento e per il naturalismo presepiale calorosamente ammirato nelle botteghe di San Gregorio Armeno. Iniziò le sue attività alla bottega di Caggiano, scultore di gesso accademico. Per lui disegnò gessi e fece ritratti, ma il suo istinto antiaccademico lo portò via.

Divenne allievo di Stanislao Lista. Eseguì in creta una serie di bustini e figurette di mendicanti e popolani. La drammaticità del suo tratto coglieva l’essenza della vita di quegli scugnizzi, la malinconia, la bellezza e la disperazione dei vicoli.

Quando raggiunse la capitale francese aveva già indagato il tema dell’infanzia povera ed abbandonata dei vicoli napoletani. Grazie all’appoggio di Mancini e di Mathilde Duffaud, una modella francese che aveva conosciuto a Napoli, trovò anche in Francia un ambiente accogliente ma non gli anticorpi a quella potente depressione che finì col travolgerlo.

I busti di “Giuseppe Verdi” e “Domenico Morelli” lo lasciarono apprezzare dalla critica ma fu “Il Pescatore” il suo vero successo. Qui la lezione dei bronzi ercolanesi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli è originale fino al punto da esulare dai classicismi, la lettura dell’antico è così filtrata dal naturalismo da potersi dire “caravaggesca” in un momento di altissima tensione creatrice.

La sua grande capacità definisce alla perfezione i corpi asciutti e seminudi di questi ragazzi guizzanti sulle scogliere napoletane. I muscoli tesi, i volti naturali sembrano dare la sensazione che essi siano appena usciti dall’acqua. Il giovane piscaturiello è seduto su uni scoglio e cerca di mettere al sicuro il pesce appena preso, il suo corpo è molto magro, lo sguardo è da furbo, tutto sprigiona un senso di giocoso equilibrio precario, la scultura riesce a rendere molto bene tale instabilità e la vivacità fisica del ragazzo.

Il mondo di solitudine, bravate ed espedienti dei ragazzi dei vicoli di Napoli sarà sempre il tema a lui più caro. Anche il “Malatiello”, conservato al Museo di San Martino, è figlio di queste storie. Il volto del fanciullo mostra i segni d’un male aspro, un fazzoletto intorno al collo, gli occhi semichiusi e spenti, l’espressione del volto sofferente e mesta, la bocca socchiusa pronta a tossire. L’opera, realizzata in terracotta, rende a pieno il dolore del piccolo malato, e di fatti ricorda molto da vicino il Luigiello di Mancini coi tratti scuri e gli occhi lucidi che sembran pronti al pianto.

Di Gemito, pure il “Giocatore di carte” del Museo di Capodimonte propone l’immagine di uno scugnizzo. La preziosa scultura fu composta ai tempi in cui Gemito era allievo di Stanislao Lista e fu acquistata nel 1870 da re Vittorio Emanuele II. Vi è rappresentato un ragazzetto che gioca a carte, di quelli che l’artista incontrava spesso in città negli ambienti più diseredati. Lo scugnizzo è seduto a terra, con una mano regge le carte, con l’altra si tocca la testa in una espressione pensierosa. E’ scalzo, ha i pantaloni arrotolati fin sotto le ginocchia.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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