Il 1799 visto da vicino. Intervista ad Antonella Orefice

Antonella Orefice, ricercatrice storica e direttore responsabile presso Nuovo Monitore Napoletano, è autrice di diverse monografie sulla Repubblica Napoletana. Con lei, che ringraziamo per la disponibilità, ci siamo intrattenuti in una interessante discussione sulle vicende del 1799 che vi proponiamo di seguito.

 

Carlo De Nicola in “Diario Napoletano” distingue tre tipi di giacobini napoletani. Carlo Laubert, Bisceglie, Rotundo e Paribelli sono classificati come “despoti”, sono i radicali democratici, lontani dal moderatismo dei Pagano, Ciaia, Davanzati, “buoni repubblicani”, profondamente legati alla presenza militare francese. Poi ci sono gli “aristocratici” cioè De Medici, il Duca di Colubrano ed il Principe di Sant’Angelo, quelli che agognano la costituzione di una repubblica oligarchica. Che giudizio può darci di queste tre anime della Repubblica napoletana? Perché nessuna riuscì a coinvolgere il popolo?

Con la Repubblica napoletana del 1799 si ottenne la libertà, ma solo in pochi la avevano desiderata, solo in pochi combatterono per averla e ancora meno furono capaci difenderla e gestirla.

La libertà implica grandi responsabilità e un popolo tenuto per secoli nell’analfabetismo sotto il dominio di un monarca assolutista non poteva comprendere i benefici e il senso della democrazia né ebbe il tempo di farlo. In ogni caso sarebbe più giusto parlare di lazzari e non di popolo.

Però le cause che contribuirono al fallimento della Repubblica furono diverse, cause derivanti dagli stessi francesi, che trattarono il Sud Italia da territorio di conquista, e cause legate all’incapacità del governo provvisorio di saper rispondere ai bisogni di tutti e farsi capire dalle masse. Di certo i conflitti ideologici delle “tre anime” specie sulla questione dei fidecommessi fecero perdere un tempo prezioso all’applicazione di una legge che avrebbe sedato un malcontento soprattutto nelle province da dove riguadagnarono terreno i sanfedisti.

Perché distingue tra lazzari e popolo?

È una distinzione obbligata ed è rapportabile alle due forze contrapposte, istinto e ragione. La plebe napoletana formava una vera e propria popolazione di circa trentamila persone denominate comunemente “lazzari”. Etimologicamente la parola “lazzaro” deriva dal vocabolo spagnolo “laceria” che significa lebbra e miseria insieme. I lazzari napoletani erano dei sopravvissuti quotidiani che se ne andavano in giro scalzi ed avvolti in indumenti logori. La loro atavica ignoranza non gli consentiva di comprendere tutto ciò che andasse oltre i loro bisogni primari e di conseguenza accettavano tutto ciò o chiunque potesse soddisfarli.  Una delle problematiche fondamentali che si pose durante la Repubblica del ’99 fu proprio l’esigenza di educare i lazzari a diventare popolo, un’impresa ardua se si considera la condizione di miseria e di analfabetismo in cui era abituata a vivere. Insomma, erano degli esseri umani che vivevano d’istinto. Il passaggio da plebe a popolo, così tanto decantato dalla Pimentel nelle pagine del Monitore, chiaramente non poteva avvenire in tempi brevi. Il senso civico, i valori della democrazia, il comprendere i diritti e i doveri dell’uomo rappresentavano le fondamenta di una Repubblica. Laddove tutto ciò veniva a mancare il fallimento era scontato.

Così direi che i lazzari combatterono per il loro re è strumentale. I lazzari combatterono per difendere la loro anarchia, per assicurarsi il libero saccheggio, per soddisfare odi e violenze. Ferdinando IV li aveva abbandonati e loro, almeno questo, lo avevano compreso e di conseguenza si sentirono loro stessi padroni del regno e autorizzati a fare del loro istinto l’unica legge. Il loro re, a controrivoluzione compiuta, non volle riconoscergli alcun merito e nemmeno una lapide alla memoria. Questo va detto ed è storicamente dimostrato.

Preciserei che il popolo, quello consapevole e capace di partecipare civilmente a un cambiamento, senza dubbio partecipò alla vita della Repubblica, si arruolò nella Guardia Civica, la difese dai Sanfedisti. Dire che furono soltanto gli intellettuali a militare con i francesi è fuorviante. È vero che nei fatti del ’99 fu coinvolta tutta, o quasi, l’intellighenzia napoletana, ma ci fu anche l’adesione del popolo “ragionevole”, altrimenti non si spiegano le migliaia di condanne che furono emanate con la restaurazione. I giustiziati “illustri”, ossia coloro che avevano preso parte al Governo Provvisorio, furono novantanove, solo a Napoli. La cifra è stata ricavata dai Registri dei Bianchi della Giustizia, i confratelli che assistevano i condannati a morte e annotavano le cronache delle esecuzioni, ma in realtà furono molti, ma tanti di più. In ogni piccolo centro di provincia, nelle isole per non dire dei massacri operati dagli stessi lazzari e delle successive vendette private.

Dal lato opposto la reazione ebbe un carattere repressivo sia sul piano pratico che su quello filosofico. A violenze sanguinarie, che crearono imbarazzi anche a Ruffo, si associò una pubblicistica tesa a condannare anche gli aspetti illuministici del governo borbonico prima della Repubblica. Conviene sul fatto che il ritorno francese con i napoleonici abbia evitato, non solo in Italia, una restaurazione più dura?

Il ritorno francese mitigò in parte la reazione borbonica. Credo che i moti successivi e le repressioni lo dimostrino.

L’avvocato De Medici fu la figura più rappresentativa della restaurazione borbonica. Nonostante i suoi iniziali coinvolgimenti nelle congiure giacobine del ’94 che gli costarono il carcere, durante la Repubblica se ne era stato in disparte. Dopo una serie di vicissitudini, dopo la Restaurazione, rientrò nel governo borbonico attuando “la politica dell’amalgama” che prevedeva la conservazione di una parte della legislazione francese. Fu sicuramente un modo peeservare i frutti positivi di quella stagione che soprattutto con Gioacchino Murat aveva conosciuto un notevole ammodernamento dello Stato. In ogni caso il De Medici ha riscosso un giudizio positivo da parte della storiografia per il suo atteggiamento nei confronti dei liberali, imparagonabile alla ferocia del ministro Capece Minutolo principe di Canosa che gli era subentrato nel governo di Di Somma.

In cosa i francesi ci trattarono come territorio conquistato?

I francesi erano odiati non solo perché il clero, quello reazionario, aveva plagiato le masse dipingendo i “conquistatori” come degli atei, dei violentatori e, fatta eccezione per Championnet, va detto che i francesi coi loro saccheggi e le tasse imposte dal Direttorio, non si smentirono.

Il generale Championnet costituì un’eccezione e probabilmente, se fosse rimasto a Napoli, le cose potevano andare diversamente. Non dimentichiamo l’anello donato a San Gennaro in segno di rispetto e per riparare a tutti i gioielli e che il Borbone aveva sottratto al santo patrono prima di scappare a Palermo. Non dimentichiamo che Championnet fu richiamato in Francia e processato proprio perché si era opposto alle richieste economiche dei commissari francesi e, soprattutto, che la sua promessa sposa napoletana, la figlia del principe di Santobono, fu massacrata dai sanfedisti. Insomma, non bisogna generalizzare, anche quando si parla dei francesi.

E’ indubbio che ci trattarono da territorio di conquista e che l’invasione del regno di Napoli fu una conseguenza dell’azione militare che i Borbone avevano tentato nello Stato Pontificio occupato dall’Armata d’Oltralpe. Ancora non va dimenticato che fu proprio in quella occasione che le milizie borboniche dimostrarono tutta la loro inefficienza e inadeguatezza. Costringere tante persone ad arruolarsi senza un’adeguata preparazione, e soprattutto senza una sincera volontà di combattere, non poteva condurre a grandi risultati.

I francesi non avevano alcun interesse a conquistare un regno così tanto distante da loro e soprattutto impedirono che le “repubbliche sorelle” potessero unificarsi in uno Stato unitario, difficilmente controllabile dalla “Repubblica madre”. Insomma, sono stati versati fiumi d’inchiostro sull’argomento e ne potremmo parlarne per ore, analizzando tutti i pro e i contro. Alla fine si converrà almeno su una considerazione: i repubblicani napoletani erano preparati ad affrontare un grande cambiamento, lo avevano desiderato, lo avevano teorizzato, avevano sperato di raggiungerlo anche attraverso una monarchia illuminata. Delusi su tutti i fronti, prima dai Borbone e poi dai napoleonidi, pagarono con la vita il loro sogno di libertà democratica.

Il ruolo ricoperto dalle donne nella Repubblica può essere preso a riferimento di un progresso mai più raggiunto nel Sud preunitario?

La partecipazione delle donne fu esemplare. Basta ricordare l’impegno delle “madri della patria” e tutte coloro che subirono violenze e combatterono al fianco dei loro compagni. Eleonora de Fonseca Pimentel è e resterà il simbolo del 1799 napoletano per il coraggio dimostrato, non solo nei trascorsi della sua vita privata, ma anche per il suo impegno civico nel compilare il Monitore, denunciando finanche i francesi e le loro ruberie.

Tornando sul rapporto tra corona e lazzari, la vittoria sanfedista poteva anche essere l’occasione per la nascita di un senso popolare e nazionale, viceversa questo mancato “riconoscimento” dello sforzo dei lazzari, cui infatti seguì subito la mancata mobilitazione contro la seconda invasione francese, continuò a preservare una mancanza di coscienza popolare?

Ferdinando IV deluse profondamente i suoi sudditi scappando di fronte all’invasione francese. Quando si imbarcò sulla nave dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson, e a causa delle condizioni avverse del mare fu costretto ad intrattenersi nella rada, furono a centinaia i popolani ad implorarlo di restare, finanche l’Arcivescovo di Napoli, il cardinale Zurlo, allora ottantenne, cercò di dissuaderlo. Ma fu tutto inutile: Ferdinando non solo aveva caricato sulle navi inglesi tutti i beni della corona, ma aveva dato ordine di incendiare la flotta e far saltare i depositi di munizioni impossibilitando così anche la difesa armata di migliaia di persone costrette a difendersi con i propri mezzi dall’invasione nemica. La figura del Vicario Pignatelli, lasciato a gestire una situazione così gravosa, si rivelò presto inutile tant’è che anche lui, scappò dopo poco a Palermo su una scia di critiche e sospetti. Il popolo si sentì doppiamente tradito anche dai proclami che il Borbone qualche giorno prima aveva divulgato e nei quali mobilitava tutti alla difesa del Regno con lui in testa. Non voglio esprimere giudizi personali sul comportamento di Ferdinando IV, ma credo che sia davvero poco giustificabile e già la storia lo ha definito nella sua vera natura.

Il tradimento del re lasciò sicuramente dei segni nella coscienza popolare. Quando Ruffo diede le capitolazioni e si scontrò con Nelson che, per ordine del re le annullò, ci fu un momento che finanche i sanfedisti furono sospettati di alleanze coi repubblicani. La caduta di fiducia fu generale: i repubblicani verso i francesi dopo il tradimento di Mejean, che pensò solo a salvare i suoi soldati ad incassare il bottino e a tornarsene in Francia, e ancora i repubblicani verso Ruffo che aveva proposto le capitolazioni, tra l’altro firmate da tutti i rappresentanti degli schieramenti intervenuti nella restaurazione. Per non parlare dell’indignazione dei firmatari rappresentanti le forze in campo che si videro prevaricare in un colpo solo.

Ferdinando da Palermo dava solo ordini e continuò a starsene tranquillo sull’isola per tutto il tempo della restaurazione. Dopo varie esortazioni tentò di fare un ritorno a Napoli, ma ancora si trattenne nella rada impaurito a toccare terra. In effetti temeva un nuovo attacco da parte del Direttorio e se lui lo temeva i repubblicani prigionieri nelle stive delle navi inglesi lo bramavano. L’impegno del monarca fu solo finalizzato a mettere in atto la sua vendetta, mettendo in lista i nomi di tutti coloro che avevano preso parte al Governo Provvisorio, i simpatizzanti dei francesi e ad abolire la secolare istituzione dei Sedili, gli unici a potersi opporre alla sua volontà, ribadendo così il suo potere assoluto che doveva prevaricare qualsiasi legge e ogni parvenza di giustizia sociale. Tutto era finalizzato ad una spietata vendetta che non doveva fare sconti per nessuno.

È chiaro che Ferdinando non aveva alcun interesse a trasformare la sua plebe in popolo. A prescindere dalla sua indole gretta e inadeguata al suo ruolo, offrire un’educazione alle masse avrebbe significato renderli capaci di comprendere le carenze governative e di conseguenza avversarle, cosa che cercarono di fare gli intellettuali illuminati preparati alla scuola dei grandi riformatori come Filangieri e Genovesi.

Ma in ogni caso, dopo l’ecatombe del ’99, per quanto i Borbone abbiano cercato di distruggere tutto quanto potesse ricordare il semestre repubblicano, in tanti non dimenticarono. Gli stessi lazzari non opposero più resistenza alla seconda invasione francese, fatta eccezione per i briganti che si muovevano al soldo del Borbone. Va ricordato che proprio durante il regno di Giuseppe Bonaparte diverse persone furono condannate a morte con la chiara accusa di “brigantaggio” e quasi tutti provenivano dai confini con lo Stato Pontificio. È storia documentata.

Una pagina poco nota concerne l’intervento dello zar Paolo I per tentare di frenare le esecuzioni di repubblicani. Può parlarcene?

La Russia era intervenuta nell’alleanza contro i napoleonidi inviando in aiuto di Ferdinando IV quattro battaglioni di soldati dell’esercito regolare, due battaglioni di cosacchi e tre navi da guerra. Una volta che le truppe russe coadiuvate da quelle turche, inglesi e dai sanfedisti entrarono in Napoli, il cardinale Ruffo, che aveva arruolato nella sua Armata Cristiana i più famosi criminali del regno, di fronte alle efferate atrocità, ai saccheggi selvaggi e alle violenze sui civili, propose le capitolazioni allo scopo di pacificare la situazione e mettere fine all’anarchia dei lazzari degenerata in una incontenibile bestialità. I trattati che avrebbero salvato la vita di tante persone furono sottoscritti anche dal Baille, comandante delle truppe russe. L’annullamento imposto da Ferdinando rappresentò un’onta vergognosa per tutti i firmatari che si videro prevaricare da Ferdinando IV e dalla sua spietata vendetta. Lo zar Paolo I cercò di dissuadere il cugino Borbone dal condannare a morte tutte le migliori menti di cui Napoli vantava non solo in Europa, ma Ferdinando ascoltò solo il suo odio vendicativo. Le condanne a morte di uomini come Mario Pagano, Domenico Cirillo e tanti altri di nota fama internazionale, provocarono l’indignazione tutta l’Europa e non solo. Il comportamento di Nelson soggiogato da Lady Hamilton a sua volta manovrata da Maria Carolina, sollevò accese discussioni nel parlamento inglese.

Ma perché l’importanza che la stagione repubblicana ricopre nella storiografia meridionale non è pari a quella che le si attribuisce per il resto d’Italia?

La stagione repubblicana è stata un’epoca poco o meno che ignorata durante tutto il periodo in cui i Borbone continuarono regnare nel Meridione. I processi, le documentazioni prodotte e tutto ciò che potesse ricordare ai posteri il semestre repubblicano fu fatto sparire. Le cronache del tempo ci sono giunte tramite gli esuli e i diaristi. Tutti i ricercatori del primo Ottocento operarono sfidando la censura borbonica. Fu solo dopo l’unificazione dell’Italia che vennero fuori quelle poche cose che per oltre sessanta anni erano state gelosamente nascoste negli archivi, nelle biblioteche e dalle famiglie dei condannati che furono perseguitate per anni, subendo le confische dei beni e restrizioni.

Rispetto alla restaurazione nelle “Repubbliche sorelle” i cui patrioti riuscirono in buona parte a riparare in Francia come esuli, solo a Napoli ci fu un’ecatombe che portò al patibolo un’intera classe composta per lo più da intellettuali, medici, avvocati, sacerdoti riformisti e tanti nobili. Per dirla con le parole di Giuseppe Galasso «non furono i Borbone a rendere grande Napoli agli occhi dell’Europa, bensì quegli illuministi condannati al patibolo».

Credo che dalla morte di quelle persone così uniche e socialmente preziose sia poi scaturito un grave declino del Mezzogiorno lasciato nelle mani di una classe dirigente inadeguata e asservita al potere di una monarchia assolutista, retrograda e oscurantista. Da lì la sua importanza nello studiare vittorie e fallimenti di un momento unico e irripetibile della nostra storia patria.  Fatta eccezione per pochi esponenti che cercarono di rimediare ad un vuoto incolmabile e combatterono nel periodo risorgimentale, quella primavera dei popoli, seppur ritenuta “effimera” lasciò un segno indelebile nelle coscienze di tutti. Ma la caducità non altera il valore delle cose. Come scrisse Freud «Se un fiore fiorisce in una sola notte non per questo la sua fioritura apparirà meno splendida».

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3 pensieri riguardo “Il 1799 visto da vicino. Intervista ad Antonella Orefice

  • 18 Settembre 2018 in 13:35
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    Molto bella ed interessante la sua analisi sulla sventurata Repubblica Partenopea del 1799. Lai ha citato alcuni dei martiri della feroce reazione borbonica, come la Pimentel, Pagano, Cirillo, ma nessun accenna alla “madre della patria Luigia Sanfelice” altra martire di quello sciagurato periodo della storia di Napoli, e alla quale il mio avo Francesco Mastriani ha dedicato un libro “Due feste al Mercato – Luigia Sanfelice.Memorie del 1799”.
    Rosario Mastriani

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  • 11 Novembre 2018 in 10:12
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    Bella intervista. Ogni volta penso alle vite spezzate del Resto di niente e rabbrividisco davanti alla vittoria dell’oscurantismo.

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