Il prefetto di Roma

Quando Roma non fu più sede della corte imperiale, un magistrato, il praefectus Urbis, serbò la giurisdizione sulla città e sul territorio circostante. La carica era stata isituita da Augusto e, sotto Graziano e Valentiniano, continuava a godere di altissima considerazione. Erano di sua competenza l’annona, i mercati, gli spettacoli, le mura e gli acquedotti, i lavori edilizi ed il censimento. Al cadere del VI secolo, sotto il pontificato di Gregorio Magno, il prefetto si ritorvò affiancato dal magister militum, incaricato dell’amministrazione militare. Oltretutto il prestigio della carica non era più quello di una volta.

Val la pena ricordare che lo stesso Gregorio Magno, all’età di trent’anni, assunse la carica, prima di convertirsi e farsi monaco. Sotto il suo pontificato però la carica era così decaduta che il pontefice la abolì. Accadde che l’ex prefetto Libertino, chiamato a render conto in Sicilia del suo operato davanti all’ex console Leonzio, fu riconosciuto reo di malversazioni e sotto posto alla pena delle verghe. La cosa indignò profondamente il pontefice che rimproverò severamente Leonzio e soppresse la carica. Il prefetto ricomparve un secolo e mezzo dopo, ma subordinato al duca bizantino dal quale dipendeva l’effettivo governo della città. Nell’undicesimo secolo, invece, ritornò all’antico splendore, alla testa del Senato, fino a divenire carica ereditaria per i feudatari di Vico.

Il primo di essi ad assumerla fu Giacomo, nel 1146, signore di Viterbo e Orvieto. Ormai però questa figura era ridotta alla stregua di una carica politica in balia delle fazioni. Solo l’energico Innocenzo III riuscì a riprenderne il controllo. Il 22 febbraio del 1198 ottenne un giuramento di sottomissione e fedeltà. Il pontefice, dal canto suo, fece donò al magistrato la rosa d’oro. Con l’esilio di Avignone, i papi ritrovarono un prefetto nuovamente ribelle, perciò il cardinal Vitelleschi, inviato da Eugenio IV a riportare ordine a Roma, attaccò Giacomo da Vico, gli tolse i feudi e lo fece poi decapitare nel 1435. Da quel momento la carica di prefetto fu esclusivamente onorifica. L’ebbero Francesco Orsini, conte di Trani, nel 1435, Giovanni Antonio Orsini, conte di Tagliacozzo, nel 1456, Pietro Borgia, nel 145, Antonio e Pietro Antonio Colonna, sotto Pio II, e poi uno stuolo di membri della famiglia della Rovere sino al 1516, quando Leone X depose Francesco Maria della Rovere sostituendolo col nipote Lorenzo de Medici. Successe a lui Giovan Maria Varano, duca di Camerino, nel 1519, ritornò al della Rovere nel 1523, poi passò ad Ottavio Farnese, a suo fratello Orazio, a Guidobaldo II della Rovere. La famiglia possedette l’onorificenza sino alla morte di Francesco Maria II, nel 1631, quando il casato si estinse e venne soppresso il ducato di Urbino. L’ultimo prefetto di Roma fu Taddeo Barberini, la sua famiglia conservò il titolo decorativo ma la prefettura di fatto restò abolita.

Fu sempre una carica ben distinta da quella del prefetto di Castel Sant’Angelo, deputato al controllo della fortezza e attento alla sicurezza della città assieme al capitano della guardia pontificia, a sua volta coadiuvato dal gonfaloniere, o vessillifero, solitamente unita a quella di capitano generale delle milizie.

Mentre il governo della città spettava ad un governatore, capo della giustizia criminale e tutore del mantenimento dell’ordine pubblico, il prefetto di Roma aveva un ruolo assai misero. Doveva esserci infatti solo in alcune circostanze particolari, come l’incoronazione di un nuovo papa. Doveva essere pure presente nelle cavalcate del pontefice nei giorni di Natale, Santo Stefano e Pasqua. In tali circostanze doveva tenergli il cavallo, reggergli la staffa, aiutarlo a salire in sella e condurre il destriero per il freno, sostituendo un ufficio che era stato riservato all’imperatore. Giulio III volle pure un governatore di Borgo cui affidò la sicurezza del palazzo apostolico e della città Leonina, mentre le funzioni del prefetto divenivano quelle di un valletto: portava l’acqua al papa quando questi doveva detergersi le mani, infine era lui ad andare in contro all’imperatore, fuori la città, quando questi si recava in visita al papa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

Bibliografi: P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento in Storia di Roma, volume XIII

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