Il problema delle bonifiche di Terra di Lavoro nel Cinquecento

Sotto il governo del vicerè Pedro de Toledo, scrive Scipione Miccio, “era la città di Napoli nel tempo de la estate oppressa da molte infermità: e la cagion principale era la corrozion de l’aria de le paludi circostanti, che sono dal territorio di Nola sino al mare, camminando per quel di Marigliano, de l’Acerra, la Fragola, e de Aversa; la qual corrozione alcuna volta aumentava tanto, che gran parte di Terra di Lavoro infestava. Al che il Viceré vi diede tal rimedio, che è divenuta la più sana terra del mondo…”.

Una prammatica del 1518 istituiva un governatore addetto alla custodia et gubernatione lanei terre laboris, ovvero alla manutenzione degli alvei di Terra di Lavoro che, senza veri argini, carichi di acqua piovana, esondavano diffondendo distruzione e pestilenze. La carica aveva durata di sei anni e fu attribuita, dal 1534 al 1537, ad Antonio Dixar, cui il Toledo affidò pure il compito di studiare il problema della navigabilità del Volturno. Mancarono veri risultati e, dal Dixar, la carica passò a Cesare Cristoforo de Morano, ma nuove circostanze concorsero a consegnare il compito di “acconcio de lo lagno de la Cerra” al reggente della Sommaria e del Consiglio Collaterale, Sigismondo de Coffredo. Una vera e propria deputazione subentrò poi il 6 maggio del 1539.

Luigi Empo, Alessandro Brancaccio e Felice de Gennaro andarono a comporre la Giunta dei Regi Lagni. Questa istituzione annoverò un luogotenene della Regia Camera, l’avvocato fiscale del Regio Patrimonio, un presidente commissario, un eletto del popolo, un credenziere a tutela degli interessi del Regio Fisco, un ingegnere ed un precettore per la riscossione delle imposte. La spesa per la manutenzione degli alvei, infatti, sin dal 1466, per volontà di re Ferrante d’Aragona, gravava sui comuni attraversati dai canali.

Tante disposizioni non diedero buoni risultati ed il viceré stravolse ancora le carte in tavola e concesse il compito di studiare rimedi ai danni di inondazioni ed acque palustri a Colantonio Caracciolo. Delle opere da questi disposte si conoscono solo i restauri al ponte di Selice, quelli al ponte di Casolla e la costruzione del lagno della Pietra o del Gorgone.

Uno dei più seri problemi incontrati dal Toledo fu rappresentato dall’ostilità del ceto baronale. I baroni manifestarono disinteresse, o peggio ancora, opposero resistenza contro ogni proposta di bonifica e prosciugamento e l’amministrazione dello Stato, non ricevendo da essi né grandi contributi né stimoli, si ritrovò sola, impossibilitata pure ad insister troppo con provvedimenti, decisamente impopolari, di maggiori riscossioni dalle università. Il vicerè fu piuttosto isolato, ma Scipione Miccio, nella sua Vita di don Pietro di Toledo, continua scrivendo: “…fece fare in mezzo di detto paese un gran canale fondo, con argini alle riviere, chiamato Lagno; nel quale, per molte vene fece che tutte le acque de le paludi, a guisa di un fiume, corressero: per lo che dette paludi diventarono secche. Oltre di ciò li fece arare e coltivare; e ordinò che detto rimedio si mantenesse sempre, con poca spesa…”.

Non andò proprio così. Al Toledo va attribuito molto meno, essenzialmente l’avvio di una seria politica di bonifica dei dintorni di Napoli.

Il vicerè era ben consapevole che la disciplina delle acque avrebbe permesso il recupero agrario di una vasta area pianeggiante che, a differenza della capitale, viveva un costante declino demografico, tuttavia tanti faticosi progetti risultarono infecondi. Sul finire del secolo restavano tutti i problemi, nessuna bonifica aveva avuto luogo, così i posteri, a cominciare da Garcia Barrionuevo, marchese di Cusano, autore del Panegyricus, dimenticarono l’impegno del Toledo assegnando esclusivamente al vicerè Pedro Fernandez de Castro i meriti esclusivi della risoluzione della grana del regime delle acque della pianura campana.

Dopo l’epidemia malarica del 1594, il governo vicereale assunse maggiore decisione nei propositi di risanamento idrico della fertilissima pianura sita a nord di Napoli. Già Juan de Zuniga y Requesens aveva rinnovato la struttura tecnico-amministrativa facente capo alla Giunta dei Regi Lagni, ma sul piano operativo, nel 1589, essa si era solo limitata a conferire l’appalto del taglio dell’erba che cresceva lungo l’alveo del Clanio. Questo viceré però si preoccupò di raccogliere documentazione necessaria per la bonifica, s’appellò a diversi ingegneri regi ed ordinò un sopralluogo tecnico che durò ben trentatré giorni e così tremila ducati. Alla fine ottenne schizzi e misurazioni.  Sotto l’impulso dell’ingegnere Benvenuto Torelli, lo Zuniga avrebbe voluto creare un canale tra il ponte di Acerra e quello della Maddalena “acciò si possano asseccare li lagni, et padule della città”, ma c’erano cospicui interessi in gioco relativi all’acqua sia come fonte di energia per l’attività molitoria sia come alimentazione della coltivazione e della macerazione di canapa e lino. Proprio l’indisciplinata diffusione di suddette industrie nella pianura del Clanio generava gli impaludamenti, tuttavia i mulini erano di proprietà di potenti feudatari e monasteri. La loro opposizione ad ogni bonifica, ancora una volta, generò l’accantonamento dei progetti.

Quando nel 1610, per volontà di Conte di Lemos e sotto l’egida di Giulio Cesare Fontana, iniziarono i lavori per la realizzazione dei Regi Lagni il viceregno spagnolo osava affrontare un problema che da secoli attanagliava la Campania Felix. Le continue inondazioni del fiume Clanio, infatti, tormentavano le popolazioni locali e impedivano lo sviluppo urbanistico sin dall’epoca romana quando Livio e Virgilio descrivevano Acerra e Liternum come siti spopolati e assediati dalle acque. Tali effetti negativi si accentuarono nel Medioevo e persistettero sino al tramonto Cinquecento, quando il viceré Pedro de Toledo iniziò a mostrare attenzioni per certe problematiche.

I Regi Lagni sono canali rettilinei che raccolgono acque piovane e sorgive convogliandole dalla pianura a Nord di Napoli per oltre cinquantasei chilometri da Nola verso Acerra e quindi al mare, tra la foce del Volturno ed il lago di Patria, estendendosi lungo centodiecimila ettari pianeggianti dalle grandi qualità agrarie, delimitati a nord-ovest dal litorale domizio e dal bacino del Volturno, a sud-est dall’area casertano-nolana ed a sud-ovest dai Campi Flegrei. Si tratta di un’opera realizzata da architetti di talento come Fontana, Tortelli, Casale… che va a comporre un complesso sistema di drenaggio svolgendo una funzione fondamentale per la tutela dell’equilibrio idro-geologico e rappresenta una delle opere maggiori di quel tempo.

L’opera di bonifica del Conte di Lemos realizzò canali e collettori per le acque, rettificando il corso del Clanio, alimentato oltre che dalle acque pluviali, anche dalle acque di Mefito, Calabricito e del Somma. Fu tutto concluso nell’arco di sei anni sulla base di un preciso progetto che considerava attentamente questioni geografiche e morfologiche e poneva definitivamente fine al problema delle inondazioni. Oltre ad essere un bene storicamente rilevante, i lagni sono anche qualcosa da conservare in maniera responsabile e attiva per la difesa del territorio. Al contrario, proprio l’assenza di attenzione e consapevolezza della loro utilità – e al contempo della delicatezza – , fa si che oggi versino in un indecoroso stato di abbandono.

I Regi Lagni servivano a drenare l’acqua da zone come quella di Sarno che rischiava di franare anche allora ed in più, in quanto sede di una notevole sedimentazione di detriti erosi dalle circostanti fasce montane. Ormai scomparsi i filari di pioppi settecenteschi, distrutti i mulini e gran parte dei ponti in muratura – spesso sostituiti con anonimi manufatti in cemento – , i lagni si distendono in un contesto in cui i centri urbani che continuano caoticamente a dilatarsi, dislocati a destra e a sinistra del loro tracciato. Tutto ciò mette a rischio la tenuta degli equilibri morfologici.

Il vicerè si insediò in un momentro delicato. Nell’inverno del 1599 i territori di Marigliano e Nola finirono sommersi a causa della rottura delle “ripe” prodotte dalle abbondanti precipitazione e la cosa si era ripetuta nelle primavere del 1600 e del 1601 ed ulteriori allagamenti si verificarono nell’aversano. A poco eran valsi i piccoli lavori di Domenico Fontana, architetto romano, ex-tecnico di fiducia di papa Sisto V, chiamato dallo Zuniga, ma bloccato dall’insufficienza dei fondi disponibili. Il Conte di Lemos dispose uno stanziamento straordinario di circa tremila ducati e finalmente assegnò a Giulio Cesare Fontana, figlio di Domenico, morto nel 1607, il compito di portare a termine i progetti paterni con grandi lavori di canalizzazione, prosciugamento, ricostruzione, tracciatura e rettifica dei corsi. L’ingegnere, divento Primo tecnico del Regno di Napoli, non solo rettificò l’andamento del Clanio, ma ne incrementò ed unificò le sezioni, la sua lunghezza fu triplicata per potervi contenere le acque fluviali e farvi affluire quelle sorgive. Inoltre furono costruiti nuovi canali, rafforzati con argini e lavori in muratura.

In sei anni il viceré investì duecentocinquantamila ducati, usufruendo di una serie di imposte stabilite dal suo predecessore, il Conte di Benavente, cui forse si deve il vero successo sui baroni riottosi ai progetti di bonifica e pronti a servirsi della corruzione dei pubblici ufficiali. Egli visitò i lagni il 12 aprile del 1616, appena due mesi prima di lasciare il regno.

Nel penultimo anno del suo viceregno, il conte di Lemos predispose severe misure di vigilanza e repressione per difendere i Regi Lagni dall’invandenza delle attività agricole, specialmente dell’industria della canapa e del lino.

Il 23 giugno 1615 fece promulgare una prammatica che fu costantemente riconfermata dai suoi predecessori. I canali andavano tenuti in uno stato di efficienza impeccabile, col ricorso a manutenzioni ordinarie e straordinarie cui i privati non potevano opporsi altrimenti tutta la pianura campana sarebbe precipitata in insalubrità, inondazioni, allagamenti, morbi.

In considerazione dei danni agli alvei causati dal transito di animali e carri, dal pascolo lungo gli argini, dallo scarico di rami ed erbacce provenienti dai terreni circostanti e dalle “parate” ossia dagli sbarramenti eretti per la pesca delle anguille, per prelevare acqua o per effettuare la macerazione di lino e canapa, furono introdotte sanzioni, confische, torture e carceri.

La Giunta dei Regi Lagni consentì che la macerazione di canapa e lino si facesse ma solo lungo i vecchi lagni, tollerandole per un numero di giorni prestabilito, non ammise mai le “parate” perchè esse ostacolando il corso dell’acqua, danneggiavano i terreni più a valle. Di solito lo sbarramento si predisponeva nell’alveo del “lagno mastro” cosicchè la poca acqua presente nei periodi estivi entrasse nella “mezza luna” praticata a lato. Quando sopraggiungeva però la stagione delle piogge, bisognava eliminare l’ostacolo, altrimenti tutti i terreni circostanti finivano allagati. La disciplina del Lemos si mostrò così giusta che si ritrovava riproposta ancora nel Regolamento per la polizia dei Regi Lagni di Terra di Lavoro nel 1833.

Le violazioni delle regole inerenti l’industria della canapa però furono enormi. Alla fine del Settecento l’aria di Acerra era “molto nociva, specialmente di estate, e di autunno, per ragioni della matura dè canapi, che si fa nel bosco di Calabricito”, riferisce il Giustianiani. Per la stessa ragione disagi e problematiche varie affliggevano Marcianise, Casaluce, Casal di Principe, Aversa, Pomigliano d’Arco e Caivano, dove i fusari lasciavano “gli stipiti di quella pianta triturati nelle pubbliche strade, vanno quelli a marcirsi colle piogge, ed infettono l’aria non poco, non senza pericolo di cagionar dell’infermità nell’autunno”.

Il Lemos dispose che i controlli spettasse a dei guardiani. Nel 1616 li guidava Giovanni Caliendo, ma in generale la loro scrupolosa attività trovava l’indifferenza dei feudatari di Terra di Lavoro. Tutto emerge nella “disputa del Porcile” del 1629 che riguardò Giulio Bonito, barone di Casapesenna e feudatario del Porcile perchè “l’acqua del lagno vecchio, che sta tra il Porcile et Arnone, non ha exito et sborra sopra detti territori”.

Scipione Rovito, presidente della Regia Camera, ordinò al barone di rimuovere dal corso dell’antico Clanio la terra e la vegetazione che lo intasavano ma Bonito non lo fece ed accusò i proprietari di altri canali vicini di generare i gravi problemi della zona, in particolare puntò il dito contro Prospero del Tufo. Furono mosse istanze, redatte memorie, coinvolti avvocati e commissari, ignegneri e tecnici, fatti ricorsi e appelli. Ogni avvocato fiscale della Regia Camera, ogni nuovo commissario, ogni ignegnere addetto ad eseguire perizie, non approdò a nulla e, dopo trenta anni, la questione era ancora aperta. Nel 1661 gli abitanti del casale di Arnone erano ancora soffocati dall’acqua.

Grande fu l’attenzione invece avuta per quest’opera nel corso dei secoli: già nel penultimo anno del suo viceregno, Pietro Fernandez di Casto, conclusa l’opera di bonifica di Caserta ed il Sud di Terra di Lavoro, predispose severe misure di vigilanza e di repressione atte a difendere i lagni dall’invadenza delle attività delle industrie di canapa e lino, e, nel 1749, Carlo di Borbone preoccupato di assicurare maggiore stabilità alle sponde degli alvei, ordinava la collocazione di pioppi su entrambi i lati dei Regi Lagni con un ritmo di seimila piantate l’anno. La bonifica seicentesca fu, inoltre, ripresa agli inizi dell’Ottocento e prosciugate le paludi di Acerra, Candelaro, Aurno, Loriano, Maddaloni, Sant’Arcangelo, Pozzobianco, Ponterotto, Pascarola, Apramo e Melaino, con nuovi lavori alle sorgenti della tenuta di Carditello. A seguito di un decreto reale del 1839 fu, poi, la volta dei lavori al bacino inferiore del Volturno, imponenti opere di bonifica che comportarono il tracciamento di molte strade come la Capua-Santa Maria la Fossa-Grazzanise, la Arnone-Castel Volturno e la Pozzuoli-Qualiano-Giuliano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: G. Fiengo, Il bacino idrografico dei Regi Lagni

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