La Battaglia di Montorio descritta da Camillo Porzio

Traiamo dall’opera “Congiura dei Baroni” di Camillo Porzio il racconto della Battaglia di Montorio del 1486 in cui aragonesi ed Orsini sconfissero i pontifici guidati da Roberto Sanseverino.

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Roberto, veduta del Duca la mossa, congetturò ove s’indirizzasse; e disperato di poter dare all’unione di quelle genti impedimento, venne in sospetto che il Duca, ritrovandosi senz’alcun ostacolo dalle parti dell’Aquila, non tentasse quella città occupare: di maniera che, per assicurare con la presenza sua gli Aquilani, si mosse anch’esso verso quel paese, con gran sodisfacimento del papa e grandissimo de Romani, entrati in isperanza dal terreno loro in quello del Regno doversi trasferire la somma della guerra. Poco spazio corse tra l’arrivata di Roberto in Abruzzi e la ritornata del Duca: il quale, o dubitando che in Campagna di Roma condottosi, Roberto entrasse da poi nel cuore del Reame, e gisse a ritrovare li Baroni; o pure per le cose dell’Aquila tentare; n’andò all’acquisto di Montorio: il quale, come luogo forte, da molti nobili aquilani, parenti del Conte di Montorio, sin dal principio della guerra era stato guardato, e riputavasi allora per la qualità del sito e per la vicinanza dell’Aquila destro a disturbare la maggior parte di quella provincia. È alla costa di monte situato: dalla parte di basso verso il piano, vien guardato dal fiume Umano, che il borgo quasi gli batte; dalla parte soprana, l’asprezza del terreno e la rocca il rendeva sicuro. Il fiume Umano scaturisce da montagna alla terra di Montorio assai vicina: sicchè dinanzi a lui egli è povero di onde e leggermente si può varcare; ma il suo letto è tanto tortuoso e di sassi si pieno, che aggiuntoci l’impedimento dell’acqua, a cavalli e fanti ordinati si rende spiacevole a passare. Era presso Montorio un luoghetto, con una torre da difendersi. Questo, prima che la terra, assalì il Duca; e vintolo, fortificollo, passatovi con tutto l’esercito ad alloggiare: di dove non meno con le persuasioni che con le forze tentava d’indurre que di Montorio a rendersi. Il che temendosi che ciascun di potesse avvenire, gli Aquilani strinsero Roberto a soccorrerlo: il quale, o volonteroso di combattere o per animar solamente gli assediati a tenersi, si fe innanzi, e non più che due miglia lungi dal Duca accampossi. Non parve al Duca di Calavria, avendo il nimico si presso, pensar più ad espugnare Montorio; acciocchè i suoi soldati, occupati nell’assalto o nel sacco della terra disordinati, di predatori non diventassero preda al nimico. Volle più tosto, trovandosi da mille cavalli di vantaggio, tentar la battaglia. Nè da Roberto fu ella fuggita; sì per non insospettir più il papa de’ suoi progressi, come che non teneva conto del numero maggiore della cavalleria nimica; essendo di fanti uguale, ed in paese montuoso ritrovandosi, non solamente inetto a maneggiar cavalli, ma ripieno di luoghi stretti e precipizii, ed ove poca banda di gente a qualunque numeroso esercito avrebbe potuto vietare il passo…

Adunque con sì fatte genti, ordini ed armi, i due eserciti pieni di speranza alla battaglia s’appresentarono. Alle schiere, dall’un de’ lati, Roberto e due suoi figliuoli, Prospero e Fabrizio Colonnesi, furono soprastanti; le contrarie guidavano il Duca, il Conte di Pitigliano e Virginio Orsino, Giovan Francesco Sanseverino, Marsilio Torello, Gian Iacopo Triulzi: uomini tutti allora pregiati in fatti d’armi, e capitani assai chiari e famosi; gli animi de’quali non che pregni di emulazione di gloria, ma per contrarii umori delle fazioni, e vecchie e nuove ingiurie, erano intra di loro più che fussin mai inacerbiti. Sicchè, avendo temenza che agli lor odii non corrispondesse l’ardore de soldati, con varie arti e persuasioni contra il nimico l’accendevano. Roberto agli occhi de’ suoi rappresentava la timidità degli avversarii fuggitisi poco innanzi vituperosamente dal suo cospetto, e da essi su per le colline assediati; ed ora non venire alle mani con isperanza di vincere, ma per far prova se que pochi de’Milanesi, col numero, anche l’animo avessero loro aggiunto: ma che entrassero nella battaglia sicuri; chè non più briga, ma preda maggiore coloro aver lor arrecato. Essere a lui paruto suo dovere, prima si dipartisse da questo mondo, menare li suoi soldati, che l’avevano di tanta riputazione arricchito, in lato che col mezzo della virtù loro si potessino dalla povertà trarre, ed il rimanente del loro giorni in pace e fuor delle belliche fatiche godersi: la qual cosa, la Dio mercè, gli era venuta fatta; perocchè quel di metteva ne’cuori e nelle loro mani il potere un regno conquistare, copioso di tutte le cose desiderabili all’uomo, ed il cui possessore, non che altro, all’Italia dava legge. Essi non dovere sperare, lasciatasi uscire dalle mani la presente occasione, che gliene potesse mai più la simigliante porgere, essendo col piè sulla fossa; nè volendo, col tentare spesso la fortuna, far vergognoso il fine di quella vita il cui principio e mezzo aveva cotanto onorato. Il Duca non con altre persuasioni il suo esercito infiammava, che facendolo capace di quanto fusse a’nimici superiore, e come in lato veruno non aveva altro armi nè altri capitani. Quivi le sue forze e de’confederati aver ragunate, per un tratto l’Italia liberare, tanti anni vessata da’ladroni di Roberto da Sanseverino: a quali si diponessino avere a servire, e far loro preda le sostanze, le mogli e i figliuoli, posto che della loro virtù si dimenticassino. La quale poco era che con seco per mezzo i corpi di quelli stessi si era fatta la strada, lor mal grado passando per tutto il dominio ecclesiastico: nè gli poter nell’animo capire, essi voler più tosto, usando viltà, sottoporsi all’imperio di Roberto, capitan di ventura, che, adoperando valore, quel di un figliuolo di un re conservare, allevato e vivuto sempre ne’ campi e fra di loro, e che per lunga sperienza avevano veduto essere il primo ad entrar nelle fatiche e l’ultimo ad uscire; come quel di più che mai, o seguito o abandonato, era per dimostrare…

In cotal guisa da l’una e l’altra parte gli animi dei soldati irritati, diedero nelle trombe e ne tamburi, e da più lati l’assalto principiarono. Gli uomini d’arme, rotte con gran fracasso le lancie, ed urtatisi, quei che fuor delle selle non uscirono, posto mano agli stocchi ed alle mazze, e con grandissimo strepito rivolte le teste de’cavalli, si ritornarono a ferire. I fanti, dall’altra parte, con alte grida e percosse si mescolarono: i balestrieri, or contra sè medesimi scaricavano le balestre; altra volta li fanti e gli uomini d’arme saettavano. Viddensi molte fiate in piega i Papali, e molte gli Aragonesi si ritirarono: i capitani, con voci e con mani, non men l’ufficio loro che di buoni soldati adempievano. Ma quando le schiere de’ Colonnesi e degli Orsini per avventura s’incontravano, si raddoppiavano allora i colpi; cessavano le voci, ma le braccia sopra l’usato si adoperavano. Sovvenivano a Colonnesi le vecchie ingiurie, le fresche agli Orsini. L’uno il desiderio di difendere la patria inanimava, l’altro la speranza di conquistarla: amendue rendea feroci il combattere nel cospetto di tutta l’Italia, ed il volere si chiarisse quale delle due fazioni nella guerra prevalesse. I soldati di Montorio, armati, corsi alle mura, talora mesti e taciti, talor lieti e gridanti, da lungi la pugna riguardavano. Il volgo inerme e le donne, fattesi alle finestre e su pe’tetti, co’pallidi volti attendevano il fine della giornata; anzi in qua ed in là, secondo i varii movimenti de’guerrieri, col corpo torcevansi. Ma Roberto nell’estrema parte del giorno, o dubitando della perdita, o della vittoria diffidando, mentre che gli animi de’combattitori più che mai erano accesi e intenti alla contesa, si cominciò a ritrarre dalla pugna; e con tanto disordine, che aggiunse animo a nimici, e sin dentro li suoi steccati lo rincalzarono : i quali anche combattuti avrebbe il Duca e forse vinti, se l’oscurità della notte non gli avesse guardati. Nè si creda alcuno, li fatti d’arme di que tempi per ostinazione o gagliardia de’ soldati i giorni interi essere durati, ma si bene perchè le schiere non insiememente prendevano battaglia, ma l’una dopo l’altra successivamente; sicchè alle fiate, molte di loro, per mancamento della luce, stavano nelle giornate spettatrici in vece di combattitrici: le quali battaglie, tra per questo, e le poche ferite e morti che in esse avvenivano, a giostre e torneamenti più che a nimichevoli zuffe rendevano simiglianza.

 

 

Fonte foto: dalla rete

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