La Mefite di Rocca San Felice

Singolare è la storia della Mefite di Rocca San Felice, luogo pericoloso per le sue esalazioni tossiche in cui si tributava culto ad una dea degli inferi.

“C’è un posto nel mezzo dell’Italia sotto alti monti, / nobile e celebrato per fama in molte contrade, / la valle di Ansanto: questo luogo è chiuso da entrambi i lati / da nereggianti pendici boscose e in mezzo un fragoroso torrente / fa rumore per i sassi e per il tortuoso vortice. / Qui si mostrano un’orribile spelonca e gli spiragli dell’implacabile Dite, / e dallo squarciato Acheronte (Averno) una grande voragine / spalanca le pestifere fauci; qui si gettò l’odioso nume / della crudele e spaventosa Erinni e disappestò terre e cielo”, così Virgilio nel VII libro dell’Eneide descrisse l’esalazione mefitica della Valle di Ansanto, in Irpinia.

Le foreste oggi non ci sono più, ma la mefite di Rocca San Felice resta, un’area pianeggiante arida e desolata dal colore grigiastro con chiazze gialle. L’intero paesaggio è sprovvisto di vegetazione e dominato dai gas solforosi provenienti dal sottosuolo e che, a contatto con l’acqua, generano un ribollire di esalazioni tossiche e maleodoranti.

Il fenomeno naturale delle esalazioni sulfuree fu concepito dall’uomo come un segno divino e fu eretto un tempio in onore della dea Mefite, dapprima considerata protettrice della salute, patrona delle acque e dei campi, poi vista come entità malefica, divinità degli inferi.

L’esistenza di un tempio è confermata da Plinio che in un passo della sua Naturalis Historia scrive: “Li chiamano spiragli, altri Caronee, fosse esalanti soffio mortifero, come quelle di Ansanto tra gli Irpini in un posto vicino al Tempio di Mefite, dove coloro che sono entrati muoiono”. In effetti, gli scavi compiuti a partire dagli anni Cinquanta del Novecento hanno portato alla scoperta di numerosi reperti che attestano la presenza di un antico insediamento sannitico-romano. Il materiale è conservato al Museo Irpino di Avellino e comprende oggetti d’ambra, d’oro, argento e bronzo, di particolare interesse sono le statuette fittili ed ex voto testimonianza del culto alla dea Mefite.

Qui si recavano i pellegrini a rendere omaggio al sacro nume con doni e sacrifici. Il ritrovamento più importante è sicuramente un gruppo di Xoane, sculture lignee a figura umana dai tratti arcaici, hermai o pseudohermai del VI-V secolo a. C., strutture sostanzialmente simili a dei pilastri, quasi intatte. Presso il Museo Irpino ne sono conservate tredici. Esse rappresentano la prima testimonianza dell’uso italico di scolpire il legno ed, al contempo, le più antiche raffigurazioni della dea Mefite.

La bocca degli inferi, il luogo d’incontro con l’aldilà ed i defunti, un posto lugubre e misterioso che incute soggezione, non merita però di restar fuori dai grandi circuiti turistici. Il santuario costituì, come testimoniano le monete, non solo per gli Irpini, un’importante area di culto e la sua rilevanza storica ci sprona a consigliarne la conoscenza.

Questa particolare località nel Principato Ultra condizionò la vita di Vincenzo Maria Santoli, nato a Rocca San Felice il 24 maggio del 1736, sacerdote e studioso di antichità. Santoli fu membro dell’Accademia Ercolanense, istituita da Carlo di Borbone e sempre vicino ai sovrani di Napoli. Il 17 aprile del 1783 regalò a Ferdinando IV una apprezzatissima malachite di color cangiante con leggenda in greco e raffigurazione di Pallade Galatea, trovata nel bosco di Ferentina, antica città del Sannio. Più tardi dettò l’epigrafe per la morte del padre Carlo. Di Rocca San Felice divenne parroco e qui coltivò i suoi studi di zoologia, scienze naturali ed archeologia con ricerche sui termini graccani e l’esatta ubicazione dell’Ansanto, nonchè sul culto della dea Mefite. A lui si deve il rinvenimento di lapidi, corniole, vasi e gioielli presso il distrutto tempio pagano della dea Mefite. Qui rinvenne la malachite donata al re, una sardàgala di variopinti colori con l’intaglio del dio Buon Evento, un cammeo con Diana Cacciatrice ed una gemma con Zenobia, regina di Palmira. Nel 1793, osservando l’insolita ebollizione delle acque della zona ne registro l’innalzamento di oltre tre metri accompagnato da rilevazioni di fumi e fiamme di fosforo. Erano i segnali di un imminente terremoto che avrebbe anche preceduto l’eruzione del Vesuvio del 1794. Tutto fu riportato nell’opera “Narrazione dei fenomeni osservati sul luogo irpino” nel 1795; aveva già pubblicato uno studio avveniristico sull’importanza del carbon fossile e, di lì a poco, in una Europa che soffriva il blocco economico napoleonico, avrebbe stampato pure “Ricerche su una nuova specie di caffè” in cui dimostrava come semi di asparagi torrefatti avessero un odore gradevole e potessero divenire surrogati del caffè. Genio che il Mommsen osò definire “princeps et primarius auctor, scriptor fide dignus”, si spense a Sant’Angelo dei Lombardi il 10 febbraio del 1804.

 

 

Autore: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

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