L’amministrazione della giustizia nella Sicilia di Carlo V

Accostare la parola giustizia alla sua effettiva amministrazione nella Sicilia del XVI secolo potrebbe sembrare quasi un ossimoro. Dallo studio delle fonti si ricava una situazione a dir poco drammatica, in cui l’impunità fa da padrona indiscussa e anzi gli unici a pagare erano coloro che non potevano contare su amici potenti o abbastanza denaro per corrompere i magistrati. Gli stessi organi giudiziari erano strutturati in modo tale da propagare e tenere in vita questo sistema malato, risaputa è la presenza di diversi fori e giurisdizioni cui si poteva ricorrere e rifugiarsi a secondo del ceto di appartenenza, ciò corroborava e contribuiva all’impossibilità di procedere ad un’equa amministrazione della giustizia.

In epoca moderna si riscontra uno scollamento tra le statuizioni delle prescrizioni normative e le interpretazioni dottrinali prodotte dagli operatori del diritto. Già dal XV secolo era vivida la necessità di lasciarsi alle spalle lo studio dogmatico del diritto rappresentato dal bartolismo e occuparsi delle esigenze concrete che i palazzi di giustizia richiedevano, il commento era superato o per lo meno era ancora utile a fini didattici, mentre per esercitare la professione forense era necessario fare un passo avanti e sganciarsi da quegli schemi che l’autorevolezza di Bartolo da Sassoferrato o degli altri grandi giuristi trecenteschi[1] avevano tracciato. La successiva generazione di giuristi credeva di non poter superare quei mostri sacri, vi era la convinzione che “nemo iurista nisi sit bartolista“. Il filone di giuristi attento alle esigenze pratiche diede vita al cd. mos italicus, riuscendo a divincolarsi dalla morsa del commento e introducendo due generi letterari molto più utili ai fini pratici: il tractatus e i consilia.

Con la produzione di trattati si voleva procedere ad un’organizzazione sistematica di una determinata materia giuridica ritenuta di fondamentale rilevanza per scopi pratici. I trattati rappresentavano uno strumento utilissimo e di semplice consultazione per gli operatori del diritto, fornendo tutte le informazioni del caso a cui rifarsi per procedere a giudizio, se utilizzato da magistrati, o alla comprensione degli aspetti della questione, se utilizzato da giuristi. Le materie assenti all’interno del Corpus Iuris Civilis erano proprio quelle oggetto dei trattati, la ragione stava nella capacità di fossilizzazione che un autorevole testo come quello giustinianeo poteva avere su una materia o che molto più semplicemente tali materie non vi erano incluse, data la vetustà delle fonti romane, riferendosi ad esigenze nate in epoca moderna. Si pensi ai trattati prodotti nel XVI secolo in materia penale, commerciale e marittima[2], erano tutte materie che dovevano rispondere e dare certezza ad esigenze sicuramente differenti rispetto a quelle trattate nella raccolta giustinianea.L’altro strumento che rispondeva alle necessità pragmatiche della sfera giuridica furono i  consilia. Erano, come si evince dal nome, delle produzioni letterarie con la funzione di fornire un’interpretazione dottrinale sia sui diritti locali come anche sul corpus iuris civilis. Il ricorso ai consilia ebbe una portata non indifferente in una società in cui l’incertezza del diritto e della pena provocavano dei vuoti legislativi che dovevano essere in qualche maniera colmati, comportando una crescita esponenziale del potere del ceto magistratuale a discapito dell’autorità regia. Si distingue tra questi: il consilium pro parte, era un parere fornito da un giurista esperto ad una delle parti di una controversia, tramite il quale si producevano le argomentazioni giuridiche necessarie per sostenere la posizione del cliente che aveva richiesto il parere. Il consilium pro parte per sua natura non aveva e non poteva avere valore vincolante per un giudice, era da considerare alla stregua di un memoriale prodotto da un privato, sebbene nella pratica se il giurista “consigliatore” costituiva una fonte autoritaria poteva condizionare l’emissione della sentenza; il consilium pro veritate o sapientis iudiciale era il parere richiesto dal magistrato a un giurista, tale situazione si verificava dinanzi a questioni spinose in cui era necessario l’intervento di un professionista esperto di diritto, al contrario del consilium pro parte aveva carattere vincolante per la decisione del giudice. L’inizio del tramonto dell’età dei “consigliatori” può rintracciarsi nel momento in cui vennero istituiti i cd. grandi tribunali, che si inserivano in quell’ottica di accentramento assolutistico del potere regio.

Sotto Carlo V si assiste a questa transizione, che chiaramente non fu ex abrupto e richiese un lungo periodo di assestamento. I consilia lasciavano il posto alle decisiones e le communes opiniones[3] non avevano più la portata autoritaria derivante dalla fonte che le aveva emesse, si potrebbe paragonare questo sistema ad un sorta di ordinamento giuridico di common law in cui è il precedente giurisprudenziale a fare legge. Con l’avvento dei tribunali supremi le communes opiniones per avere valore dovevano essere riconosciute, recepite e inserite nella sentenza, solo così assumevano rilevanza giuridica. A questo punto il ruolo del giurista “consigliatore” venne via via sostituito dalla professionalizzazione del magistrato che doveva essere laureato in utroque iure, cominciarono così ad effettuarsi raccolte di decisiones emesse dai tribunali che andavano a costituire la giurisprudenza cui bisognava attenersi nell’emissione delle sentenze, in modo da fornire una sorta di certezza ad un ordinamento giuridico che chiaramente presentava delle lacune. Si assiste a quella differenziazione tra tribunali minori e superiori, ognuno con le proprie sfere di competenze e con la propria capacità di incidere nel panorama civico e statale. I tribunali inferiori dovevano obbligatoriamente conformarsi alle prescrizioni dei tribunali supremi.

Le decisiones dei supremi tribunali erano divenute nella sostanza fonti di produzione del diritto, anche se formalmente esse non ebbero mai questo riconoscimento effettivo, l’onere di creare diritto restava prerogativa delle norme regie. Come spesso succede leggendo le fonti archivistiche tra teoria e prassi vi è una differenza abissale.

Indagando la realtà giudiziaria siciliana si nota una dicotomia complementare nell’amministrazione della giustizia, da un lato abbiamo la giustizia feudale[4], la cui ragion d’essere risiedeva nel possesso del mero e misto impero da parte del feudatario, dall’altro abbiamo la giustizia ordinaria o regia, dove le magistrature cittadine di prima istanza erano la corte pretoriana, presieduta dal pretore, con competenze in materia civile e la corte capitanale, presieduta dal capitano di giustizia, con competenze in materia penale. Entrambe le corti erano composte, oltre al presidente, da due giudici[5]. Gli organi superiori ovvero i tre grandi tribunali del regno di Sicilia erano: la regia gran corte, il tribunale del concistoro e il tribunale del real patrimonio. La regia gran corte era abilitata a giudicare in ambito civile, penale o feudale ed era organo di appello contro le sentenze delle corti feudali o dei tribunali di prima istanza; aveva, inoltre, competenza esclusiva per i reati di lesa maestà e per le cause feudali. Il Tribunale del Concistoro o della Sacra Regia Coscienza e delle cause delegate, da quanto si evince da alcuni memoriali, era organo d’appello per le cause civili[6] discusse dinanzi la regia gran corte e al tribunale del real patrimonio, inoltre risolveva conflitti di competenza tra i giudici; fu oggetto di una profonda riforma sotto Filippo II, nel 1569, che abolì il maestro giustiziere e lo sostituì con un presidente del tribunale[7]. Per ultimo, ma non per ordine di importanza, il tribunale del real patrimonio con competenze in materia fiscale e di finanza pubblica.

 

 

Autore articolo: Davide Alessandra, laureando in giurisprudenza e studente di archivistica, paleografia e diplomatica presso la scuola dell’Archivio di Stato di Palermo.

 

[1] Si ricordano Baldo degli Ubaldi e Cino da Pistoia.

[2] Per la materia penale si ricordano le opere di Tiberio Deciani (Tractatus criminalis, 1590) e di Prospero Farinaccio (Praxis et theorica criminalis, 1594), mentre per l’ambito commerciale e marittimo Benvenuto Stracca (De mercatura sive de mercatore, 1553) e Sigismondo Scaccia (Tractatus de commerciis et cambio, 1619).

[3] La Communis opinio: prese vita dopo la produzione sterminata di commenti, consilia e opiniones. In sostanza, presentata una determinata questione, l’operatore del diritto verificava l’opinione delle massime autorità della dottrina in merito. Il criterio era semplice se più giuristi affermavano una determinata soluzione essa era sicuramente quella corretta e da seguire. Questo era il sistema utilizzato per superare l’incertezza del diritto e le contraddizioni.

[4] L’argomento della giustizia feudale dipendente dal possesso del mero e misto impero è stato già trattato nelle pagine precedenti, pp. 23-26.

[5] I medesimi giudici presiedevano sia nella corte pretoriana che nella corte capitanale. Nel 1579 i giudici diverranno tre.

[6] In sede criminale la revisione delle sentenze era prerogativa della regia gran corte.

[7] Si vd. F. P. Castiglione, Dizionario delle figure, delle istituzioni e dei costumi della Sicilia storica, Sellerio Editore, Palermo, 2010.

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