Le due mani di Cervantes

Archetipo, non semplice personaggio

In una grande libreria generalista romana il settore dedicato al teatro è affidato ad uno scaffale all’incirca alto un metro e mezzo e largo due metri. Da un lato di detto scaffale si trova tutta la produzione teatrale mondiale disponibile in quella libreria; l’altro lato è interamente dedicato all’opera di William Shakespeare.

Che l’autore inglese dalla ignota vita sia il drammaturgo più rappresentato, pubblicato, studiato e trasposto su celluloide al mondo è un dato oggettivo. Ciò che è meno immediatamente comprensibile è perché, con le sue ventinove opere, riesca a oscurare i capolavori del Siglo de Oro, le centinaia e centinaia di commedie, tragedie, drammi e autossacramentales che sono stati prodotti dai geni di Calderon de la Barca, Lope de Vega e Tirso de Molina, per tacere delle opere dei drammaturghi francesi del XVII secolo Corneille, Racine e Molière.

L’unico autore che possa contrastare il dominio dell’Inglese, almeno in quanto a traduzioni, edizioni, studi critici e adattamenti teatrali[1](mentre un’aura negativa aleggia sulle trasposizioni cinematografiche che lo riguardano) è Miguel de Cervantes (1547-1616). E riesce a tenere a bada Shakespeare con una sola, sublime opera: Don Chisciotte o, più esattamente, Elingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, pubblicato nel 1605 (prima parte) e nel 1615 (seconda parte).

Con il suo capolavoro, Cervantes non ha scritto solo un’opera fondamentale della letteratura mondiale: ha anche creato un archetipo, che secondo vari critici si affianca alle figure incarnate da Amleto, Faust e Don Giovanni[2].

Ciò fa comprendere perché alla figura dell’hidalgo mancego siano dedicate riflessioni approfondite da parte non solo di studiosi di letteratura, ma anche di filosofi del calibro di Miguel de Unamuno e José Ortega y Gasset[3].

Un doppio equivoco

Una attenzione, quella dei filosofi, che al pubblico generalista può sembrare eccessiva, abituato com’è a considerare il Don Chisciotte un libro per bambini: infatti, la (s)fortuna in Italia del romanzo di Cervantes consiste nell’essere troppo… conosciuto! Assieme a Pinocchio, il cavaliere errante mancego è il personaggio più ricorrente nei libri per i più piccoli. Però Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi vengono proposte al grande pubblico non solo in edizioni riscritte, ma anche in una versione integrale, pur se con leggere modifiche linguistiche che permettono la lettura anche al pubblico nostro contemporaneo. Ma Pinocchio è comunque un racconto nato (e sviluppato) per bambini – nonostante certi tentativi di attribuirgli significati più profondi di quelli che il suo autore voleva dargli[4] – ed alla fine il lettore italiano medio giunge in ogni modo a conoscere un testo molto vicino a quello integrale scritto da Collodi nel 1883.

Al contrario – e paradossalmente – Don Chisciotte viene intralciato dall’essere uno dei personaggi più noti della narrativa per l’infanzia: dopo aver incontrato varie versioni per bambini, con adattamenti più o meno complessi a seconda delle diverse fasce di età a cui si rivolge l’editore, è facile che il lettore italiano medio (un lettore già di per sé poco portato ad approfondire e a leggere) possa addirittura ignorare che il romanzo completo di Cervantes non fa parte della lettura per l’infanzia ed è, anzi, di enorme complessità e contiene molto, molto di più che le sfortunate avventure del cavaliere errante e del suo scudiero.

Come l’hidalgo equivoca la vera realtà di ciò che lo circonda, così il lettore medio italiano è portato a confondere la reale natura del romanzo di Cervantes e tende ad affiancare il Cavaliere dalla Trista Figura ad un altro personaggio letterario: il protagonista delle Avventure del Barone di Münchhausen, anch’esso un classico per ragazzi, la cui versione estesa (rispetto agli adattamenti per i più piccoli) risulta alquanto noiosa, poiché in essa non si fa che aggiungere spropositi “minori” agli spropositi,ben più divertenti, già resi noti nelle riduzioni antologiche.

Completamente differente, invece,il caso del Chisciotte, che al di là degli episodi ben noti – dagli imprescindibili mulini a vento alle celeberrime “battaglie” contro eserciti di pecore ed otri di vino – contempla una serie di riflessioni letterarie, filosofiche, ironiche, sarcastiche, alternando alle assurde stravaganze del protagonista la sua più seria lucidità.

Per questo motivo è estremamente difficile trarre un film dal Chisciotte[5], perché il rischio di cadere nel grottesco, nella ripetizione delle sfortunate avventure, staccate dal resto degli elementi (filosofici, morali, letterari, ironici)è continuo. Purtroppo, non essendoci un obbligo scolastico allo studio del capolavoro cervantino, le riduzioni per l’infanzia che siamo abituati a leggere distolgono la maggior parte di noi dalla conoscenza integrale del romanzo (o addirittura di fatto gliela impediscono) e Don Chisciotte – almeno per i lettori di lingua italiana – rimane relegato nell’immaginario più diffuso come un romanzo per ragazzi.

 

Gestazione complessa

Notevole è la “storia interna” del libro, nato come una ulteriore novella esemplare[6] e sviluppato in maniera inimmaginabile. Presumibilmente, infatti, l’originaria novella esemplare doveva concludersi al capitolo sesto, con la fine del primo viaggio e la distruzione dei libri di cavalleria da parte del curato e del barbiere; con il settimo capitolo iniziainvece una seconda novella, “suggerita” dal consiglio dell’oste di trovarsi uno scudiero, novella che poi si dilata in romanzo: la “seconda uscita” della prima parte, in cui non è più solamente pazzo, ma un folle con sempre maggiori squarci di saggezza.

Il successo del libro, pubblicato a Madrid nel 1605, fu straordinario e tutti si attendevano il promesso seguito, che però tardò a venire. Come è noto, l’impulso definitivo giunse dal volume apocrifo Il Segundo tomo del ingenioso hidalgo Don Chisciotte de la Mancha, pubblicato nel 1614 dal misterioso e tuttora incognito Alonso Fernández de Avellaneda[7]: ciò spinse Cervantes, alquanto piccato, a por mano – o almeno a terminare – la proprio romanzo, che vide la luce l’anno successivo, inserendo una decina di riferimenti all’opera spuria e facendolo propendere per un finale che prevedeva la morte del protagonista, in modo da evitare un eventuale terzo libro di avventure. Il falso di Avellaneda può quindi a ragione considerarsi un lavoro decisivo nel determinare la fortuna del romanzo di Cervantes, obbligandolo a sviluppare e perfezionare i propri personaggi e la propria trama.Testo provvidenziale per la nostra letteratura, quindi, quella di Avellaneda, a discapito della propria grossolanità: altrimenti il “monco di Lepanto” si sarebbe interessato solo al Persiles[8] che riteneva essere il suo capolavoro, dimostrando ulteriormente di essere il peggior critico di se stesso (ma quasi tutti gli scrittori – va aggiunto – ritengono che la propria ultima opera sia la migliore).

Archetipo e modernità

Come accennato, il grande risultato raggiunto da Cervantes – e che rende immortale il suo capolavoro – è consistito nel creare non un semplice personaggio, ma addirittura un archetipo. Di conseguenza Don Chisciotte è attuale – non semplicemente moderno: attuale – anche a distanza di quattro secoli. Se Lazzarillo del Tormes è cronologicamente il primo romanzo spagnolo, per la sua amoralità non può rappresentare le Spagne letterariamente: di conseguenza il DonChisciotte, opera polifonica, sale più facilmente all’onore di essere il grande romanzo nazionale.Un altro punto imprescindibile per comprendere l’attualità del capolavoro viene sottolineato da un acuto critico come lo scrittore argentino Jorge Luis Borges:egli, pur preferendo Francisco de Quevedo come versificatore, considerandolo il massimo poeta di lingua spagnola, notava che questi non poteva essere considerato un poeta universale, poiché la sua maestria consisteva principalmente nell’elaborazione del linguaggio e, una volta allontanatosi da questo, per via della traduzione, diventa difficilmente comprensibile ed apprezzabile.

Ed è appunto il linguaggio che fa del Chisciotte un lavoro profondamente attuale, perché utilizza una parlata bassa (tranne quando fa la parodia dei romanzi cavallereschi) ed osa basarsi essenzialmente sul continuo dialogo tra padrone e servitore: si tratta di un unicum della letteratura, che non ha riscontro nemmeno in Shakespeare e che da un lato stupisce per l’accondiscendenza dell’hidalgo, dall’altro giustifica le digressioni (innanzitutto le “novelle esemplari” del Curioso indiscretoedel Capitano schiavo, ma anche la vicenda di Cardenio e Lucinda – che peraltro sarà subito imitata in Inghilterra[9]).

A differenza di Avellaneda – che si limita a reiterare le gesta “comiche” di don Chisciotte, facendone un personaggio monomaniaco, senza flessibilità né grazia –, Cervantes elabora un materiale inizialmente molto poco nobile in una storia che riesce a sviluppare sia maggiore leggerezza e dimensione onirica, oltre che ironica, ma anche ad essere profonda (soprattutto nei momenti di lucidità del protagonista) ed a trovare una conclusione perfettamente coerente – ancorché presumibilmente suggerita dall’uscita del “falso” – con il resto del romanzo.

Un altro elemento che separa nettamente il lavoro di Cervantes da quello dei suoi contemporanei è dato dal gioco metateatrale legato alla genesi dello scritto. Ben quattro, infatti, sono gli autori dell’opera: innanzitutto, naturalmente, Miguel de Cervantes Saavedra; quindi il protagonista stesso, che già immagina di dover riferire, se non dettare, le proprie gesta a colui che ne redigerà la cronaca, affinché sia il più fedele possibile alla realtà (!) dei fatti oggettivamente accaduti; poi CideHameteBenengeli[10], l’autore arabo che di cui Cervantes ritrova, all’inizio del capitolo IX, uno “scartafaccio” che riporta l’intera storia che egli ha già iniziato a scrivere; di conseguenza, poiché Cervantes ignora la lingua in questione, il Morisco spagnolizzato che effettua la traduzione dall’arabo, non sempre fedele[11] ed infine– e qui si chiude il cerchio – l’adattatore della traduzione, cioè lo stesso Cervantes[12].

A questo punto, a chi è di formazione culturale italiana non può sfuggire che non solo il presupposto letterario (il manoscritto ritrovato), ma lo stesso termine usato dall’autore spagnolo per indicarlo (cartapacio) sia estremamente simile a quello usato da Alessandro Manzoni (scartafaccio) per imbastire nel suo capolavoro, I promessi sposi, la propria storia dell’Anonimo e del suo manoscritto. Quasi un plagio, più che una imitazione, che colpisce ancor più poiché giunge dal principale autore del pensiero antispagnolo italiano dell’Ottocento[13] e che si affianca al parallelo che intercorre– e che meriterebbe di essere approfondito – tra la vicenda del matrimonio impedito di Renzo e Lucia e le nozze interrotte tra Laurenzia e Frondoso, i protagonisti di Fuente Ovejuna, capolavoro di Lope de Vega Carpio. Insomma, nel criticare ferocemente la società spagnola (o, più esattamente, ispanica), Manzoni attinge a piene mani dalla sua letteratura. Viene alla mente quel proverbio che afferma: “chi disprezza compra”.

Tornando all’attualità – o all’eternità – dei personaggi cervantini, oltre al segnalato elemento, caratteristico del romanzo, che non ha alcun riscontro nella letteratura precedente o coeva e – presumibilmente – neppure nella realtà del tempo: vale a dire la propensione a discutere dei due protagonisti e la disponibilità del padrone ad ascoltare il servitore; va evidenziato il fatto che Cervantes rida di Sancio, contadino analfabeta, che ritiene possibile – come fatto normalissimo – poter entrare a far parte della più alta nobiltà. Questo “realismo magico” ante litteram (o forse sarebbe più corretto definirlo “onirismo realistico”?) porta lo scudiero – che privo di stupore raggiunge l’isola Barattaria senza attraversare alcuno specchio d’acqua – ad amministrare saggiamente i sudditi che sono stati affidati al suo governo.

Parimenti paradossale è il lungo sodalizio tra due personaggi che non potrebbero essere più distanti: l’abisso culturale e sociale tra i è due evidenziato nel rapporto con il denaro (che l’hidalgo disprezza ed il contadino assolutamente no) ed ancor più con la lettura. Al centro del romanzo abbiamo infatti un iper-lettore che conosce a memoria i libri e ne cita paragrafi interi, trasformando la realtà in letteratura e viceversa; al suo fianco trotterella un analfabeta che non è capace di leggere una sola riga, la cui cultura è costituita quasi esclusivamente da detti popolari, ma che continua a dialogare con l’intellettuale ponendosi – o meglio sentendosi – al suo stesso piano, come governerà sentendosi allo stesso livello di Conti e Duchi.

Altro elemento che rende immortale romanzo e personaggio è che Don Chisciotte – come ciascuno di noi – è il peggior nemico di se stesso: tra due possibili soluzioni sceglie quasi sempre la peggiore. E le poche volte in cui non lo fa (ad esempio quando evita lo scontro con chi non è armato cavaliere) ciò avviene a danno del suo povero scudiero…

Accomiatandoci dal romanzo, andrebbe notata una particolarità: la presenza della coppia curato-barbiere, don Pietro Pérez emastro Nicola: lungi dall’essere due personaggi minori, essi sono, di fatto, gli artefici della fabula, che può essere considerata come il lungo e faticoso tentativo di far tornare Alonso Quijano definitivamente a casa. I loro maneggi (intervallati da vari racconti) occupano la seconda metà della prima parte (cap. 26-52) e sono presenti fin dall’inizio della seconda parte del romanzo, che inizia con gli “esperimenti” per saggiare – e di fatto stimolare – la follia del protagonista e si conclude quando alfine i due riescono, grazie all’aiuto del baccelliere Sansone Carrasco, ad obbligare Don Chisciotte a far ritorno in seno alla famiglia. La coppia curato-barbiere si contrappone quindi a quella cavaliere-scudiero in maniera ben più complessa che non come semplice “accidente” incontrato sulla via delle peregrinazioni avventurose del protagonista.È peraltro inquietante il fatto che, durante tutto il tempo dell’impresa, curato e barbiere, mentre seguono l’hidalgo, non facciano altro che ridere delle sue avventure, quasi fossero di fronte a una finzione teatrale e non al reale caso grave di un folle che, credendo essergli permesso di raddrizzare i torti armata manu, mette a repentaglio la salute (e la vita) propria ed altrui: non è forse un ulteriore elemento metateatrale del romanzo?

Una vita vissuta coraggiosamente

Lasciando il capolavoro e venendo al suo creatore, va notato che Cervantes, a differenza di altri autori del Siglo de Oro, nel corso della propria esistenza non riuscì mai a trovare un impiego governativo che gli permettesse di dedicarsi serenamente alla scrittura, ma raggiunse la fama soltanto negli ultimi anni della propria vita. Peraltro la sua esistenza si presta ad essere mitizzata: scrittore sfortunato, soldato coraggioso (combatte con la febbre, rinunciando a “marcare visita”), viaggiatore sventurato che viene catturato dai pirati algerini, prigioniero indomito (quattro tentativi di fuga in cinque anni di prigionia), eroe disconosciuto dalla Patria che pure ha servito con tanto sacrificio, capace in ogni momento di una forza poco comune: compresa – o innanzitutto – quella di cristiano che si rifiuta di abiurare la propria religione.

Come il suo personaggio, Cervantes resiste a tutte le intemperie che lo colpiscono nel corso della propria esistenza, giungendo – stanco, ma non vinto – a redigere il suo capolavoro negli ultimi anni di vita. Per questo, uno dei pensatori che hanno commentato il romanzo, Ramiro de Maeztu, ha inizialmente visto il cavaliere errante come personificazione della Spagna decadente, dato che il romanzo era stato scritto da un vecchio debole, povero e negletto, in un’epoca in cui si iniziava il tramonto della grandezza del suo Paese, sfibrato da tante guerre e cosciente dell’inizio dell’ineludibile tramonto di una grandezza che era stata senza pari[14].

Ma la partecipazione al ceto militare è un elemento biografico fondamentale che caratterizza i principali autori del Siglo de Oro: anche in questo caso colpisce una fondamentale differenza con Shakespeare, sulla cui esistenza – un’assurdità, se si pensa che stiamo parlando del maggior autore inglese di tutti i tempi – quasi nulla si sa e che scatena tutte le possibili fantasie interpretative, tra cui prevale quella di essere un attore illetterato che prestò il proprio nome ad un grande scrittore tuttora ignoto[15].

Al contrario, la vita dei principali drammaturghi ispanici ci è ben nota e, se confrontiamo le biografie degli scrittori spagnoli con quelli francesi, ci rendiamo immediatamente conto di essere di fronte ad uomini di profonda religiosità[16] e soldati che misero il proprio braccio ed offersero la propria vita al servizio dell’ideale ispanico di impero cristiano. Infatti, Lope de Vega partecipò alla spedizione della Invincibile Armata e combatté sotto le insegne del Duca d’Alba, mentre Calderonde la Barca si distinse durante la guerra dei Trenta Anni e divenne segretario dello stesso Duca d’Alba.

Ma l’esito più glorioso – ancorché più sfortunato – accadde a Miguel de Cervantes,; come egli stesso scrive nel Prologo delle Novelle esemplari, ricordando la propria militanza come soldato del Tercio vejo de Nápoles nel glorioso giorno del 7 ottobre 1571, presso le isole Curzolari: «A causa di un colpo di archibugio ho perduto la mano sinistra nella battaglia di Lepanto: ed anche se è una ferita brutta a vedersi, la tengo per bella, perché la ho ricevuta nella più grande e memorabile occasione occorsa nei passati secoli e che i secoli a venire non possono sperare di vedere, mentre combattevo sotto le bandiere vittoriose del figlio del fulmine di guerra Carlo V, di felice memoria».

Una ferita che vale come una medaglia, un vero e proprio “segno rosso del coraggio” che distingue lo scrittore e ne fa un vero e grande Uomo, prima che un indimenticabile autore, equiparando la mano sinistra, quella perduta in battaglia, quella del soldato, alla mano destra, quella dello scrittore, che gli permise di scrivere il massimo capolavoro in prosa della letteratura mondiale, capolavoro che però non sarebbe nato senza la vita pienamente vissuta da Cervantes e le sue esperienze di soldato e di prigioniero indomito.

 

 

Autore: Gianandrea de Antonellis

 

 

Gianandrea de Antonellis, saggista, docente di letteratura italiana, si occupa in particolare del pensiero politico del periodo ispanico e risorgimentale, degli aspetti religiosi nella letteratura moderna e contemporanea, di storia del teatro.

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[1] Sono invece relativamente numerosi i casi di trasposizione nel teatro musicale, tra cui vanno ricordati la trilogia di Henry Purcell (The Comical History of Don Quixote, 1694-1695), le opere liriche di Francesco Bartolomeo Conti (Don Chisciotte in Sierra Morena, 1719); Giovanni Alberto Ristori (Dresda, 1727);Daniel GottliebTreu (Breslau, 1727);Giovanni Paisiello (Modena, 1769); Nicola Piccinni (Napoli, 1770); Antonio Salieri (Vienna, 1771); Franz Spindler (Breslau, 1797); Angelo Tarchi (Parigi, 1791), Ditters von Dittersdorff (Oels, 1795);Saverio Mercadante (Don Chisciotte alle nozze di Gamaccio,Lisbona, 1829); Anton Beer Walbrunn (Monaco, 1908); Jules Massenet (Montecarlo, 1910);Emil Abranyi (Budapest, 1917);le operette di Émile Passard (Parigi, 1874), di Max Weinzierl (Vienna, 1879)e di Reginald de Koven (Boston, 1889); la cantata di Charles TournemireFaust, Don Chisciotte e Francesco d’Assisi (1929);cui vanno aggiunti vari balletti e lavori per orchestra, primo tra tutti il poema sinfonico di Richard Strauss (Don Quixote, 1898). Cfr. Enrico Magni Dufflocq, voce Don Chisciotte, in Dizionario Bompiani delle Opere e dei personaggi. Numerosissime le trasposizioni teatrali, a cominciare dal perduto Cardenio (Londra, 1613), attribuito a Shakespeare.

[2] Creatura quest’ultima di Tirso de Molina, drammaturgo e frate mercedario, scritta nell’anno della morte di Cervantes, il 1616: quindi due archetipi europei su quattro sono nati, a brevissima distanza, nelle Spagne.

[3] Una sintesi delle speculazioni sul personaggio-archetipo si trova in Gabriele Fergola, Nostro signor don Chisciotte, Controcorrente, Napoli 2006

[4] Pensiamo a due studi assolutamente contrapposti: la seria analisi teologica del Cardinal Giacomo Biffi (Contro Mastro Ciliegia, Milano Jaka Book, 1997, 2012) e l’interpretazione misteriosofica di Nicola Coco e Alfredo Zambrano (Pinocchioeisimbolidella“Grande Opra”, Atanór, Roma 1984). Ma esistono anche interpretazioni ateistiche, anarchiche, sociali, massoniche e, naturalmente, non è mancata una delirante interpretazione freudiana a proposito dell’allungamento del naso e del rapporto con Geppetto…

[5] Sono oltre una ventina i tentativi di trasposizione cinematografica, tra cui spiccano quelli – falliti – di Orson Welles e Terry Gilliam, il quale tuttora ha annunciato di voler ritentare l’opera.

[6] Cervantes nel 1613 avrebbe pubblicato una raccolta di racconti intitolata Novelle esemplari (Novelasejemplares), tra l’altro introducendo per la prima volta nella letteratura spagnola il termine di origine italiana novela.

[7] La critica non ha non ancora identificato l’autore che si cela dietro lo pseudonimo di Avellaneda: tra le varie ipotesi proposte è stato fatto addirittura il nome di FélixLope de Vega, oltre a quelli di Tirso de Molina, di Jerónimo de Pasamonte, di Juan Ruiz de Alarcón, di Francisco de Quevedo e di altri.

[8]Los trabajos de Persiles y Sigismunda, pubblicata postuma nel 1617.

[9] Nel 1613 fu messa in scena dalla compagnia teatrale King’s Men il dramma, ora perduto, The History of Cardenio o, più semplicemente, Cardenio (o Cardenno), attributo to William Shakespeare e a John Fletcher nel Stationers’ Register del 1653. La compilazione del registro avveniva per mano della Stationers’ Company, corporazione londinese tuttora esistente, e la registrazione era necessaria per regolare e monitorare i processi di pubblicazione. Nel 1727 la stessa vicenda venne messa in scena con il titolo Double Falsehoodor The Distrest Lovers (Doppia menzogna o Gli amanti in angoscia) da Lewis Theobald, che fu subito accusato di aver semplicemente copiato il Cardenio di Shakespeare e Fletcher.

[10] C’è chi ha voluto vedere nell’altrimenti sconosciuto Cid Hamete Benegeli un riferimento fin troppo esplicito a Cid Hamlete Ben-Engeli(= Sir HamletFiglio d’Anglia), vale a dire a Shakespeare, anch’egli autore dalla biografia incerta… Cfr. Alfred von Weber-Ebenhof, Bacon – Shakespeare – Cervantes. (Franzis Tudor). ZurKritikderShaksper- und Cervantes-Feiern, Anzengruber, Leipzig-Wien 1917.

[11] Lo segnala lo stesso Cervantes all’inizio del capitolo XLIV della seconda parte.

[12] A questa lista andrebbe anche aggiunto Pierre Menard, autore del Don Chisciotte, almeno a dar credito alla bibliografia redatta nell’omonimo racconto di Jorge Luis Borges e pubblicato nella raccolta Finzioni (Ficciones, 1944).

[13] Cfr. Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, Guerini, Milano 2003.

[14] Cfr. Ramiro de Maeztu, Don Chisciotte, Don Giovanni e la Celestina. Saggi in simpatia, 1926.

[15]C’è chi dice che questi fu il filosofo Francesco Bacone oppure il XVII conte di Oxford, Edward de Vere; forse fu il drammaturgo Christopher Marlowe o il suo collega Ben Jonson; e si è parlato addirittura di una sua possibile origine ispano-siciliana: sarebbe stato in realtà il linguista Michelangelo Florio Crollalanza, il cui cognome, tradotto in inglese, suona appunto… Shakespeare!

[16] Tirso de Molina (1584-1648) fu frate durante tutta la propria maturità, essendo entrato nell’Ordine della Mercede nel 1601; Lopede Vega (1562-1635) prese i voti nel 1614 e nel 1627 entrò nella religione dell’Ordine di Malta; Calderonde la Barca (1600-1681) divenne sacerdote nel 1661 e quindi cappellano del Re.

 

 

 

Gianandrea de Antonellis, saggista e docente universitario di lettertura italiana, ha curato, tra l’altro, la traduzione del quarto volume di Napoli spagnola di Francisco Elías de Tejada.

Fonte foto: dalla rete

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Un pensiero su “Le due mani di Cervantes

  • 4 Agosto 2016 in 9:15
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    Buono approfondimento non avevo mai notato certe cose

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