Le Isole di Pelagosa

Le isole di Pelagosa formano un piccolo arcipelago del Mar Adriatico situato tra a circa 53 km dalla penisola italiana. Facevano parte del Regno delle Due Sicilie e dunque del Regno d’Italia. Dal 1941 al 1943 appartennero al Governatorato della Dalmazia sotto la provincia di Spalato, ma alla fine del conflitto passarono alla Jugoslavia ed oggi sono croate.
Il testo segue reca la firma di A. Baldacci ed è tratto dalla rivista L’Italia del 1912, organo della Società Nazionale Dante Alighieri.

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Nelle notti più profonde e procellose il potente faro di Pelagosa è la fortuna del navigante del medio Adriatico. Le isole Pelagose sono principalmente note per questo. Dopo il 20 settembre 1875, quando venne inaugurata dall’Austria quella luce pelagica e la navigazione se ne cominciò a giovare con vantaggio straordinario, il suddito degli Absburgo potè guardare più di ogni altro con compiacenza l’opera veramente colossale ed umanitaria che lo Stato aveva latto sorgere senza risparmio di spesa sopra uno scoglio ritenuto abbandonato e senza padrone in acque internazionali. Eppure questo scoglio era appartenuto alla repubblica di Venezia e poi al regno di Napoli, ma non fu mai motivo da parte italiana di alcuna azione diplomatica per salvare almeno le apparenze, la dignità della nostra nazione.
Quando, troppo tardi, l’Italia apri gli occhi e si accorse che le Pelagose dovevano essere sue, non le rimase, magro conforto, che sottoscrivere all’avvenuto passaggio di esse nelle mani dell’Austria. Questo fatto, più unico che raro nella storia dei popoli, dimostra che la geografia non fu mai come allora un’opinione, certamente assoluta nella mente dei nostri uomini di stato, e può ancora confermare che la diplomazia fu spesso causa di errori imperdonabili per il nostro paese.
Le Pelagose formano un piccolo gruppo di isole appartate dal resto di quel grandioso arcipelago dalmato, che è una delle meraviglie della terra specialmente quando si guarda dagli altipiani e dalle montagne del litorale. Contrariamente alle opinioni di alcuni geografi, i quali vogliono vedere per forza nel nome Pelagosa un ricordo degli antichi Pelasgi. è certa la sua derivazione da s pelagosus » come ne dà affidamento la posizione che questi scogli occupano in mezzo all’Adriatico. Essi — nihil sub sole novi — erano noti fin dall’età della pietra, come ne fanno fede i curiosi trovamenti di cui diedero particolari e interessanti notizie il Marchesetti e il Burton che esplorarono primi fra gli archeologi Pelagosa grande, ossia il più esteso dei sedici scogli circa che compongono il gruppo e che fu probabilmente l’unico il quale ospitasse nei tempi lontani una popolazione stabile. A quale razza appartennero gli antichi abitanti delle Pelagose ? Furono essi celti, liburni, illiri, italioti ? Furono pirati, naufraghi o fuggiaschi dinanzi alle invasioni saracene e alle altre che si scatenarono poi tra una sponda e l’altra dell’Adriatico ? Nessuno ha ancora risposto a queste domande e forse sarà difficile rispondere. Raccogliendo le notizie frammentarie che si vanno scoprendo qua e là negli archivi, oltre a quelle che figurano nella bibliografia delle Pelagose, sembra agevole accertare che l’influenza di Roma dovette essere sicura colà come in tutto il litorale liburnico, e il nome « Pelagusa » dei latini, differenziatosi leggermente col tempo in « Palagruza » con la venuta e il dominio degli slavi, è un’attestazione di valore certo per noi. Le tribù di origine slava introdotte in numerose riprese dal nono al diciassettesimo secolo in ogni parte della Dalmazia dai duchi, dai conti e da altri feudatari, dalla repubblica di Venezia, dal governo austriaco, per sfruttare i terreni incolti e per difendere posizioni militari, furono ammesse in cento isole dalmate a titolo di ospiti e ricevettero terre deserte o coltivate a seconda dei casi, ma quanto alle Pelagose, dopo il dominio romano, la storia è buia e le tenebre non vengono illuminate che da qualche raro sprazzo di luce.
Seguendo fonti note, io ho scritto altrove che in documenti ancora conservati negli archivi di Lesina si dice che durante la supremazia di Venezia (XIII secolo), un nobile Lusignan esiliato dalla Serenissima cercò scampo nella Pelagosa grande e vi costruì un fortilizio. Egli e i suoi compagni esercitarono ogni specie di oppressioni sugli indifesi pescatori che si rifugiavano nei tempi di tempesta in quegli scogli, finché il loro covo di ladri venne spazzato via dal potere sovrano. Probabilmente si devono riferire a quei giorni, i dieci crani ed il materiale ossifero umano conservato nella raccolta Topic.
E’ difficile dedurre dalle file della storia generale come la famiglia Lusignan diventasse vittima della tirannide veneziana. Venezia si mise in urto con questa casa, che alla fine del XII secolo regnò in Cipro. Spenta la discendenza maschile dei Lusignan nel 1267 con Ugo II, Cipro passò alla linea femminile e più tardi ad una linea di nepoti, finché nel 1470 un lontano discendente si sposò con la « figlia della Repubblica », Caterina Cornaro, che fu reggente di Cipro, e cedette contro voglia l’isola a Venezia nel 1489. Si dice che la Cornaro fosse per qualche tempo relegata nella Pelagosa. Secondo il Groller von Mildensee, in Lagosta si mantiene ancora la tradizione che ivi, un tempo, una regina orientale abbia vissuto in esilio. La storia dell’isola è, del resto, sempre più oscura nei tempi posteriori e si ignora quando la potestà del regno delle Due Sicilie si impiantasse sulle Pelagose e come Venezia accettasse un simile fatto compiuto.
O è soltanto una congettura, non avvalorata da alcun documento attendibile, che fa credere alla tradizione sopravissuta in alcune parti della Dalmazia, che le Pelagose passassero al dominio napoletano ? Invero, pare probabile che esse andassero alla dipendenza di quel reame per i frequenti contatti che esso ebbe con l’Oriente, specialmente nei periodi in cui la pirateria venne quasi elevata ad istituzione, sia da parte dei turchi, sia da quella dei cristiani. Vi fu un momento nel quale il re di Napoli era il rappresentante dei rapporti con l’Oriente, in fatto di avvenimenti della pirateria, anche in nome di alcuni principati italiani, tra i quali la repubblica di Venezia. La posizione delle Pelagose segregate in mezzo al mare e la loro nessuna importanza territoriale e strategica nei secoli di mezzo fu adattissima per i pirati i quali, restando indisturbati , potevano impunemente spogliare i pescatori e le piccole navi che si avventavano per quel mare.
Si può anche pensare che queste isole pervenissero al reame di Napoli, da Venezia, come ricompensa di questa.
Si potrebbe pure congetturare intorno ad una cessione avvenuta nei tempi di Carlo V, che tante imprese condusse nell’Oriente, fra le quali sono memorabili quelle a Tunisi e a Tripoli. Io penso eziandio che si potrebbe cercare di avvalorare la congettura che le Pelagose venissero cedute da Venezia al Napoletano al tempo della Lega Santa che portò alla vittoria di Lepanto, e ciò come premio dei servigi resi dal Napoletano alla Lega stessa.
Tutte le isole dalmate si rassomigliano per la nudità del loro aspetto, per la natura delle loro roccie, per il risalto dei loro contorni e l’asprezza dei loro rilievi. Sotto questo rapporto le Pelagose offrono molto i caratteri degli isolotti e degli scogli dell’arcipelago liburnico.
La loro struttura geologica è ben nota. Il massiccio della Pelagosa grande risulta di calcari compatti qua e là frammentati e cementati col carattere più o meno proprio delle breccie; gli altri scogli intorno hanno la stessa conformazione. Dal punto di vista geologico bisogna però considerare le Pelagose come un gruppo di isole perigarganiche e, quindi, si deve tener conto delle altre roccie, le quali servono a provare i rapporti che esistettero tra il Gargano e le isole dell’Adriatico sudoccidentale, rappresentate appunto dalle Tremiti e dalle Pelagose. Tutte quelle piccole isolette sono le traccie superstiti dei corrugamenti terrestri che o nel periodo pliocenico o in quello quaternario antico, a seconda di opinioni diverse, univano il Gargano alla Dalmazia.
Terminata da nord a sud la lunga serie litoranea delle grandi isole illiriche, il denso arcipelago costiero si espande a sud-ovest della sottile e alta penisola di Sabbioncello, in poche isole grandi fra cui Lissa e Lagosta dalle quali vengono a dipendere a distanza notevole, nel mare libero, le Pelagose. Tirando due parallele, una illirica e l’altra italiana, queste si potrebbero unire con una trasversale dal Gargano a Sabbioncello, toccante le Tremiti, Pianosa, Pelagosa e Cazza.
La distanza delle Pelagose dalle suddette parallele è minore colla terraferma italiana che con la dalmata; rispetto alle isole le Pelagose sono equidistanti dalle altre isole perigarganiche come dalla liburniche. In cifre, queste distanze si possono concretare così: chilometri 50 circa dal Gargano (torre di Casalunga tra Viesti e Peschici) e chilometri 43 circa da Pianosa; 93 chilometri dalla penisola di Sabbioncello e 43 dall’isola di Cazza.
In generale il cielo della Dalmazia è perfettamente sereno nell’estate, mentre le pioggie sono abbondanti dall’inverno alla primavera.
L’Adriatico è un mare nel quale i venti si propagano con grande forza, e i due princi pali, lo scirocco e la bòra, diventano spesso temibili e causano disastri incalcolabili. Le Pelagose risultano così continuamente sbattute e si comprende facilmente come la loro vegetazione sia poverissima. La flora di queste isolette, studiata sul materiale raccolto dal Ginzberger e tenendo conto delle esplorazioni dei pochi predecessori dell’egregio naturalista austriaco, arriva a 160 specie di fanerogame. Tuttavia, questa povertà di vegetazione mostra pure alcune particolarità assai interessanti dovute alla grande varietà dei climi. La formazione ntogeografica principale di questa isola a scogliere è la rupestre.
Anche le piante che in altri luoghi appartengono a formazioni diverse, in quel solitario arcipelago dell’Adriatico si adattano con facilità alle rocce appena riescono a trovare un poco di terreno.
Il paesaggio botanico delle Pelagose manca di alberi e di arbusti gregari ; in cambio si hanno belle formazioni di piante suffruticose e di erbacce sericee, che in parecchi punti costituiscono intricatissimi tappeti.
La ricca fauna del litorale illirico non ha nelle Pelagose che un numero assai limitato di specie e all’infuori di qualche uccello che si ferma colà durante le emigrazioni, non vi è fra i vertebrati che una forma di lucerta locale. Tutto il resto della vita animale si può dire rappresentato da molluschi e da insetti. La vera fauna è quella del mare.
Le Pelagose si prospettano sul mare con falde rocciose e inospitali contro le quali premono i flutti e flagella la violenza dei venti.
Queste isole non presentano naturalmente alcun interesse per la nautica nei suoi rapporti col commercio, ma sono oggi, ciò che non poteva essere nei tempi antichi, un caposaldo strategico di valore incalcolabile per lo stato che possiede il gruppo.
A tutto rigore può dirsi che la costa pelagosiana manchi di un vero porto, per quanto minuscolo e proporzionato alla superficie esigua della più grande Pelagosa, che è lunga poco più di un chilometro dall’E. all’O. e larga da 200 a 500 metri. Il contorno costiero della Pelagosa grande non offre che un solo buon punto di approdo per navi di piccola portata; questo approdo, conosciuto col nome slavo di Stara Vlaka, sorge nella parte di nord-ovest dell’isola. Il rimanente della costa non offre che brevi sbrecciature nella catena calcare, dietro i quali sorgono spesso rilievi che le mascherano del tutto. Solchi più o meno profondi scavati nella roccia calcarea e alcune piccole cave dovute all’erosione sono le particolarità che offre il massiccio pelagosiano.
Ma se manca un vero porto e l’isola può sembrare quantità trascurabile per la sua piccolezza, l’importanza di essa è grande anche come punto di osservazione militare. La sua media elevazione è di 70 metri all’incirca; la massima altezza è rappresentata dal fanale a 116 metri sul monte Castello. Da quest’altezza si può guardare lontano nel mezzo del mare e di notte i riflettori possono servire di lassù molto più vantaggiosamente che alla superficie dell’acqua.
La vita umana alla Pelagose è di due specie : quella normale raccolta nel faro, e l’altra temporanea rappresentata dai pescatori che frequentemente giungono colà dalle vicine isole dalmate.
La vita del faro continua oggi quella dei tempi etruschi, romani e veneziani, interrotta forse durante la dominazione borbonica; la vita dei pescatori è indubbiamente sempre stata uguale, nella sua saltuarietà, dai più antichi secoli fino a noi. La pesca ha certamente sempre costituito il mezzo principale per l’esistenza delle colonie isolane dell’arcipelago dalmato e la pesca dovette similmente essere anche l’industria degli abitanti delle isole, i quali, allora come oggi, portavano il pesce alle numerose, grandi e popolose città della Dalmazia romana, come di quelle del medio evo, quando tutta la regione potè continuare la rigogliosa prosperità ereditata da Roma. Ragusa era nel medio evo, come Venezia e Genova, uno dei più rinomati empori di civiltà e di commercio che teneva frequenti relazioni con gli scali del Mediterraneo; era tenuta nella più alta considerazione dagli stessi sultani e spediva direttamente le sue merci fino alle Indie, trattando da pari a pari con gli stati più potenti. Molti dei pescatori dalmati sono stati sostituiti dai nostri chioggiotti che vanno perciò a raccogliere anche il pesce delle Pelagose dove si vedono spesso con le loro agilissime paranze, guidate dalla classica vela e colle rosse reti e il grande occhio dipinto sul davanti della prua.
Si ignora se gli antichi abitatori coltivassero la Pelagosa. Certo è che oggi, all’infuori di qualche particella di terreno ad orto per i fanalisti che vivono colà, la grande Pelagosa è completamente incolta e sterile, come è incolta e sterile la maggior parte delle roccie dell’arcipelago dalmato.
Dove però le acque vengono trattenute da letti calcarei e le vallecole raccolgono la terra rozza che dal calcare si disgrega con le pioggie, il suolo diventa fecondo e può dare magnifici raccolti. Il Ginzberger ha tracciato nel suo autorevole studio sulle Pelagose, una vasta zona di humus che occupa oltre la metà dell’isola e perciò non è assurdo congetturare che la popolazione stabile antichissima delle Pelagose, come quella formata dagli esiliati di Venezia e dell’altra dei pirati (qualora venga provato che vi abbiano avuto dimora) traesse alimento non solo dalla pesca , ma anche dall’ agricoltura indubbiamente accompagnata da qualche limitato allevamento animale. Sarebbe avvenuto nelle Pelagose ciò che avvenne nello scoglio di Saseno di fronte a Vallona, nell’isolotto di Levrera, così lamoso per i suoi conigli, a Sansego, e altrove, in mille altre isolette del tipo della grande Pelagosa. Questa supposizione non resta tuttavia provata da alcun avanzo di specie coltivate, nè di erbe, nè di frutti.
Non sembra che il pietismo abbia mai trovato sede nelle Pelagose. Eppure il pietismo avrebbe potuto sgorgare colà, esaltando in tutta la divina e malinconica armonia, dinanzi al mare libero ed immenso, l’anima individuale sognatrice e mistica. Senza dubbio, la pirateria non avrebbe concesso asilo a collettività monastiche scarse di numero, e perciò queste collettività non poterono fissarsi in quelle solitudini, sebbene l’uniformità del mare pieno di contrasti nelle sue lotte e nelle sue leggende, abbia dovuto esercitare un fascino solenne per chi si sentiva attratto alla vita contemplativa e respirare l’aria fine e pungente del mare e deliziarsi delle bellezze grandiose sul lontano paesaggio dalmata, largo e infinito nel giorno, profondo di mistero quando il firmamento brilla con le sue stelle lucenti o la procella percuote il saldo scoglio solitario come in cerca di vendetta per la natura. Il pirata, dunque, dev’essere stato nel buio della storia, il dominatore assoluto delle Pelagose. I.o stato dei pirati era diventato poco a poco col tempo « res nullius » tanto che l’Italia non seppe che le Pelagose furono sue, e sue, perciò, dovevano essere dopo il 1860. Nessuno se ne accorse in Italia così che, nelle « sfere » ufficiali, anche la storia si consi derava un’opinione, come la geografia. Le Pelagose rappresentano oggi l’avanguardia più occidentale dell’Austria nel mare Adriatico verso l’Italia. Con l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina, con le ferrovie che mettono in comunicazione diretta la Dalmazia colla rete europea, coll’ampliamento dei porti militari e commerciali che la monarchia absburghese sviluppò in tutto il suo meraviglioso litorale, col progresso che in ogni senso si diffonde in Dalmazia, le piccole Pelagose hanno acquistato un valore assoluto. Nonostante quanti sono in Italia che rammentano questi scogli, e, fra gli adulti, chi ricorda i patriottici sdegni dell’Imbriani ?
Nel 1873 l’Austria chiese all’Italia di poter costruire e mantenere un faro sulla Pelagosa grande per la sicurezza della navigazione nell’Adriatico e il permesso venne dato, a quanto consta, senza alcuna difficoltà: i lavori furono condotti con straordinaria sollecitudine, pari all’importanza enorme della concessione strappata al governo italiano e il 20 settembre 1875, come ho detto, il taro cominciò a funzionare con i suoi splendori da 30 a 30 secondi della portata di 26 miglia, ossia di 48 chilometri circa.
La solitaria sentinella absburghese, appoggiandosi a Lissa guarda il largano col suo occhio potente; il telegrafo senza fili accompagna la luce attraverso lo spazio. Per fortuna nessuna insidia tocca la pace. Auguriamoci che il cannone non abbia a tuonare nuovamente in quelle acque e che l’Italia non abbia a ricordare in quel giorno l’irresi stibile e fulgido patriottismo dell’Imbriani; allora si comprenderebbe finalmente da noi, a nostre spese, l’errore fatale del dono in consulto che noi facemmo delle Pelagose.

 

 

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