Le prime mobilitazioni dei lavoratori italiani

A Torre Annunziata, a seguito del rifiuto opposto dagli industriali di servirsi, per le operazioni di scarico nel porto, delle squadre della lega dei mugnai, maturò, nell’aprile del 1904, un imponente ed aspro sciopero che portò all’arresto di dieci operai, tutti condannati per direttissima. Nelle stesse giornate si registrarono violenze contro alcuni facchini crumiri ed arresti preventivi nel timore che lo sciopero si estendesse alle Ferrovie del Vesuvio con la mobilitazione dei temuti ferrovieri. Gli industriali risposero con una serrata e tutto culminò nel tentativo di omicidio perpetrato ai danni di uno di loro dagli operai. Fu una delle prime vere mobilitazioni dei lavoratori italiani.

Il diffondersi delle società di mutuo soccorso, la propaganda di Bakunin, la penetrazione dell’Internazionale nei grandi e piccoli centri manifatturieri italiani, la fondazione del Partito Operaio e la nascita poi del Partito dei Lavoratori divenuto, nel 1893, Partito Socialista, segnarono una fase di ampia organizzazione e mobilitazione del mondo del lavoro. Dal 1860 al 1891 gli scioperi furono solo 1759, di cui 634 sino al 1878, 242 dal 1878 al 1883, 883 dal 1883 al 1891. Nell’ultimo decennio dell’ottocento la media superò i duecento scioperi l’anno. Da un lato restarono i mazziniani, contrari allo sciopero, dall’altra anarchici, collettivisti ed individualisti, e i socialisti, moderati e rivoluzionari. Fu il periodo dei Fasci siciliani e dei moti della Lunigiana

Avanguardia di tutto furono i ferrovieri. Scioperi nelle ferrovie si registrarono già nel primo decennio unitario. Sebbene sporadici e di scarsa entità, agitazioni dei ferrovieri contraddistinsero da subito la vita politico-sociale nazionale, tuttavia assunsero deciso rilievo solo a partire dal 1885, anno in cui una mobilitazione iniziata alle officine di Rimini si estese ad Ancona, Bologna e Napoli, costringendo le Ferrovie Meridionali, dopo ben sedici giorni di astensione dal lavoro dei suoi operai, a concedere aumenti stipendiali e migliori condizioni lavorative.

Nel febbraio 1886 anche i macchinisti entrarono in agitazione. I carabinieri intervennero prendendo il controllo delle stazioni ma la situazione peggiorò quando anche gli operai delle linee adriatiche entrarono in sciopero. Dopo dodici giorni di astensione i lavoratori ottennero i miglioramenti richiesti. Tuttavia questo sciopero registrò un vasto seguito di arresti e condanne e contribuì a generare un’atmosfera di reazione che accompagnò gli ultimi anni del secolo: in agitazione come solidarietà ai dimostranti di Milano del 1989 i ferrovieri subirono la repressione governativa, arresti, censura dei giornali e, per sette mesi, furono militarizzati.

Agli inizi del Novecento subentrò nel dibattito politico il tema della nazionalizzazione delle ferrovie e ciò scatenò una nuova ondata di scioperi. I Ferrovieri anticiparono tutti costituendosi, nell’agosto del 1900, in Federazione ed abbandonando il vecchio sindacato, il Congresso del Riscatto. Di fronte alle tensioni crescenti che univano la rivendicazione di una definitiva sistemazione normativa e salariale per i lavoratori delle ferrovie con l’esercizio di stato di queste, invocato dal Partito Socialista, il Governo Giolitti tornò alla militarizzazione dei ferrovieri. Le organizzazioni dei lavoratori pensarono di intraprendere uno sciopero e allora Giolitti si decise ad accogliere le loro richieste garantendo la collaborazione parlamentare coi socialisti. Tutto ciò però spaccò la sinistra ed aprì una dura controversia tra i sostenitori di un indirizzo riformista e quelli invece che si ritrovavano nei principi del sindacalismo rivoluzionario.

L’8 e 9 novembre del 1904, in previsione della scadenza delle convenzioni  ferroviarie, a Roma in sindacalisti in congresso invocarono la nazionalizzazione delle ferrovie e deliberarono di ricorrere allo sciopero a tempo indeterminato. Giolitti allora rispose presentando alla Camera il progetto di legge che prevedeva la statalizzazione delle ferrovie ma anche il divieto penale di sciopero. I sindacalisti adottarono una diversa strategia: passarono ad applicare integralmente i regolamenti una tattica ostruzionista che comportò disagi incredibili. I treni viaggiarono con ritardi impossibili, numerosi convogli passeggeri e merci finirono soppressi… dopo cinque giorni, Giolitti si dimise sebbene adducendo motivi di salute.

Gli successe Fortis che puntò ad assimilare gli addetti alle ferrovie ai pubblici ufficiali in modo da considerarli dimissionari in caso di astensione dal lavoro ed ebbe successo perché lo sciopero indetto contro questo piano fallì lasciando tre morti e quattordici feriti. La sconfitta dei ferrovieri portò un inasprimento della polemica interna alla sinistra con la spaccatura tra Turati e Treves da un alto e Ferri e Arturo Labriola dall’altro, i primi abbracciano posizioni riformiste, i secondi si radicalizzano. Non basta, in gioco ci sono anche gli anarchici e nuove forme di lotta entrano in scena, una su tutte è il boicottaggio. Si passò così dalla negazione delle prestazioni di lavoro all’astensione dal consumo di determinati prodotti e persino allontanamento degli elementi dissenzienti all’interno del sindacato ed alla negazione di ogni tipo di rapporto sociale con un determinato imprenditore e la sua famiglia.

A Modena i sindacalisti rivoluzionari proclamarono la nascita dell’Unione Sindacale Italiana, nello stesso periodo tra i socialisti hanno la meglio gli estremisti capeggiati da Mussolini e Lazzari. Ritornano così, lentamente, i grandi scioperi, quello dei metallurgici dell’estate 1913, quello generale del giugno 1914, quelli contro la guerra del 1915. A Torino i 6500 dipendenti delle fabbriche automobilistiche entrano in sciopero il 19 marzo 1913, l’astensione dura tre mesi; a Milano ci si mobilita in solidarietà ai torinesi; a giugno l’USI lancia tre giorni di sciopero generale; l’uccisione di tre antimilitaristi ad Ancona porta ad un nuovo sciopero generale nel 1914 e sanguinosi incidenti si registrano a Firenze, Roma e Napoli. Sono spesso gli anarchici a guidare queste mobilitazioni, soprattutto nelle Marche e in Romagna. Tutto questo spaventa i ceti borghesi che plaudono alle truppe chiamate a tutelare l’ordine pubblico poi subentrano le divisioni e anche nella sinistra ci si spacca tra neutralisti e interventisti.

Il grosso delle forze di sinistra era però avverso alla guerra: a Torino, domenica 16 maggio 1915, affollati cortei antimilitaristi si diressero verso il centro. C’erano almeno 100.000 persone e si ritrovarono davanti alla Camera del Lavoro per assistere ad un comizio. Partirono cariche di cavalleria e si formarono le barricate. Ne nacque una vera e propria battaglia per le strade del centro e un manifestate restò ucciso. Il prefetto affidò i poteri all’autorità militare che dettò una severa repressione. La truppa occupò i locali della Camera del Lavoro e procedette a più di cento arresti e condanne per delitti contro l’ordine pubblico.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura 1870/1922

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