Le “Questioni Siciliane” di Ibn Sab’in

Il sapiente musulmano Ibn Sab’in, esperto di studi coranici, letteratura, filosofia e medicina nell’Andalusia araba è l’interlocutore dell’imperatore Federico II in un’opera dimenticata dalla storia: Al-masāʾil al-Ṣiqilliyya.

Le “Questioni Siciliane”, conservati in un codice arabo ad Oxford, furono probabilmente scritte fra il 1237 ed il 1242 portando Federico II in un percorso dialettico speculativo con la scuola sufi di Ibn Sab’in, ismailita sembre sospeso sul filo del rasoio tra ortodossia ed eresia islamica.

Con Ibn Sab’in siamo in presenza di una catena iniziatica che affonda le sue radici in referenti spirituali antecedenti la nascita della religione islamica ma anche quella ebraica, in Hermes, Socrate, Platone ed Aristotele. Tutto questo mentre in Europa prevaleva un cattolicesimo intransigente e Federico II inaspriva la lotta col potere temporale di Roma.

Strutturate sotto forma di una corrispondenza epistolare, in risposta a domande poste da Federico II ed ormai perdute, le “questioni” sono un lento discorrere di tesi aristotelice e neoplatoniche balzando da una sponda all’altra del Mediterraneo che di questi percorsi filosofici è stata la culla.

Si discute di immortalità dell’anima ed infinità del tempo, di misticismo.

La prefazione al trattato a tal proposito è chiara. Essa descrive l’invio delle domande di Federico II a numerosi paesi islamici, in Tunisia alla corte hafside poi a quella almohade, nel Sud della Spagna, che dà mandato a Ibn Sab’in di rispondere: “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso, al quale imploro soccorso… Ibn Sab’in, che Dio lo renda utile e che reiteri le sue benedizioni ai Musulmani nella risposta alle questioni del re dei Rum, imperatore, principe di Sicilia, quando ne inviò copia in Oriente e in Egitto, nello Sham, in Iraq, nel Durub, nel Yemen. Ma le risposte dei sapienti dei musulmani comportarono ciò che non lo soddisfece. Allora chiese dell’Ifriqiya e di chi in essa si potesse trovare adatto a rispondere, ma gli fu detto che era priva di uno così. Chiese al Maghreb e dell’Andalus e gli fu detto che c’era un uomo di nome Ibn Sab’in. Allora scrisse al califfo al-Rashid… sulla questione. E il principe dei credenti scrisse al suo governatore a Ceuta, Ibn Halas, di ricercare l’uomo di cui si parlava, affinché rispondesse alle questioni. Il re dei Rum aveva inviato un naviglio con il suo ambasciatore e una somma di denaro. Ibn Halas fece chiamare l’imam Qutb al-Din e, come aveva ordinato il califfo, gli mostrò le domande; questi…] si incaricò di rispondere… Poi, quando la risposta arrivò al re, questi ne fu soddisfatto e gli inviò un dono prezioso, ma quello lo rifiutò come il primo, e così il cristiano capì di non essere all’altezza, e Dio diede vittoria all’Islam rendendolo superiore al credo cristiano con argomentazioni decisive…”.

Se ne ricava una sorta di sintetico ma profondo sussidiario di sufismo ma l’imperatore non era mosso solo da sete di sapere. Probabilmente desiderava possedere quel sapere necessario a renderlo perno di un equilibrio politico e culturale pluralista nei suoi dominii. E’ la dimostrazione di quanto sia vera l’idea di Sicilia medioevale come crocevia di genti e culture; la corte federiciana era aperta ad ogni scuola di pensiero, ad un panorama intellettuale vario ed eterodosso, ad ogni spiritualità.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Foto: dalla rete

Bibliografia: P. Spallino (a cura di), Ibn Sab’in, Le questioni siciliane

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