Leone X e Clemente VII

Nel 1516 Guicciardini passò al servizio del cardinale Giovanni de’ Medici, divenuto papa col nome di Leone X: ottenne anzitutto il governatorato di Modena e, nel 1521, fu nominato commissario generale dell’esercito pontificio. Difese con successo Parma dall’assedio delle truppe francesi e quando, nel 1523, divenne papa Giulio de’ Medici, col nome di Clemente VII, fu nominato governatore della Romagna e divenne poi consigliere del papa e luogotenente del suo esercito. I due pontefici di Casa Medici furono così da lui descritti.

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Leone, che portò la prima grandezza ecclesiastica nella casa dei Medici, e con l’autorità del cardinalato sostenne tanto se e quella famiglia, caduta di luogo eccelso in somma declinazione, che potettero aspettare il ritorno della prospera fortuna: fu uomo di somma liberalità: se però si conviene questo nome a quello spendere eccessivo, che passa ogni misura. In costui assunto al pontificato, apparì tanta magnificenza e splendore, e animo veramente reale, che e’ sarebbe stato maraviglioso eziandio in uno che fosse per lunga successione disceso di re o d’imperatori.

Ebbe costui, tra le altre sue felicità, che furono grandissime, non piccola ventura di avere appresso di se Giulio dei Medici, suo cugino: quale di cavaliere di Rodi, benchè non fosse di natali legittimi, esaltò al cardinalato.

Perchè essendo Giulio di natura grave, diligente, assiduo alle faccende, alieno dai piaceri, ordinato e assegnato in ogni cosa; e avendo in mano, per volontà di Leone, tutti i negozi importanti del pontificato; sosteneva e moderava molti disordini che procedevano dalla sua larghezza e facilità. E, quel che è più, non seguendo il costume degli altri nipoti e fratelli dei pontefici, preponendo l’onore e la grandezza di Leone agli appoggi potesse farsi per dopo la sua morte; gli era in modo fedelissimo e obbedientissimo, che pareva che veramente fosse un altro lui. Per il che fu sempre più esaltato dal Pontefice, e rimesse a lui ogni giorno più le faccende. Le quali, in mano di due nature tanto diverse, mostravano quanto qualche volta convenga bene insieme la mistura di due contrari: l’assiduità, la diligenza, l’ordine, la gravità dei costumi, la facilità, la prodigalità, i piaceri e la ilarità. Le quali cose facevano credere a molti che Leone fosse governato da Giulio; e che egli per se stesso non fosse uomo da reggere tanto peso, non da nuocere ad alcuno, e desiderosissimo di godersi i comodi del pontificato; e all’incontro, che in Giulio fosse animo, ambizione, cupidità di cose nuove. In modo che tutte le severità, tutti i movimenti, tutte le imprese che si fecero a tempo di Leone, si credeva procedessero per instigazione di Giulio; riputato uomo maligno, ma d’ingegno e di animo grande.

La quale opinione del valore suo, si confermò e accrebbe dopo la morte di Leone: perchè in tante contra dizioni e difficultà che ebbe, sostenne con tanta dignità le cose sue, che pareva quasi pontefice; e si conservò in modo l’autorità appresso a molti cardinali, che, entrato in due conclavi assoluto padrone di sedici voti, aggiunse finalmente, nonostante infinite contradizioni della maggior parte e dei più vecchi del collegio, dopo la morte di Adriano, al pontificato; non finiti ancora due anni dalla morte di Leone. Dove entrò con tanta aspettazione, che fu fatto giudizio universale che avesse a essere maggiore pontefice, e a fare cose maggiori, che mai avessero fatte alcuni di coloro che avevano insino a quel giorno seduto in quella sedia.

Ma si conobbe presto quanto erano stati vani i giudizi fatti di Leone e di lui. Perchè in Leone fu di gran lunga più sufficienza che bontà; Giulio ebbe molte con dizioni diverse da quello che prima era stato creduto di lui. Conciosiachè non vi fosse nè quella cupidità di cose nuove, nè quella grandezza e inclinazione di animo a fini generosi e magnanimi, che prima era stata la opinione; e fosse stato più presto appresso a Leone esecutore e ministro dei suoi disegni, che indirizzatore e introduttore dei suoi consigli e delle sue volontà. E ancorchè avesse l’intelletto capacissimo, e notizia maravigliosa di tutte le cose del mondo; nondimeno non corrispondeva nella risoluzione ed esecuzione. Perchè impedito, non solamente dalla timidità dell’animo (che in lui non era piccola), e dalla cupidità di non spendere, ma eziandio da una certa irresoluzione e perplessità che gli era naturale; stesse quasi sempre sospeso e ambiguo quando era condotto alla determinazione di quelle cose le quali aveva da lontano molte volte previste, considerate, e quasi risolute. Donde e nel deliberarsi, e nell’eseguire quel che pure avesse deliberato, ogni piccolo rispetto che di nuovo se gli scoprisse, ogni leggiero impedimento che se gli attraversasse, pareva bastante a farlo ritornare in quella confusione nella quale era stato innanzi deliberasse: parendogli sempre, poichè aveva deliberato, che il consiglio stato rifiutato da lui, fosse migliore. Perchè rappresentandosegli allora innanzi solamente quelle ragioni che erano state neglette da lui, non rivocava nel suo discorso le ragioni che l’avevano mosso a eleggere; per la contenzione e comparazione delle quali, si sarebbe indebolito il peso delle ragioni Contrarie: nè avendo per la memoria di avere temuto molte volte vanamente, preso esperienza di non si lasciare so praffare al timore. Nella qual natura implicata, e modo confuso di procedere, lasciandosi spesso traportare dai ministri, pareva più presto menato da loro che consigliato.

 

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