L’eruzione del Vesuvio del 1631

L’eruzione del Vesuvio del 1631 fu un evento catastrofico. Abbiamo notizie di interminabili processioni per le strade di Napoli di fedeli commossi ed impauriti per quella tragedia. Ad una di esse prese anche parte il viceré, Manuel de Zuniga y Fonseca, conte di Monterrey, in carica dal 14 maggio di quell’anno, il quale con urgenza aprì le porte della capitale e ”un’innumerevole quantità di persone furono accolte in città, e non ne cessarono di arrivare nel corso di tutta la notte. Questo giorno e il successivo il numero dei profughi che si rifugiarono a Napoli ammontò a 40.000” (M. . H. Leon in Bulletin de l’Académie royale des sciences, des letters et des beaux-arts de Belgique).

Il Cardinale Buoncompagni, che si trova a Torre del Greco, resa impraticabile la via di terra, raggiunse la città via mare e, una volta nel Duomo, invocò l’intervento taumaturgico del santo patrono.

Dalla Cattedrale partirono così tre grandi processioni con il busto ed il reliquiario con le ampolle contenenti il sangue di San Gennaro Martire: “Maggior disagio hebbe il S. Cardinale Buoncompagno, che ritrovatosi nella Torre del Greco e assai presso all’incendio qual’ora sentiva crescere il terremoto era dal timor cacciato al Cielo aperto, confessando Aristotele che in questi horribili casi devono anco i forti temere, ma passato quell’impeto era dal freddo ricacciato in casa . Quand’ecco sopragiunge quel che io non so finora come chiamarmi, ma dirò per ora fiume di fuoco e così vicino che non gli parve né di doverlo aspettare, né di dover uscire per la porta della casa che andava per appunto a riuscire di rimpetto all’incendio: onde gli bisognò con l’aiuto dei suoi creati calarsi da un muro ben alto dalla parte del mare. Quivi era una feluca (veliero) in cui volse imbarcarsi, ma né per prieghi, né per prezzo poté fare che i marinai s’appressar a terra,temendo anch’essi del fuoco, sì che mestier gli fu di cavalcar una chinea (mulo da sella) e sopr’essa camminare lungo la riva del mare, discostandosi il più che poteva dalle sopravvenienti fiamme. In tanto ritrovato una barchetta di pescatori con alcuni figliuoli s’imbarcò, ancor che sì il mal corredata da far viaggio che bisognò porre a’ remi invece di funi le legacce dei suoi gentil Huomini per vogare, parendogli che ad ogni modo fusse più da fidarsi dell’acque che della terra per difendersi dal fuoco, e sopra essa in Napoli si condusse […] Quel dì stesso il doppo pranzo s’ordino una general processione dal Sig. Cardinale e dal S.V.Re, nella quale si condusse la Testa e il Sangue di S. Gennaro, che un’altra volta fè cessare un pari incendio nel luogo stesso, come V.S. harà letto, e fu portata alla Madonna del Carmine per uscire, gli sopraggiunse frigore e febbre per lo patimento della notte passata, sì che la processione si fè senza lui” (G.B. Manso, Lettere del Sig. G.B. Manso scritte da Napoli al Sig. Antonio Brunbi ).

Ed è per questo che Napoli festeggia San Gennaro in tre date memorabili: il 19 settembre, dies natalis del martire, il primo sabato di maggio, che ricorda la traslazione delle sue reliquie dal Marcianum alle catacombe di Capodimonte, e, infine, il 16 dicembre, per ringraziarlo di averla salvata dalla terrificante eruzione del Vesuvio del 1631. Il miracolo infatti non tardò ad avvenire: ”Il cardinale arcivescovo, alla vista di tante sofferenze crescenti, ordinò una seconda processione solenne per un’ora dopo mezzogiorno. Essa non poté uscire che alle tre a causa della grande pioggia che non cessava di cadere dalle dieci del mattino. Il cardinale, con tutte le sue insegne episcopali, volle assistervi malgrado l’inclemenza della temperatura. Oltre le autorità, una gran parte della nobiltà e le congregazioni fecero parte del corteo, che si portò nei dintorni della cattedrale, da dove il sangue di san Gennaro fu estratto e portato religiosamente fino alla chiesa di S.M. di Costantinopoli, segnata nell’itinerario della processione. Arrivati presso la porta di Capua, si notò una nuvola di ceneri che nascondeva il Vesuvio e si dirigeva verso Napoli. Il cardinale benedisse tre volte il vulcano col sangue di san Gennaro e si vide, raccontano parecchi storici del tempo, la nuvola dirigersi in direzione del mare”. 

 In molti giurarono di aver visto, durante la processione, San Gennaro, circondato dagli angeli, volare su una nuvola con le mani protese verso il Vesuvio in fiamme.

Lo stesso evento ebbe però da subito differenti e colorite spiegazioni. Diffusa è l’idea che la lava giunta sino alle porte di Napoli si fermò clamorosamente proprio ai piedi della statua del santo eretta presso il porto, ma per Don Francesco Capecelatro l’origine del miracolo è ancora diversa. Sarebbe stata l’arca contenente il sangue di San Gennaro, e non un’apparizione o una statua, a frenare il flagello: ”egli (il Vicerè) col cardinal Buoncompagno arcivescovo di Napoli, con tutto il clero, e con buona parte de’ cavalieri ed altra grandissima turba di persone, spargendo umilissime preghiere a Dio, cavata dal sacro tesoro delle reliquie la testa ed il sangue del glorioso martire Gennaro, nostro principal padrone e particolar protettore in simili incendi del Vesuvio, ne girono in processione alla Chiesa della Madonna del Carmelo… Mancò poi quasi che miracolosamente; perciò, che sendosi dimostrato verso l’incendio il sangue di san Gennaro, si videro diminuir le fiamme e volgersi altrove le ceneri, che minacciavano di ora in ora cader sopra la nostra città (F. Capecelatro, Annali della città di Napoli (1631 – 1640).

Nel noto quadro di Micco Spadaro l’evento prodigioso è così celebrato: il santo cavalca una nuvola, in basso sono raffigurati il baldacchino con il busto reliquario ed un sacerdote che innalza le ampolle con il sangue miracoloso, alle cui spalle si riconosce con un largo cappello posto sul capo il vicerè in compagnia del cardinale Buoncompagni, mentre il popolo assiste alla processione affluendo dai lati ed affacciandosi dai tetti e dalle terrazze. Grazie al grande impatto dell’opera, è questa la ricostruzione del miracolo che ha avuto più fortuna.

 

 

 

Autore articolo e foto: Angelo D’Ambra

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