L’importanza di un itinerario preistorico

L’importanza di un itinerario turistico preistorico è purtroppo sottovalutata dalle istituzioni e ciò finisce con relegare il grande patrimonio archeologico in un lacerante stato di abbandono e disinteresse. Una rete di siti potrebbe tutelare e restituire grotte, villaggi e ritrovamenti al loro contesto sociale proteggendole dalla fragilità e dal degrado, soprattutto potrebbe creare dei collegamenti infrastrutturali che valorizzerebbero ogni sito in una organica proposta turistica. Purtroppo è una prospettiva molto lontana.

  • L’Oreopiteco di Montebamboli

Nel 1872, in un deposito di lignite vicino Montebamboli, presso Grosseto, emersero, frammisti al terriccio, dei piccoli resti ossei appartenenti ad un’antica scimmia e caratterizzati da una clamorosa conformazione, estremamente simile a quella umana. Appena l’anno prima era stato pubblicato L’origine dell’uomo di Darwin

Il clima era dunque “caldo”, carico di polemiche e la scimmia di Montebamboli segnava un punto a favore dei darwiniani. Essa poteva essere uno di quegli anelli dell’evoluzione fra la scimmia e l’uomo che Darwin era accusato di non poter esibire.

L‘Oreopiteco di Montebamboli restò a lungo un indecifrabile quadrumane poi, negli anni Cinquanta del Novecento, lo scienziato svizzero Johannes Hurzeler, del Museo di Storia Naturale di Basilea, potè dichiarare, a seguito di ulteriori ritrovamenti, che esso mostrava una chiara specializzazione di tipo umano. La testa, in particolare, possedeva elementi parecchio distanti da quelli scimmieschi, ad esempio, l’ampia capacità cranica, i denti adatti alla masticazione e la mandibola, meno sfuggente del solito. L’Oreopiteco era alto circa 1,10 metri per 40 chili di peso ed era bipede anche se manteneva tratti arboricoli; discende probabilmente dal Nyanzapithecus trovato nel Lago Vittoria in Kenya, datato 14 milioni di anni fa, e forse giunse in Italia attraverso la Sardegna.

Tuttavia gli scienziati sono concordi nel dire che questo primate del Miocene superiore non sia un antenato dell’uomo. Gli studiosi, a causa della peculiare anatomia cranio-dentale di questo primate, preferiscono includerlo in una famiglia distinta parte della superfamiglia delle scimmie antropomorfe. Era quindi una scimmia evoluta, che certamente si differenziò dalla matrice originaria in un tempo precoce e acquisì tratti vagamente umani, ma l’oreopiteco si estinse rapidamente senza evolversi ulteriormente per lasciare il posto a scimmie più robuste e meglio adatte all’ambiente dell’epoca.

Proveniente dai continenti d’Africa e d’Asia, il primo ominide, noto come Homo Sapiens, ha lasciato numerose testimonianze della sua attività di caccia e raccolta, ma è l’arte rupestre la sua grande manifestazione culturale e sociale. Arrivato nel Sud Italia alla fine dell’ultima glaciazione, la sua presenza è oggi occasione di scoperta e meraviglia. E’ infatti possibile tracciare un grande itinerario fatto di musei, collezioni, incisioni, rilievi e dipinti che testimoniano la predisposizione dell’essere umano all’espressione artistica già agli albori della storia, dall’età della pietra a quella del ferro.

 

  • Dall’Abruzzo alla Sicilia

In Abruzzo questi cacciatori trovarono zone a loro adatte, rivi, torrenti, alti declivi e montagne verdi con buoi, cavalli, cervi e cinghiali. Qui edificarono numerosi villaggi di cui oggi resta qualche traccia; in quello di Ripoli, all’interno di una capanna di frasche intonacata con argilla, è stata trovata una sepoltura con un uomo che giace in posizione rannicchiata con lo scheletro di un cagnolino. Interessanti in territorio abruzzese sono anche la Grotta Graziani nel Parco Nazionale, la Grotta di Ciccio Felice e la Grotta Afra vicino Avezzano dove sono stati trovati numerosi utensili e moltissime schegge di rifiuto; come tacere poi di Alfedena e dei suoi ritrovamenti: un’enorme necropoli con più di 1500 tombe e migliaia di reperti funebri. E’ parso evidente agli studiosi che l’homo sapiens praticasse un seminomadismo spostandosi nelle località montane per periodi brevi e ritornando in pianura con la cattiva stagione. Si stima che questo modo di vivere il territorio proseguì per circa cinquemila anni. Spostandoci lungo la linea appenninica, tra i ritrovamenti paleoantropologici più importanti d’Europa incontriamo il giacimento paleolitico di Isernia La Pineta, in Molise. Qui l’homo aeserniensis, nomade o seminomade, completamente all’oscuro su sistemi agricoli e pastorizia, si muoveva in gruppi composti di non più di venti individui vivendo di caccia. I ritrovamenti sono tutti nel Museo Paleolitico di Isernia, sito nel complesso di Santa Maria delle Monache, compreso un dente da latte di un bambino di cinquecentottantaseimila anni fa. Ancora ci muoviamo lungo l’Appennino giungendo in Campania, nella Grotta di Pertosa, dove sono stati rinvenuti arnesi tipici del mondo pastorale come frullini e bollitori di latte.

Prestiamo la nostra attenzione alla Puglia, dove il manico di utensile ricavato da un femore umano ritrovato a Molfetta fece stupire il mondo scientifico, alla Basilicata, con una visita al Museo Civico Archeologico di Latronico che conserva resti di industrie litiche e su osso, ceramiche dell’età del rame e del neolitico, ed alla Calabria, dove è possibile ammirare le pitture rupestri nella Grotta del Romito di Papasidero, che raffigurano due esemplari di bos primigenius, bovidi incisi nella roccia dodicimila anni fa probabilmente durante un rituale.

In Sicilia si segnalano i villaggi di Megara Hyblaea e di Stentinello, l’area di Pantalica, ma anche la Grotta di San Teodoro, dove sono state rinvenute cinque tombe in cui erano stati inumati uomini del paleolitico medio e inferiore con accanto collane di canini di cervi, ma non è l’unico eccezionale ritrovamento nell’isola. Ancora ricordiamo, sul lato nord del Monte Pellegrino alla periferia di Palermo, la Grotta dell’Addaura presenta incisioni molto più complesse di immagini umane non schematizzate ed animali. Singolare è il fatto che il volto degli uomini raffigurati è spesso coperto da una maschera a forma di uccello. Sembrano ballerini-uccello partecipi ad un rituale. Preziose sono anche le incisioni rinvenute nella Grotta di Niscemi con cerbiatti, bovini e cavalli, è però nell’arcipelago delle Egadi, precisamente nelle Grotte dell’isola di Levanzo, che sono stati trovati i più bei reperti del paleolitico di tutta Italia: incisioni e pitture d’uomini e d’animali con una resa visiva incredibile come l’equus hydryntinus, un cavallo dal testone posato su un collo sottile, le zampe corte e sottili, le orecchie piccole e tese.

 

  • I camuni

Né si taccia l’oro della Valcamonica. All’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, Giovan Battista Maffessoli, un falegname di Capo di Ponte, in provincia di Brescia, fece una sensazionale scoperta che condusse a lui, nell’inverno del 1956, il giovane archeologo Emmanuel Anati: decine e decine di rocce con migliaia di misteriosi segnetti, attribuiti all’antico popolo dei Camuni. Da allora sono stati ritrovati oltre 300.000 petroglifi, che fanno della Valcamonica il maggior centro d’arte rupestre in Europa.

I graffiti documentano minuziosamente pratiche agricole, di caccia, religiose e stabiliscono un filo conduttore tra l’età della pietra e l’epoca romana. “Qui – scrisse Anati – non abbiamo a che fare con reperti isolati, con frammenti di ceramica o con un cumulo di rovine. Qui abbiamo un numero stragrande di incisioni, nelle quali gli uomini stessi si sono rappresentati nel loro ambiente, negli atti della loro vita quotidiana e delle loro occupazioni economiche, nel quadro della loro società…”.

Omini, animali, mappe, disegni dall’aria infantile costituiscono il complesso petroglifico della Valcamonica, un mondo che, malgrado l’impegno decennale degli studiosi, è ben lontano da una interpretazione soddisfacente delle incisioni. Siamo di fronte ad una rappresentazione ideogrammatica che, dunque, riporta non tanto l’oggetto reale, ma la sua “idea”. Ma perchè i camuni si dedicavano con tanta passione all’incisione rupestre? Perchè riempivano le rocce delle loro montagne di tanti graffiti? La loro funzione è probabilmente riconducibile a riti celebrativi, commemorativi, iniziatici o propiziatori.

Anzitutto spesso sembra che l’artista camuno si comporti senza regole, non si preoccupa di un precedente disegno e sulla stessa superficie già segnata, traccia un nuovo tratto. Un nuovo disegno finisce così accanto o sopra uno più vecchio sebbene con esso non abbia nulla a che vedere. Ne risulta una costruzione confusa e di difficile lettura. Non mancano però immagini in relazione logica tra loro.

Il periodo più antico delle incisioni si fa risalire al neolitico,e cioè, grosso modo, al III millennio a.C. e si caratterizza per graffiti molte volte incomprensibili, figure semicancellate che non danno vita a composizioni. Pugnali, asce e lance si distinguono a partire dall’età eneolitica, la tecnica diventa via via più precisa sino all’età del ferro. Appaiono allora grandi scene monumentali dal carattere descrittivo. Il corpo umano acquista un volume proporzionato, il torace è modellato, si mostrano fasce muscolari. Tra le figure ricorrenti c’è l’uomo orante, cioè con le braccia piegate in gesto di preghiera, c’è il disco solare, c’è il cerco. Ciò che è certo è che i camuni non superarono la fase del simbolismo pittografico per sviluppare la scrittura. I segni alfabetici entrarono in Valcamonica solo come importazione etrusca. Non mancano poi carte topografiche delle zone di Longoprato, Perseghine, Pozzi e Bedolina.

Questi graffiti ci parlano del popolo camuno: vi ritroviamo i loro strumenti agricoli, l’aratro, la zappa, i buoi, i carri; di gran lunga prevalenti sono le scene dedicate alla caccia al cervo, al camoscio, alla volpe, in qualche caso troviamo anche uccelli acquatici. Si cacciava con trappole e reti, con l’ausilio di cani. Assai scarso era l’uso di arco e freccia, preferiti erano pugnale, spada, ascia e lancia. Pare che i camuni possedessero un’arma molto simile al boomerang, arma del resto comune alle popolazioni celtiche, una specie di ascia dal manico leggero e flessibile, lunga circa 50 centimetri che, se lanciata, tornava al lanciatore. I romani la chiamavano catei e, nella nota roccia di Naquane, se ne vedono tre; scarse sono le scene di pesca e, dove compaiono imbarcazioni esse sono simili a quelle ritrovate su rocce svedesi, nella regione di Norrkoping; sono numerose le incisioni dedicate alla lavorazione dei metalli e a Naquane compaiono ben sette telai verticali con un numero di persone impegnate a lavorarvi che fa supporre che il lavoro avesse superato la fase puramente domestica per avviarsi all’artigianato industriale.

Tra le figurazioni sim­boliche la “rosa camuna”, così impropriamen­te chiamata per la sua somiglianza con un fiore, sembra assumere un’importanza particolare. In tre tipi la rosa camuna appare sulle rocce: quadrilo­bata, a forma di svastica, a svastica asimmetrica. E’ difficile darne una interpretazione univoca. Si è pensato che essa rappresenti un simbolo con valenze astronomiche, uno strumento musicale, un gioco o un totem tribale. Forse è un simbolo religioso come i dischi solari. Il mistero resta ancora.

Un giorno del 16 a.C. i camuni videro avanzare nella loro valle le legioni romane al comando di Publio Silio. Non si fermarono e l’intera regione fu completamente soggiogata con la lenta agonia della civiltà camuna.

 

  • Il Cranio del Circeo 

E cosa dire del Cranio del Circeo venuto alla luce nel corso di una campagna archeologica del 1939 in un anfratto del massiccio del Circeo ispezionato dal paleontologo Alberto Carlo Blanc?

Blanc si era infilato in un cunicolo ed aveva incontrato, a celargli il cammino, una parete pietrosa dovuta ad una frana. Armatosi di piccozza si aprì un varco, vi strisciò dentro facendosi luce e si ritrovò in quello che a prima vista sembrava una caverna di stalagmiti. L’esploratore guardò per qualche istante quello spettacolo fino a quando divenne consapevole di star fissando in realtà ossa che il tempo aveva cementato alle pareti e ricoperto di una patina calcarea.

Erano ossa di rinoceronti, di cavalli, di cervi, di elefanti, leoni ed orsi. Vi camminò in mezzo con cautela fino a scorgere una camera più piccola, poi denominata “Antro dell’Uomo”, in cui riconobbe pietre dispose a forma di ovale ed in mezzo ad esso un teschio.

Quel cranio fu prelevato, studiato, misurato, catalogato. Apparteneva all’uomo di Neanderthal che subentrò in Italia nel tardo periodo interglaciale Riss-Wurm. Si scoprì che sul cranio era presente un segno di ferita vicino all’orecchio destro e un particolare più sinistro inquietò il paleontologo: i fori delle cavità oculari erano stati entrambi allargati con scalpello.

L’orribile scoperta rivelò l’esistenza di un rito macabro. L’erosione dei fori oculari veniva praticata affinché si potesse estrarre dal cranio il cervello del morto per darlo in pasto agli uomini della tribù. Blanc mise in relazione tutto con le tribù africane dei Niam Niam, con i Melanesiani, coi “cacciatori di testa” della nostra epoca che immaginano di assorbire la forza e l’intelligenza del defunto mangiandone il cervello. Altre tombe degli uomini di Neanderthal presentavano lo stesso elemento. I morti venivano seppelliti sotto il pavimento delle grotte che essi avevano abitato in vita, circondati da pietre entro le quali giacevano in due, con utensili e cibo accanto a loro.

Questa interpretazione però fu smentita nel 1989. Nuovi esami rivelarono che sul cranio non erano affatto stati trovati segni di utensili. Rivelarono pure che la ferita individuata era attribuibile ai denti di una iena. Si convenne dunque sul ritenere quella grotta la tana di una iena di 50.000 anni fa. Tutte le ossa di animali ritrovate erano i resti dei pasti della iena e anche il cranio di quell’uomo lo era. A riprova di ciò si addusse il comportamento delle iene dei nostri tempi che, quando si imbattono in carcasse, portano via ossi e crani per spolparseli nelle tane e si limitano a morderne la carne senza spezzare le ossa su cui essa è attaccata.

Gli uomini di Neanderthal in Italia popolarono sicuramente l’area del Circeo. I loro strumenti di selce, detti musteriani, abbonando nella costa tirrenica, in particolare nella zona dei Balzi Rossi, nella riviera ligure, vicino a Ventimiglia, ed un secondo cranio, chiamato Saccopastore, fu trovato sulle rive dell’Aniene.

 

  • La Grotta di Basura

Per lungo tempo si ritenne uno dei più sensazionali ritrovamenti neandertaliani quello della Grotta di Basura, nel territorio di Toirano, in provincia di Savona.

Grosse stalagmiti ne bloccavano l’ingresso e quando furono abbattute, nel 1950, vennero alla luce numerosi scheletri di Ursus spelaeus, l’orso del Pleistocene, incrostati dai depositi calcarei. Gli studi avviati dall’archeologa Ginetta Chiappella rivelarono pure, impresse nell’argilla, impronte di piedi umani, sia di maschi che di femmine, la cui altezza doveva aggirarsi tra il metro e trenta ed il metro e sessanta, nonché segni di carbone e strane palline di argilla alle pareti. Si pensò subito che fossero tracce di uomini di Neanderthal ma che ci facevano in quella grotta con degli orsi?

Gli studiosi dedussero che i neandertaliani si dedicavano anche alla caccia all’orso, magari incoraggiati da riti magici legati a quei segni di carbone ed alle palline d’argilla. Si immaginò questi uomini armati di fiaccole penetrare nelle grotte dove gli animali erano in letargo, mentre altri, muniti di asce e pietre, attendevano fuori gli orsi spaventati dal fuoco.

Tuttavia, negli anni settanta, nuovi studi mostrarono errata la suggestione che vedeva la Grotta di Basura teatro d’incontri-scontri fra l’orso delle caverne e l’uomo di Neanderthal.

Si chiarì che quelle impronte erano dell’Homo Sapiens. L’Ursus spelaeus vi si recava per trascorrervi il letargo, ma non incontrò mai l’uomo. Le impronte umane di piedi, di mani, di ginocchia, le numerose palline d’argilla attaccate alla parete, contro la quale furono scagliate probabilmente con significato rituale, sono tutte riferibili a uomini del Paleolitico superiore, cacciatori-raccoglitori che frequentavano la regione e utilizzavano questa grotta non come abitazione ma probabilmente per scopi rituali.

 

  • Le Veneri paleolitiche

Nella frazione Grimaldi di Ventimiglia, a poca distanza dal valico di frontiera di Ponte San Ludovico tra Italia e Francia, vennero trovate una serie di grotte con diversi reperti di epoca paleolitica tra cui statuette, denominate Veneri paleolitiche, caratterizzate dall’evidenziazione goffa degli attributi sessuali molto pronunciati.

l complesso è formato da circa quindici cavità naturali, tra le quali troviamo la Grotta del conte Costantini, la Grotta dei fanciulli, la Grotta del Caviglione, la Grotta di Florestano, la Barma grande e la Grotta del principe.

Diverse sepolture, tutte di individui del tipo di Cro-Magnon, vennero alla luce nella seconda metà dell’Ottocento. Uomini, donne, bambini giacevano con corpi cosparsi di ocra rossa ed ornati di conchiglie. Un differente tipo di Cro-Magnon fu individuato nei resti di una donna anziana e di un adolescente che furono identificati come “Uomini di Grimaldi”. Si suppose che essi fossero di origine africana perché la loro morfologia ricorda quella di un tipo negroide, ma l’opinione più diffusa è che la somiglianza con i negroidi non implichi legame genetico.

Uno dei ritrovamenti su cui più si fermò l’attenzione degli studiosi fu però quello di tre statuette di Veneri, bellissime nel loro genere, piccole sculture alte intorno ai sei centimetri, il cui significato resta ipotetico.

Gli scavi condotti datano le sculture alla prima fase del Paleolitico Superiore, periodo che si colloca tra i 30.000 e gli 11.000 anni fa. Raffigurano donne, profili e forma presentano un’esagerato volume dei seni, ventre e fianchi, mentre le altre parti del corpo e le gambe sono sottodimensionate.

Gli attributi della fertilità sono messi in risalto in una forma caricaturale diremo, le gambe unite mostrano cosce enormi, il sedere sporge sproporzionato, i seni penduli arrivano a coprire il ventre rigonfio. Queste Veneri del Paleolitico sono goffe, non hanno braccia, né hanno piedi, sono una grezza sagoma femminile col capo appena abbozzato. Erano idoli della fertilità di cui probabilmente ci si serviva per assicurarsi una discendenza, forse statuette votive che venivano nascoste negli angoli più bui delle caverne, probabilmente infisse nel terreno, perché esercitassero una influenza magica sulle donne e le aiutassero a procreare.

 

 

 

 

 

 

 

Autore: Angelo D’Ambra

Bibliografia: M. Corona, Le civiltà preistoriche in Italia; A. Beltran, Paleoantropologia e preistoria: origini, paleolitico, mesolitico; V. Formicola, Le sepolture paleolitiche dei Balzi Rossi; P. Gaietto, Scultura antromoporfa paleolitica

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