Modernità ed attualità del Gran Capitano

Il dipinto che innanzi mi apparve fu portatore di forti emozioni, assumendo la forza evocativa che solo la storia e gli avvenimenti che la determinano sanno trasmettere, persino ora, tra le genti dei luoghi ove quei fatti accaddero.
La Battaglia di Seminara, nella Calabria Inferiore, sul fiume Petrace del 28giugno del 1495 che autore ignoto, su disposizione di Napoleone III, dipinse del XIX sec e conservato nel Musée dell’Armée all’Hotel desInvalides, a Parigi, dice molto di più ai posteri di quanto in quel quadro stesso appare.  Napoleone III, indicando nella battaglia combattuta a Seminara come uno degli avvenimenti gloriosi di Francia e del suo esercito, perché proprio lì il più grande generale spagnolo subì l’unica sconfitta della sua vita,non fece altro che riaffermare la grandezza di Gonzalo Fernandez da Cordova y Aquilar, il Gran Capitano, perché chi grande si sente e si celebra, solo ai grandi può dedicare tanta attenzione!

Napoleone, forse, nell’ordinare la realizzazione di quel quadro così rievocativo, dopo più di 3 secoli dagli avvenimenti, perché rimanesse a testimonianza della grandezza delle armate francesi, voleva esorcizzare l’incubo di quel formidabile generale che, dopo Seminara, sconfisse e distrusse tutti gli eserciti francesi mandati in Italia Meridionale per contrastarlo.

Incubo che già aveva turbato la mente di Luigi XII durante il famoso summit di Savona, nel giugno del 1507, con Ferdinando il Cattolico, quando, tra lo stupore generale della migliore nobiltà europea lì convenuta, nel corso del banchetto il Re di Francia rivolgendosi a Ferdinando, gl’intimò: ”Ordini, la Vostra Signoria, al Gran Capitan che si segga qui, tra ed in mezzo ai Re, perché chi i Re vince con i Re merita sedersi e lui si porta tanto onore quanto qualunque Re!”.
Ecco, in queste solenni parole si può racchiudere la straordinaria epopea militare, umana e politica del Gran Capitan.
Quando giunse a Messina, alla testa di un corpo di spedizione inviato in aiuto ai deposti sovrani aragonesi di Napoli, nel maggio del 1495, Gonzalo da Cordova era già ammantato di gloria per aver partecipato alla presa di Granada e portava con sè 3.000 veterani spagnoli che avevano partecipato all’ultima fase della Reconquista sotto le mura della Città del Paradiso.

La condizione di figlio cadetto, che lo privava dei privilegi riservati ai primogeniti, eredi dei titoli nobiliari e dei beni feudali, non gli avevano impedito, con il favore di Isabella di Castiglia, di divenire un comandante che primeggiava tra i capitani spagnoli.

Ma è nella Battaglia di Seminara che Gonzalo da Cordova, per la prima volta, scopre, subisce ed acquisisce la consapevolezza che nelle cose di guerra nulla deve essere lasciata al caso se non si conosce, prima, la forza, il numero e le tecniche militari usate dal nemico. Pur se non convinto delle decisioni e delle strategie adottate dal re di Napoli, Ferrandino, Gonzalo da Cordova accettò di seguire e portare battaglia ai francesi nella piana di Seminara, sul fiume Petrace.

Portò in battaglia i veterani, in formazione di fanteria leggera d’arcieri e di cavalleria leggera, come aveva fatto con i mori nelle montagne intorno a Granada, e si trovò in una pianura, accecato dal sole cocente, fin dal mattino, che rifletteva sulle maglie d’acciaio corazzate della potentissima Gendarmerie Francaise, il primo, vero corpo corazzato apparso in Europa.
La Gendarmerie Francaise fece strage dei suoi veterani e Gonzalo dovette assistere all’annientamento del suo corpo di spedizione quando, nello scenario della battaglia, comparvero i Picchieri Svizzeri, mercenari al soldo del Re di Francia, nella tipica formazione di combattimento ad istrice che, cantando rudi stornelli di guerra e passandosi tra di loro borracce traboccanti di vino e di alcool, distrussero uomini, animali e cose al loro passaggio.

L’Aquilar si salvò a stento dalla battaglia e…rinacque!

Vide, nascosto tra acquitrini melmose e pozzanghere infette dove aveva trovato rifugio e che gli portarono la malaria, i suoi uomini morti e straziati dai cani randagi o fatti prigionieri. Poveri fanti che non potevano pagarsi il riscatto, fatti inginocchiare in filar di penitenza lungo la riva del fiume e scannati perché il sangue si mischiasse con una terra da sempre cruda e violenta.
Vide tutto questo, Gonzalo da Cordova, il Gran Capitan e giurò che mai più nulla sarebbe stato come prima.
A Seminara, Gonzalo capì che la conoscenza preventiva del nemico, in battaglia, era preminente rispetto ad ogni altro sapere. Capì che in quella battaglia era morto anche l’antico modo di guerreggiare dell’esercito spagnolo e che i tempi nuovi imponevano atti d’ingegno militare non comune.

Il Gran Capitan iniziò, da allora, a studiare e sperimentare tecniche militari talmente innovative che portarono l’esercito spagnolo, nei 150 anni successivi, a dominare, incontrastato, sui campi di battaglia di tutt’Europa. Dopo Seminara, Gonzalo vinse tutte le battaglie e sconfisse tutte le armate francesi, inviate a contrastarlo. Usò la tattica del temporeggiatore, dimostrando che la Fortuna può arridere anche ai prudenti. Vinse ad Atella, strappò Napoli ai francesi, vinse ad Ostia, a Cefalonia, a Cerignola, sul Garigliano, a Gaeta. Corazzò la cavalleria e fortificò tutti i castelli secondo una moderna concezione d’ingegneria militare. Con l’invenzione delle coronelìas, compagnie miste di fanti, cavalieri leggeri, picchieri ed archibugieri, portò sconquasso nei campi di battaglia e non ebbe più avversari.

Ma Consalvo, venendo in Italia, amato tantissimo dal suo esercito e dal popolo napoletano anche molto prima dal momento della sua nomina a vicerè del Regno di Napoli, nel 1504, scoprì il pensiero rinascimentale che portava sapori di tempi nuovi come gli uomini che volevano far del bello sentimento eccelso.

Si allontanò dalla mistica ostentazione della Santa Inquisizione e dalle sfarzose processioni che accompagnavano i condannati al rogo, anzi ,nella convinzione che nelle cose di Stato nulla era dovuto ai fanatismi religiosi, scacciò, in cattivissimo modo, da Napoli i due inquisitori, Belforado e Montoro, mandati da Ferdinando il Cattolico, tanto da inimicarselo ferocemente. Protesse gli ebrei a Napoli e nei territori partenopei.

Fu moderno ed attuale nel momento in cui, prima della Battaglia di Cerignola, volle un incontro con il comandante in capo dell’esercito francese, il Duca di Nemours dove si stabilì che anche i fanti catturati in battaglia non venissero più uccisi, ma potessero pagarsi un riscatto assicurato, senza distinzione alcuna, dalla cassa dell’esercito d’appartenenza.
Pensava ad un mondo nuovo, Consalvo, ispirato alle teorie di Erasmo di Rotterdam e, osannato e invitato dal popolo napoletano, pensò forse di farsi re e protettore del Regno di Napoli in un riordino generale della Corona di Spagna dopo la morte di Isabella di Castiglia.

Sogni svaniti dopo la morte di Filippo il Bello, con cui aveva discusso di lavare l’onta che lo perseguitò per tutta la sua vita: aver tradito la fiducia dell’ultimo, legittimo re di Napoli, il giovanissimo Duca di Calabria, Ferdinando III d’Aragona, da lui assediato a Taranto e mandato prigioniero in Spagna, dopo che lo stesso si era arreso dietro promessa solenne di essere liberato.

Pensò di dichiararsi ribelle, soprattutto dopo le infamanti accuse che servi sciocchi e prezzolati di Ferdinando il Cattolico gli mossero su presunte malversazione dei fondi di guerra. Rispose, com’è costume dei grandi uomini, con l’ironia che ha la forza di seppellire ogni miserabile pensiero. Licenziò l’esercito e rifiutò d’iniziare una guerra civile. Fu ripagato con l’inganno e l’isolamento, ma restò uomo del Rinascimento, carico di Pietas e Fortitudo.

Morì a Granada il 2 dicembre del 1515, riaffermando l’estremo amore verso le Terre di Calabria quando, in uno spazzo di lucidità sul letto di morte, gridò che Lui era solo il Duca di Terranova, potente, allora, città nella Piana di Seminara, e invocava, perché lo accompagnasse in un mondo migliore, San Francesco di Paola, del quale Gonzalo Fernandez da Cordova y Aquilar, il Gran Capitan, fu un fervente devoto.

 

 

 

Autore articolo: Santo Gioffrè, autore del romanzo”Il Gran Capitan e il Mistero della Madonna Nera”, Rubbettino Editore, novembre 2014

 

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