Paolo De Matteis ed il Viceregno Austriaco

Nato a Piano Vetrale, in provincia di Salerno, nel 1662, Paolo de Matteis realizzò sempre scene dai forti accenti teatrali con un linguaggio pittorico aulico ed aggraziato, assai vicino al gusto di stampo rocaille.
Giunse a Napoli giovanissimo entrando in contatto con Luca Giordano. Maturò esperienze anche a Roma, protetto dal Marchese del Carpio, ambasciatore spagnolo, che lo introdusse all’Accademia di San Luca, e, di ritorno a Napoli, col suo mecenate che era intanto divenuto viceré del Regno, mostrò il suo estro in un maturo connubio di classicismo e barocco, un finissimo pittoricismo giordanesco con espliciti riporti di cultura e ricercata idealità classica in anticipo sul rococò.

Con gli affreschi della Chiesa di San Ferdinando, con le tele inviate in Spagna, e cioè il complesso ordinato dal successore del Marchese del Carpio, il conte Francisco de Benavides, e con gli affreschi per la cupola del Gesù Nuovo e per la Farmacia della Certosa di San Martino, il De Matteis si impose come punta della pittura napoletana, di fatti antagonista di Francesco Solimena.

Nel mezzo del conflitto tra Spagna ed Austria s’era ormai appropriato di un formulario iconografico esaltante che riuscì abilmente a porre al servizio del vincitore: l’opera su cui ci soffermiamo è “Allegoria per la pace di Rastatt e di Utrecht”.

La tela colpisce la nostra attenzione perchè mostra l’allegoria celebrativa del trattato di Rastatt, stipulato tra Spagna e Austria nel 1714, che sanciva, all’indomani della pace di Utrecht del 1713, la conclusione della Guerra di Successione Spagnola ed il passaggio del Regno di Napoli al governo imperiale di Vienna.

La composizione finale è andata distrutta, ma se ne conserva il frammento centrale al Museo di Capodimonte in cui appare l’autoritratto del pittore mentre dipinge la tela con le personificazione dell’Austria e della Spagna che si riappacificano.

Il pittore è in veste da lavoro, con a lato una scimmietta, simbolo dell’imitazione della natura, e sta completando la tela con le immagini di due donne, raffigurazione delle due nazioni, che si tengono la mano. L’opera appare sostenuta da Atlante e da amorini in volo. Sulla destra appare anche una Virtù che abbatte i Vizi ed i Mali della guerra, sulla sinistra invece ci sono la Pace e la Fama che mettono in fuga Marte. Nell’angolo in basso a destra leone, tigre, pecora e agnello convivono pacificamente; in alto Fertilità ed Abbondanza con Speranza e Carità alludono all’opera di accora mediazione nel conflitto condotta da Papa Clemente XI. Sullo sfondo c’è il Golfo di Napoli con il Vesuvio in fiamme e la ninfa Partenope che suona un violino.

E’ un lavoro di grande impatto visivo e chiarezza compositiva in cui tutto appare studiato. L’€™idea della composizione deriva da una celebre tela del Giordano, conservata al Prado, la quale raffigura Rubens mentre ritrae l’allegoria della pace e della guerra. L’opera del De Matteis però accentuava gli elementi decorativi ed il complesso delle raffigurazioni allusivoe, moraleggianti ed encomiastiche.

La tela, forse esposta per la prima volta presso il Monte dei Poveri Vergognosi, fu accolta negativamente dalla critica. Troppo ardite le soluzioni iconografiche, specie per la presenza dell’autoritratto del pittore, troppo colta e raffinata l’illustrazione dei temi politici.

Tuttavia De Matteis riuscì a soddisfare le esigenze del mondo politico che apprezzò il senso celebrativo dell’opera e la sua proiezione propagandistica, così il pittore ripetè gli stessi schemi in “Allegoria per il trionfo dell’Imperatore Carlo VI d’Asburgo sui Turchi”, tela oggi conservata ad Opocno.

Si trattò di eloquenti testimonianze del carattere strumentale, addirittura cortigiano, cui veniva ridotta l’arte o forse del frutto d’un atteggiamento guidato da ideali etici e lucidità razionale, anticipatore della fisionomia illuminista? Fatto sta che il De Matteis ricevette prestigiose commissioni come quelle del Conte Daun, primo vicerè austriaco, di Lord Shaftesbury e del Principe Eugenio di Savoia. Per loro eseguì decorazioni di palazzi e pitture ormai perdute.

Tornato a Roma nel 1723, lavorò alle dipendenze del Cardinale di Polignac, ma rientrò a Napoli senza aver ricevuto nuovi stimoli e le opere che seguirono il suo ritorno, ovvero le pale di Santa Maria degli Angioli ad Aversa e quella del Duomo di Sarzana, si legano con rigorosa continuità alle precedenti.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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