Venezia e le Guerra di Candia e di Morea

Nella seconda metà del Seicento, Venezia langueva in una crisi politica ed economica evidente. La pressione turca, gli effetti della Guerra di Gradisca contro gli Asburgo d’Austria e quelli degli intrighi degli Asburgo di Spagna, costringevano la repubblica a mantenere grossi eserciti. In più, i commerci marittimi erano appassiti: “Esser del tutto estinta in mano de’ nostri la mercanzia e la navigazione del Ponente, e quella di Levante ridotta in mano di pochi smarriti dalle perdite, e li vascelli de’ sudditi in pochissimo numero ,e vano ogni dì più mancando, e quello che si deve maggiormente considerare che nè anco le poche mercanzie condotte in questa città hanno di prontezza compratori per essersi le navigazioni che le davano esito rivolte altrove con li suoi negozii, sì che resta poco meno che annichilato l’importantissimo commercio di questa famosissima piazza che abondava di tutte le cose mercantili che d’ogni parte del mondo concorrevano in essa, con partecipazione di tutte le nazioni” (Relazione del Collegio dei Savi del 5 luglio 1610).

Quando i cavalieri di Malta, assaltata una flottiglia musulmana carica di merci e con a bordo Chiflar Agà, il capo degli eunuchi ossia il soprintendente alla custodia del serraglio, ripararono nella rada di Kalismene, sull’isola di Candia, possedimento veneziano dal 1204, si incrinarono pericolosamente anche le relazioni fino ad allora pacifiche col sultano Ibrahim. Questi, approfittando dell’offesa, preparò una flotta, apparentemente per assaltare Malta, in realtà per attaccare Candia, come il balio veneziano Giovanni Soranzo aveva scoperto. La repubblica, prontamente avvisata, effettuò il più velocemente possibile dei generali lavori di rafforzamento delle opere difensive e dei presidi, sotto le direttive del provveditore generale dell’isola Andrea Corner.

 

  • Guerra di Candia

Quando, come previsto, il 30 aprile del 1645, quattrocento vele con cinquantamila combattenti guidati da Iusuf Bascià attaccarono Candia, sbarcando sulle spiagge di Gognà, trovarono non poche difficoltà.  Occuparono faticosamente il Forte di San Teodoro, difeso da Biagio Zuliani che, quando vide che non poteva più respingerli, diede fuoco alle polveri, seppellendosi sotto le rovine. “Il Capitan Giuliani, dato fuoco alla municione ha più tosto voluto morire generosamente con li suoi, et con parte dei medesimi Turchi quali vi erano entrati, che mai rendersi…”, scrisse il Corner. L’assedio si spostò poi alla Canea che prese però a resistere con successo grazie al provveditore Antonio Navagier ed ai suoi duemila uomini, mentre il Senato si apprestava vanamente a chiedere soccorsi: il papa inviò cinque galee, come la Spagna e gli amici, ovvero la Francia, appena quattro brulotti. Navagier si arrese solo dopo cinquantasette giorni, ottenendo d’uscire con gli onori militari ed imbarcarsi per la Suda dove si andava concentrando la flotta veneziana, ma la controffensiva fallì: quaranta galee, trenta galeoni, quattro galeazze, dieci galeotte ed altri legni minori, comandati da Girolamo Morosini, tentarono un colpo di mano nella notte del 16 settembre ma dovettero abbandonare i loro propositi per il vento contrario.

Il nemico non allentò la sua presa: i turchi si spostarono alla Suda, guidati dal comandante supremo Cusseim, ma trovato difficile convincere con le buone i provveditori Girolamo Minotto e Michele Malipiero, le preferirono la Fortezza di Retimo, sita tra la Canea e la capitale, difesa da una squadra francese. Il doge Francesco Erizzo, come capitano generale, avrebbe dovuto guidare una vasta spedizione, ma ormai vecchio morì il 3 gennaio 1646, poco prima della partenza. Fu sostituito come doge da Francesco Molin e come capitano generale da Giovanni Cappello. A Reitmo però i francesi scapparono e i turchi presero la città, poi la fortezza che capitolò il 13 novembre del 1646. Tra i caduti ci fu il valoroso Andrea Corner che, rimasto senza gli alleati, combatté alla disperata, cadendo per una moschettata.

Gli alleati ne approfittarono ed iniziarono la smobilitazione. Abbandonarono tutto dopo appena trentasette giorni. Se gli alleati mostravano debole impegno, c’era anche un grande assente. I rapporti con la Spagna erano decisamente di ostilità. L’inimicizia si era consolidata nel decennio 1620-1630. La Serenissima aveva combattuto gli spagnoli per cacciarli dalla Valtellina, consegnata ai Grigioni con la pace di Monsone del 5 marzo 1626, e per mettere Carlo Gonzaga, duca di Nevers, sul trono di Mantova e del Monferrato, dopo l’estinsione della linea diretta gonzaghesca di Federico II, cui Carlo V, nel 1530, aveva assegnato il ducato. In questo secondo caso i veneziani, guidati da Zaccaria Sagrédo, erano stati sonoramente sconfitti a Marengo e Villabuona, ma peggio risultò l’impatto della peste che si diffuse rapidamente e seminò, solo nei lazzaretti della città, 46.490 vittime. Superato il flagello, i veneziani tornarono ad armarsi, stavolta contro papa Urbano VIII in quella che divenne la Guerra di Castro, sanguinosa e dispendiosa oltremodo per la Repubblica ancora ferita dai danni di pestilenza e passati conflitti, che così affiancò all’ostilità spagnola, la diffidenza della Santa Sede.

Venezia faticava ad organizzarsi, l’erario era vuoto e servì ricorrere alla vendita di nobiltà e procuratie di San Marco per raccogliere quanto necessario. Cappello, accusato d’essersi mosso con incredibile lentezza senza portare alcun supporto agli assediati, fu condannato ad una anno di carcere e sostituito da Battista Grimani, capitano decisamente sfortunato perché il 18 marzo 1648, appena partito da Ipsara per chiudere ai turchi il passo dei Dardanelli, fu sommerso dai morosi di un violento uragano. Venezia però segnò una splendida vittoria: quarantacinque galee turche furono sbaragliate nelle acque di Negroponte da Tommaso Morosini che morì in battaglia.

Il sultano vedeva dissolversi le illusioni di una rapida conquista. Quasi tutta l’isola era in sue mani, ad esclusione però di siti di grande rilievo, cioè Candia e le isole di Gramvousa, Suda e Spinalonga, e lo spirito dei veneziani era tutt’altro che infiacchito. Indispettito, rinchiuse Soranzo in galera, ma non riuscì a far giungere in tempo soccorsi a Cusseim perchè i veneziani conseguirono altri vittoriosi scontri. La Sublime Porta non voleva rinunciare alla sua preda eppure non le riusciva di conseguire significativi successi: il provveditore Iacopo Riva, il 6 maggio 1649, sorprese la flotta nemica nelle acque di Fochies e le inferse un duro colpo.

Altro importante scontro si ebbe il 10 luglio del 1651, le due armate s’affrontarono nelle acque di Paros, ancora con una vittoria dei veneziani stavolta guidati da Luigi Mocenigo, detto Leonardo. Quindici vascelli turchi, una galeazza e due galere furono affondate. Un’altra estate stava volgendo al termine e Candia continuava a resistere.

Il nemico non riusciva a conseguire significativi passi in avanti nelle operazioni e Venezia, dal canto suo, non aveva le forze per ardire una mossa vincente, così la guerra si protrasse stancamente per lunghi mesi. Il progetto di intervenire ai Dardanelli fu ripreso nel 1656. Lorenzo Marcello, Lazzaro Mocenigo e Antonio Barbaro apportarono grandi perdite alla flotta turca nello stretto, il 26 giugno 1656, quando con un naviglio inferiore in numero, investirono potentemente le navi di Chinam, costringendolo alla fuga e tranciando la vita a diecimila soldati. Anche Marcello morì in quest’impresa. Una seconda sortita nello stretto, l’anno dopo, sostenuta dalle galee del papa e dell’Ordine di Malta, vide anche Mocenigo, in precedenza vittorioso a Scio, Tenedo e Lemno, perdere la vita nello scoppio improvviso della polveriera. Le navi veneziane si dispersero tra gli scogli. Ancora una volta gli alleati si ritirarono con un nulla di fatto, i turchi però avevano subito così tante perdite di navi e uomini che il granvisir Mohammed Koproli sentì l’esigenza di aprire delle trattative, per poter così concentrarsi sul riordino della pubblica amministrazione e dell’erario. La sua pretesa avanzata però era inaccettabile, si esigeva la cessione di Candia.

La scena fu allora occupata da Francesco Morosini. Distintosi sotto i comandi di Marcello e Mocenigo, fu lui ad apparire l’uomo giusto, la scelta migliore come comandante dell’armata. Iniziò ad attaccare le coste dell’Anatolia, impadronendosi di diversi siti e demolendone le fortificazioni. Intanto, sullo scacchiere europeo, il trattato dei Pirenei portò la pace tra Francia e Spagna e permetteva ai veneziani di ricevere quattromiladuecento uomini  dalla Francia, al comando del principe Almerigo d’Este, nonché due reggimenti del duca di Savoia, sotto il comando del marchese Gianfrancesco Villa. Morosini organizzò questa armata a Cerigo e si diresse a Candia, eppure illusioni e preparativi furono vanificati da un attacco improvviso di trecento cavalieri turchi che distrussero l’accampamento veneziano. Antonio Barbaro, incolpato dal Morosini, fu assolto dal Consiglio dei Quaranta che invece iniziò ad nutrire sospetti sulla condotta del Morosini. Il colpo più pesante per Venezia, però, fu dato dalla pace siglata tra il Sacro Romano Impero di Leopoldo I e la Sublime Porta nel 1664 perché adesso il sultano poteva concentrare tutte le sue forze su Candia.

Le operazioni ripresero con forza nel maggio del 1667, quando comparve davanti alla fortezza di Candia il gran visir. Sfilò sotto un baldacchino bianco e diede indicazioni di spianare i borghi di Candia-Nova: “Dal maggio al novembre di quell’ anno avvennero trentadue assalti, diciasette sortite, seicento diciotto mine erano scoppiate tra l’una parte e l’altra , perirono tremila dugento de’ veneziani, con quattrocento ufficiali, ben ventimila dei Turchi, che costretti furono a ritirarsi a qualche di stanza. Ciò che non avevano potuto per le armi, tentarono colle seduzioni, colle minaccie, ma tutto invano, chè ogni soldato, ogni abitante di Candia era un eroe, le donne stesse combattevano, prestavano opera alle fortificazioni, ed ad ogni bisogna diligentemente provvedeva il Senato con numerosi convogli di munizioni e di viveri che quasi ogni mese partivano da Venezia; resistenza, perseveranza uniche negli annali della storia militare” (S. Romanin, Storia documentata di Venezia).

Come prima cosa, Francesco Morosini si portò sull’isola in ricognizione. Le condizioni erano pessime, i turchi avevano aumentato il parco delle artiglierie ed erano donne e bambini a sostenere i costi della difesa “recando terra per i ripari e lanciando sassi contro le orde del nemico” (G. Bruzzo, Francesco Morosini nella Guerra di Candia e nella conquista della Morea). Bisognava ristabilire le fortificazioni, rimpolpare la guarnigione, costruire navi, ripensare il rifornimento d’armi e munizioni, porre un argine alla fame come alla peste. Venezia accettò così di chiamare alla leva diecimila uomini e vendere beni comunali. Il papa Clemente IX aveva inviato suo nipote Vincenzo Rospigliosi alla guida di una flotta di dodici galee pontificie e maltesi, ma Venezia era in difficoltà, stava finendo dissanguata da questa guerra così lunga. C’era bisogno anche di astuzia e di spie e Morosini fu abile anche in questo. Subodorata l’intensione del sultano di spedire la flotta di Chalil Pascià e del corsaro Durac a sbaragliare la squadra di Lorenzo Cornaro per poi occupare la Standia, Morosini uscì in tutta fretta dall’isola e con venti galere affrontò la flottiglia ottomana di notte, il 7 marzo 1668, a lume di torce. Sette ore di scontro portarono alla morte di Durac, alla cattura di cinque galere e quattrocento prigionieri, tra cui il bey di Cipro, nonché alla liberazione di milleduecento cristiani.

I tradimenti erano dietro l’angolo, presto il veneziano Andrea Barozzi avrebbe fornito al nemico notizie sui punti chiave e più deboli della città fortezza di Candia.

Lì situazione peggiorava di giorno in giorno. I turchi, inaspriti dalla vittoria che faticava ad arrivare, aumentarono la veemenza dei loro attacchi, la gente viveva nelle caverne, i soldati sulle brecce, gli ospedali erano pieni di feriti e ammalati e mancavano pane e paghe. Anche il duca de la Feuillade approdò a Candia con cinquecento uomini per provare ad obbligare i turchi a levare l’assedio in una sortita, ma non fu fortunato: quanto il Forte di Sant’Andrea sembrò indifendibile, Morosini lo fece minare, arrecando un gran numero di morti al nemico. Dalla Francia giunse inoltre l’armata dell’ammiraglio Francesco Vendome, duca di Beaufort, con cinquemila soldati diretti dal Noailles. Neppure questo servì. Si registrarono anzi delle divergenze su come operare perché i francesi puntavano sull’efficacia della sortita, sognavano un’azione rapida e vincente e riprovarono le strategie del Feuillade dal bastione della Sabbionara, nella notte del 24 giugno 1669, ancora fallendo e quindi reimbarcandosi già il 21 agosto. Abbandonarono l’impresa anche pontifici e maltesi. Tutti ritenevano impossibile la difesa della piazza.

Ormai la situazione per la Serenissima si era fatta davvero insostenibile. Nella difesa della piazza erano caduti ottomilacentosessantasette soldati, duemilasettecentosei galeotti e guastatori e si erano spesi quattro milioni e duecentocinquantatremila ducati. Col Morosini, il Consiglio di guerra deliberò di trattare la resa: il 6 settembre l’isola fu ceduta, la Repubblica mantenne Grabusa, Suda, Spinalonga e Clissa. Lo sconforto a Venezia fu devastante, ma era quanto di meglio si potesse ottenere. Morosini, però, non fece in tempo a rientrare che fu accusato da Antonio Correr di viltà e tradimento. Il Senato riconobbe la sua innocenza e lo prosciolse da ogni accusa.

 

  • Prima Guerra di Morea

Quindici anni dopo, Venezia strinse un’alleanza con la Polonia, con Leopoldo I e col papa. Una nuova flotta comandata da Morosini salpò i mari nel giungo del 1684 con a bordo le truppe da sbarco del friulano Nicolò Strasoldo. A fine mese era Corfù dirigendo le truppe all’espugnazione dell’isola di Santa Maura che cadde nell’arco di sedici giorni. Mentre Morosini cannoneggiava dal mare, si effettuarono due attacchi simultanei “l’uno alla parte di terraferma sotto il comando del general
Strasoldo con una portione delle Militie Venete, e con le Maltesi, e Pontificie; e l’altro verso Leucade sotto la direttione di Francesco Saluatico Nobile Padouano Sergente Maggior di Battaglia, col restante delle genti Venete, e con le Forastiere“, scrive il Foscarini in Historia della Republica Veneta, precisando che i veneziani contavano 6000 fanti e 150 cavalli e con l’oro c’erano mille fanti e 100 cavalli di Malta, 300 pontifici, 600 toscani e le milizie delle isole tra cui 1500 cefalonesi ed il vescovo greco con “150 dei suoi preti”. Fu issato lo stendardo di San Marco su Natolico, Missolonge poi Prevesa e i turchi finirono sopraffatti anche dagli abitanti di Cimara e di Brazzo di Maina.

Il Senato si impegnò a rifornire l’armata di viveri, danaro, nuovi soldati, mentre Morosini si cimentava nel fortificare i luoghi più esposti. Le attenzioni si spostarono dunque su Corone.

Posto l’assedio e sconfitti i soccorsi dell’ammiraglio Mustafà sbarcati a Nauplia (Napoli di Romania), ci vollero quarantasette giorni e Corone cadde. Così ne parla il Morosini: “Sono quarantasette giorni che combattono l’armi della Serenità vostra l’assediata Piazza di Coron, e benchè le batterie de cannoni, e i mortari con bombe e sassi habbino incessantemente flagellato l’interno del recinto, che si è ridotto in una massa di horride rovine, ad ogni modo le straggi, et il sangue sono ancora incentivi di più ostinata ed infuriata durezza ne diffensori. Procedendo però questa loro pertinace costanza dal soccorso grosso di terra, che venne già sotto gl’occhi loro ad accamparsi; dal sito forte, che contrastava qualunque nostro risoluto attentato per espugnarli, e dalla disperatione, che li stringeva a sacrifficarsi tutti più tosto che ceder la libertà, gl’haveri, e la sorte felice che qui s’erano stabilita, ben compresi, che tutte le mire, et attentioni doveano esser fissamente rivolte a batter il nemico stesso alloggiato fuori delle nostre trinciere a tiro di pistola, perchè senza questo fortunato evento non era da promettersi l’acquisto della Piazza… Così con l’industria d’un affaticato strattagemma trionforno l’armi invitte dell’ E. E. V. V. d’ una vittoria, che sarà memorabile in tutti i secoli, mentre in terra mai più s’è potuto dare agl’Ottomani sconfitta sì grande, e tanto per essi vergognosa… Per quello poi al mio particolare s’ aspetta, dirò con sommesso rispetto, che posso bensì augurarmi habilità maggiore, e robustezza, che vagli a sostener la mole di cure sì affannose e pesanti; ma non fervore più ardente, nè più assidua vigilanza, et impatiente zelo di tributar i sudori e sospirar di sparger quel sangue, che sin all’ultima stilla ho consacrato per inaffiar le palme trionfanti alla grandezza dell’augusta Piazza”.

Dopo Corone capitolarono Sarnata, Calamata, Chielafà, Passavà e la fortezza di Mistra che fu data alle fiamme. I turchi provarono a recuperare la Maina, ma trovarono l’impresa insostenibile. Ora Morosini puntava su Navarino. La fortezza vecchia cadde subito, la nuova resistette più a lungo, ma alla fine capitolò. Quattro giorni dopo, i veneziani percorsero dodici miglia in direzione di Modone.

In una sola giornata furono davanti alle mura della fortezza e vi si accamparono a circa un miglio e mezzo di distanza, cominciando i lavori di preparazione per il posizionamento delle artiglierie. Ad una prima richiesta di resa, rifiutata dai turchi, tuonarono i sette mortai della batteria. Dopo quattro giorni si aggiunsero altri sette mortai ed una nuova batteria di sette cannoni da cinquanta e trenta. La città iniziò a trasformarsi in un cumulo di rovine e morti. I civili si rifugiavano sotto le volte, ma le autorità pensavano di tergiversare in attesa di soccorsi. Acconsentirono alla seconda proposta di resa, infatti, ma presentarono richieste inaccettabili. Approfittarono della tregua delle batterie veneziane solo per recuperare la polvere da sparo rimasta sepolta sotto un torrione e poi rigettarono ogni trattativa dicendosi pronti a resistere. “Perciò di nuovo si tornò a tormendi de’ Cannoni, e de’ Mortari non solo da Bombe, mò ancora da Carcassi, e da Pietre, che sforzavano i Turchi à star continuamente coperti; e conoscendosi da Venetiani, che nè meno tutto quello bastava, si aggiunsero da due altre parti, una Batteria di quattro Mortari, & una di trè gran pezzi di Cannone, e cominciossi la Trinciera da due parti, si che sempre più venne ristretta la Piazza, e maggiormente s’andava rovinando” commenta la Relatione verissima di quanto è seguito nell’Assedio & acquisto dell’importante Piazza di Modone. L’ostinazione degli assediati portò i veneziani a piazzare un’altra batteria di tre cannoni ed in mare una postazione di due colombrine, su uno scoglio, ed una palandra. I lavori alle trincee raggiunsero le mura della falsa braga, ma ancora i turchi rifiutarono la resa. Fu la mattina dell’8 luglio che, inaspettatamente, issarono bandiera bianca. I veneziani ora potevano mirare alla presa della capitale, Nauplia, residenza del pascià.

“La capitale della Morea – scriveva il Morosini il 24 agosto –, forte per il sito, e per le sue diffese, di tre ben intesi recinti munita, con grossa guarniggione, di gente di tutto provveduta, e che combatte coi stimoli di presservar le vite, le famiglie, gl’haveri, e le rendite d’un ricco Paese per centinara d’anni in quieto possesso godute…”. Il 9 settembre poteva annunciare: “Sciolta da barbari lacci anco Napoli di Romania s’è per opera della Divina misericordia restituita finalmente questa forte, e famosa Piazza Metropoli dell’ampio, e nobil Regno di Morea all’Augusto religioso Dominio della S. V., che ne secoli andati seppe mantenerla contro i sforzi tutti dell’ impero Ottomano…“.

Fu una vittoria completa, cui seguirono l’anno dopo la presa di Patrasso, dove accampava il seraschiere, ovvero il generalissimo di terra dei turchi, col grosso dell’esercito turco, Lepanto e Corinto, mentre Ottone Guglielmo di Königsmark, succeduto al defunto conte friulano Nicolò di Strasoldo, deceduto, conquistò Atene, poi Negroponte. In Dalmazia fu il provveditore generale Girolamo Cornaro ad avere la meglio sul pascià della Bosnia ed a cacciare i turchi da Sing, Castelnuovo e Knin. Morosini purtroppo fu colto dalla peste, malattia che lo indebolì sino a condurlo alla morte. Le forti febbri, poi la cura e la quarantena lo costrinsero a rientrare a Venezia lasciando Girolamo Cornaro a portare a termine l’assedio di Malvasia (che capitolò il 10 agosto 1690 dopo quattordici mesi). La Morea era veneziana, i turchi erano respinti su più fronti, il Cornaro, per esempio, si portò all’assedio di Valona e poi di Durazzo, ma la mossa avventata di Domenico Mocenigo che lasciò Candia seguendo le voci di una possibile minaccia turca altrove, portarono il Senato a investire ancora una volta Francesco Morosini del comando supremo. Tornato in mare, assoggettò Coluri, l’antica Salamina, ed altri isolotti, prima di spegnersi sopraffatto dalla febbre, il 6 gennaio del 1694.

Le operazioni belliche piombarono in un sostanziale stallo. I veneziani, supportati dagli alleati, poterono annettere i territori ora chiamati “Regno di Morea”, sotto la guida di un provveditore generale da Mar con sede a Nauplia, e le provincie di Romania, Laconia, Messenia ed Acaia con i loro provveditori. Nel 1715 le ostilità però ripresero (Seconda Guerra di Morea) e Venezia non ebbe più la forza per rispondere ai turchi.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: E. Musatti, La storia politica di Venezia secondo le ultime ricerche; M. Foscarini, Historia della Republica Veneta; S. Romanin, Storia documentata di Venezia; G. Bruzzo, Francesco Morosini nella Guerra di Candia e nella conquista della Morea

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