13 vendemmiaio anno IV, destini incrociati
E’ il 13 vendemmiaio anno IV della Repubblica (5 ottobre 1795) e i destini di due uomini stanno per incrociarsi e legarsi indissolubilmente. In quella data fatidica, mentre è a rischio la stessa esistenza della Repubblica rivoluzionaria, entrambi coglieranno un’imperdibile occasione per cavalcare l’onda lunga della Rivoluzione da protagonisti. In uno dei momenti più drammatici della Repubblica, mentre la Convenzione assediata dai monarchici sta per soccombere, dal fondo del barile delle risorse repubblicane emersero due reietti, due ufficiali dell’esercito, uno di cavalleria e uno di artiglieria, che fino ad allora, per usare un eufemismo, non godevano propriamente dei favori della politica.
All’alba di quella fredda giornata d’ottobre le sezioni di diversi quartieri di Parigi erano insorte, e armata la Guardia nazionale a loro disposizione, marciavano verso le Tuileries per restaurare la monarchia e chiudere definitivamente la parentesi rivoluzionaria. La destra monarchica, che già dopo Termidoro aveva ripreso vigore in tutto il paese, contestò aspramente l’esito del plebiscito del 1° vendemmiaio (23 settembre) con il quale era stata approvata a maggioranza una nuova costituzione volta a tutelare la Repubblica, salvaguardando tra l’altro i seggi della maggioranza in carica per il timore che ne venisse eletta una monarchica nel nuovo parlamento. Ben 18 sezioni avevano quindi invocato la ripetizione delle operazioni di spoglio prima di sollevarsi in armi, insinuando brogli.
La tensione era continuata a salire in tutta la capitale, e la Convenzione, riunita ad oltranza, realizzava allora di non avere abbastanza forze per contrastare un eventuale attacco in armi.
Ai convenzionali non restava che affidarsi ai vecchi nemici, ai montagnardi, ai patrioti del ’93, gli uomini di Robespierre, che dopo Termidoro erano stati neutralizzati, disarmati, ed in molti casi perseguiti. Ora solo degli irriducibili repubblicani potevano opporsi strenuamente alle forze reazionarie in marcia.
Millecinquecento di loro vennero riarmati ed inquadrati in tre battaglioni, assieme alle poche truppe di cui disponeva la Convenzione per mantenere l’ordine a Parigi. Circa cinquemila uomini in tutto dovevano fronteggiare gli oltre 20 mila monarchici radunati dalle sezioni ed armati come Guardia nazionale. Ai repubblicani mancavano però i comandanti, i più dei quali erano impegnati al fronte. Inizialmente fu chiamato a guidare la difesa il generale Jacques François de Menou che, malgrado contasse nel suo curriculum il comando delle forze repubblicane in Vandea, si dimostrò da subito troppo molle con i rivoltosi. Li aveva invitati a trattare, senza affrontarli apertamente.
L’esasperazione nei palazzi istituzionali assediati cominciava però a crescere. In molti invocavano maggiore risolutezza. Era in gioco la stessa Repubblica. Menou che aveva pure protestato contro i decreti che riarmavano la sinistra montagnarda, venne destituito. Al suo posto fu chiamato il più risoluto Paul Barras, al quale l’incarico venne affidato alle 4 del mattino del 13 vendemmiaio. C’era poco tempo da perdere. Barras pur non essendo un militare, almeno lo era stato, e di sicuro non difettava in determinazione. Aveva però bisogno di supporto tattico da parte di chi la guerra la sapeva fare, perché Parigi era ormai in stato d’assedio.
Così la Convenzione dovette cercare tra i pochi ufficiali superiori ancora presenti in città, benché alcuni di loro fossero stati recentemente destituiti dal loro comando o relegati a funzioni secondarie. Erano uomini politicamente compromessi a causa di sospette simpatie giacobine che ora potevano dimostrare alla maggioranza al potere la loro indissoluta fedeltà alla Repubblica. Barras fece immediato appello a cinque di loro: Carteaux, Brune, Loison, Dupont, e un certo ex generale di brigata còrso, di simpatie montagnarde, che era stato in ottimi rapporti con Augustin “Bon Bon” Robespierre (fratello dell’Incorruttibile, Maximilien), un tal Buonaparte che si era fatto notare nella presa di Tolone, ma che al cambio di maggioranza al governo aveva perso tutti i suoi agganci politici finendo ai margini dell’esercito, per venire poi destituito. Si trovava a Parigi per tentare di riottenere il suo comando, ma con scarso successo, ed era rassegnato oramai a lasciare la Francia per andare in Turchia in qualità di istruttore d’artiglieria per le truppe del sultano. Sarebbe partito da lì a qualche giorno.
Le qualità di Barras come comandante militare non erano certo pari a quelle di politico, ma seppe immediatamente individuare nel giovane ventiseienne còrso l’uomo che avrebbe potuto condurre in sua vece la difesa delle istituzioni repubblicane. Ne ricordava l’ardimento, il coraggio e l’intelligenza tattica nelle brillanti azioni che riportarono Tolone in mano francese. E’ lì che lo aveva notato per la prima volta.
Buonaparte senza perdere nemmeno un minuto, studiando la situazione, registrò subito che le truppe di cui disponeva mancavano di artiglieria. In tutta la capitale non rimaneva nemmeno un cannone. Nel far marciare le truppe sulla città, Menou aveva inopinatamente lasciato tutti i pezzi disponibili con carriaggio e munizioni al campo di Sablons, distante alcuni chilometri dal centro di Parigi. Il tempo giocava a favore dei rivoltosi. Se il generale Buonaparte non avesse recuperato nel più breve tempo possibile quell’ artiglieria, contro le preponderanti forze monarchiche non ci sarebbe stato nulla da fare. Qualcuno doveva correre, anzi no, volare a recuperarla. Ne andava della salvezza della Repubblica.
Ma Buonaparte era a Parigi da poco, non conosceva praticamente nessuno, e soprattutto non aveva idea di chi avrebbe potuto compiere un’azione così temeraria, attraversando una città praticamente in stato di guerra ed ostile, per raggiungere quegli armamenti e portarli nel più breve tempo possibile a sua disposizione.
Si rivolse dunque a Barras affinché suggerisse un nome per quell’incarico delicato. Il caso volle che in quel preciso momento fosse presente alla concitata conversazione un deputato dell’Alta Garonna, Jean-François Delmas. «Ho io un nome che fa al caso vostro, cittadino!», deve aver esclamato perentorio. Qualche mese prima un’altra rivolta minacciava la Convenzione, e in quella occasione vennero mandate staffette in tutte le regioni limitrofe a richiamare truppe per proteggere il governo. Un capitano dei cacciatori a cavallo, coll’insolito fisico da corazziere per essere un cavalleggero (era alto circa 1.80 cm), cavalcò a spron battuto verso Parigi riuscendo ad arrivare con il suo squadrone di cacciatori prima di altre truppe stanziate più vicine alla capitale, per offrire la sua sciabola al servizio dei convenzionali. Venne accolto in tripudio. E di quell’uomo si ricordò Delmas. Senz’altro lui avrebbe potuto guidare uno squadrone a recuperare i cannoni nel più breve tempo possibile.
E’ così che i destini di Napoleone Bonaparte e Gioacchino Murat si incrociarono.
Il capitano Murat, una testa calda, fervente giacobino, era stato imprigionato dopo Termidoro. Liberato quasi subito però grazie alle simpatie di cui ancora godeva tra alcuni membri della Convenzione nazionale, tra cui il deputato del Lot, Jean-Baptiste Cavaignac, aveva ripreso posto nel suo reggimento in qualità di comandante di uno squadrone di cacciatori. Ed ora a lui veniva affidato l’incarico di recuperare l’artiglieria per il generale Buonaparte.
I due si incontrarono faccia a faccia per organizzare la spedizione. Il generale dava le sue ultime disposizioni al capitano, e ci sembra quasi di sentirlo esclamare risoluto, prima di congedare il sottoposto: «Nous laisseras-tu dévorer par ces gens là?». La tentazione di attribuire a lui, in questo momento, le stesse parole che l’Imperatore proferirà all’indirizzo del maresciallo sul campo di Eylau dodici anni dopo, è troppo forte. Di certo le parole ebbero lo stesso senso di urgenza.
E Murat non se lo fece ripetere due volte. Radunò immediatamente 150 cacciatori a cavallo e altrettanti dragoni. Alla testa di questi trecento cavalieri, a briglia sciolta, si diresse verso il campo di Sablons, a circa 5 chilometri e mezzo dal palazzo delle Tuileries. L’alba del 13 vendemmiaio stava ormai sorgendo.
Buonaparte aveva avuto l’idea di recuperare l’artiglieria da Sablons, ma non era stato l’unico. Anche i realisti sapevano che Menou aveva lasciato le bocche da fuoco in quell’accampamento e si erano mossi alla stessa maniera, per andarla a recuperare. Se i monarchici, che potevano contare su forze preponderanti, avessero recuperato anche l’artiglieria la Convenzione sarebbe stata spacciata.
Quando i 300 cavalieri guidati da Murat sbucarono sulla piana di Sablons i monarchici erano già sul posto, e alcune centinaia di uomini stavano impossessandosi dei cannoni. Malgrado l’inferiorità numerica, Murat non aveva scelta, doveva agire in fretta. Il coraggioso capitano dei cacciatori fece schierare immediatamente i cavalli in formazione. Ordinò la carica. I borghesi della guardia nazionale realista, benché ben armati, non erano avvezzi a fronteggiare un’ordinata carica di cavalleria su un campo di battaglia e furono immediatamente travolti. I più furbi si diedero alla fuga, gli altri furono falciati dalle sciabolate dei cacciatori e dei dragoni. Liberato il campo non restava che portare l’artiglieria alle Tuileries velocemente. Dal momento in cui si era congedato dall’uomo che diventerà suo cognato, al momento in cui Gioacchino Murat sbucava con 40 cannoni su rue de Rivoli, erano passate poco meno di sette ore. Di mezzo c’erano stati un galoppo forsennato e uno scontro coi realisti.
Non appena ricevuto il parco d’artiglieria, Buonaparte fortificò il Louvre e le Tuileries trasformandoli in fortezze. In maniera metodica il giovane còrso schierò i pezzi agli imbocchi delle strade che dal centro sbucavano sui palazzi istituzionali.
Le guardie nazionali monarchiche prima radunate presso le sezioni ribelli erano poi avanzate verso il centro. Già alcuni colpi erano stati esplosi all’indirizzo dei soldati che presidiavano Palazzo Égalité (Palais-Royal), ma gli ordini di Buonaparte erano inizialmente di mantenere la calma e non rispondere alle provocazioni.
Il generale Carteaux fu inviato con un distaccamento di circa 400 uomini e due pezzi da 4 pollici ad occupare il lungosenna in corrispondenza del Pont Neuf, ma venne circondato e costretto a ripiegare da colonne di sezionari guidati dal generale Danican che poté ricongiungersi con le forze ribelli sull’altra sponda del fiume agli ordini dell’emigrato Lafond, e completare così l’assedio ai palazzi del potere.
La maggior parte dei rivoltosi si era assembrata presso la piazza antistante la chiesa di San Rocco. Gli animi erano ormai accesi. Si aspettava l’attacco da un momento all’altro.
I monarchici tentarono di convincere i soldati a schierarsi dalla loro parte. Ogni minuto passato poteva portare ad un esito nefasto per la Convenzione. Barras non voleva che si aprisse ancora il fuoco sulla folla dei ribelli che ormai premeva sulle vie presidiate dai militari. Da parte loro i monarchici avanzarono delle condizioni: ritirare le truppe e disarmare i terroristi. Diversi membri della Convenzione cominciarono a pensare a misure conciliatorie, e qualcuno suggerì persino di avviare delle trattative. Altri ritenevano assurda anche solo l’idea di trattare con i rivoltosi. Il deputato Chenier esclamò senza mezzi termini: «Non vi sono transazioni per la Convenzione Nazionale, non vi è che la vittoria o la morte». Ma improvvisamente, mentre le discussioni si accendevano, qualcuno si mise a sparare. Non sappiamo se si trattò di un colpo partito per errore da un moschetto nelle mani malferme di un ricco borghese inquadrato tra le guardie nazionali, o sparato da un giovane soldato con i nervi poco saldi. Fatto sta che di lì a poco si scatenò l’inferno. A quel punto il dado era tratto, le discussioni in seno all’assemblea cessarono. I deputati si armarono e ricevuti 700 fucili si disposero a corpo di riserva.
Danican tentò di assalire i repubblicani alle spalle avanzando lungo la riva sinistra della Senna, ma Buonaparte aveva previsto una simile mossa e dislocato un posto di guardia armato di cannone all’imbocco di rue de Beaune. Sulla riva destra aveva poi piazzato un contingente comandato dal generale Carteaux. I sezionari forti di circa 4 mila uomini guidati dal conte di Maulevrier, tentarono di superare il blocco ed invadere il Pont Royal, ma Il fuoco del cannone e l’intensa moschetteria costrinsero i realisti, malgrado l’enorme superiorità di effettivi, a ripiegare
Si sparava ovunque, sia verso il fiume che dal lato opposto, tra rue de Rivoli controllata dai repubblicani e rue Saint-Honoré in mano ai realisti. I soldati resistevano ai tentativi di sfondamento effettuati dalle forze ribelli. Quando oramai calava la sera, Buonaparte, supportato nella decisione da Barras, pensò che fosse arrivato il momento di prendere l’offensiva. I sezionari occupavano ormai palazzo Égalité. Rue Saint Honoré e la chiesa di San Rocco erano gremite di monarchici. A quel punto fu dato l’ordine di aprire il fuoco ad alzo zero con tutta l’artiglieria. I colpi a mitraglia falcidiarono i ribelli che non avendo nessuna preparazione militare si sbandarono, ruppero le loro formazioni e furono incalzati dai soldati a colpi di moschetto fin quando non furono dispersi. In poche ore la minaccia alla Convenzione nazionale fu scongiurata, e i monarchici battevano in ritirata con pesanti perdite (c.a. 200 morti e almeno il doppio di feriti).
Alle 2 del mattino del 14 vendemmiaio il giovane Buonaparte che aveva comandato la difesa della Convenzione scriveva a suo fratello maggiore Giuseppe un breve resoconto della giornata: «Infine tutto è terminato; la prima cosa a cui ho pensato è stata di darti mie notizie. I realisti organizzatisi in sezioni diventavano sempre più baldanzosi; la Convenzione ha ordinato di disarmare la sezione Lepelletier; quella ha respinto le truppe; si dice che Menou che comandava [le truppe] fosse un traditore; è stato destituito sul campo. La Convenzione ha nominato Barras al comando delle forze armate; I Comitati mi hanno nominato per comandarla in seconda. Abbiamo disposto le nostre truppe. I nemici sono venuti ad attaccarci alle Tuileries; ne abbiamo uccisi molti; loro ci hanno ucciso trenta uomini e feriti sessanta. Abbiamo disarmato le sezioni e c’è calma. Come al solito non sono stato per nulla ferito. Sono felice […]».
All’alba del 14 vendemmiaio la Repubblica era salva.
Il merito andava a due uomini, un giovanissimo generale di brigata còrso che destituito qualche tempo prima avrebbe potuto anche lasciare la Francia, ed un focoso capitano dei cacciatori a cavallo. Forse ancora non sapevano quanto quel giorno avrebbe cambiato le loro vite. In capo a qualche anno uno di loro sarebbe diventato re di Napoli e l’altro, suo cognato, tra i più geniali uomini che abbiano calcato i campi di battaglia, Imperatore dei francesi.
Autore articolo: Giuseppe De Simone
Bibliografia: A. Mathiez, G. Lefebvre, La rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 1979; F. Furet, D. Richet, La rivoluzione francese, Laterza, Bari, 1986; F.A. Mignet, Storia della rivoluzione francese, Italia, 1825; D. G. Chandler, Le campagne di Napoleone, Rizzoli, Roma, 2006; F. Masson, Napoleone et sa famille, Paul Ollendorff Editeur, Paris, 1897; F. Hulot, Murat, Pygmalion – Gérard Watelet, Paris, 1998; Memorie e rimembranze del conte Lavallette, Tipografia Pirotta e C., Milano, 1840
Giuseppe De Simone, laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, presso la Sapienza – Università di Roma, con una tesi in Storia Militare su “L’esercito francese e la Guerra d’Algeria”, è studioso di storia del Mezzogiorno d’Italia.