Carboneria e Murattiani nei moti del 1820

Lo storico Walter Maturi (Napoli 1902 – Roma 1961) presenta aspetti, gruppi e tendenze dei moti del 1820-21 nel Regno delle Due Sicilie illustrando le relazioni tra Carboneria e Murattiani nel corso della rivoluzione. Gli estratti provengono da “Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento”, articolo presente in Nuove questioni di Storia del Risorgimento dell’Unità d’Italia, Milano 1961, vol I.

 

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La rivoluzione napoletana del 1820 non fu, quindi, un semplice “pronunciamento” militare, ma fu un movimento assai complesso, che, a differenza della rivoluzione del 1799, partì dalla provincia. I Carbonari dei due Principati (Avellino e Salerno), della Basilicata e della Capitanata composero governi regionali propri e volevano che le altre provincie imitassero il loro esempio acciocché la costituzione del Regno fosse la confederazione delle provincie. La costituzione di Spagna del 1812, modellata sulla costituzione francese del 1791, imposta dai Carbonari e dall’esercito al Regno delle due Sicilie, era voluta appunto perché favoriva questa confederazione delle provincie; escludeva una Camera dei Pari, espressione di quei vecchi ceti privilegiati, che si aborrivano, limitava la potestà regia, di cui si credeva di non poter fare a meno, ma di cui si diffidava. I Carbonari meridionali, erano un esercito senza generali propri ed affidarono il potere ai murattiani, che erano invece uno Stato maggiore di tecnici senza soldati. In seguito al trattato di Casalanza del 1815 i murattiani avevano conservato le loro cariche civili e militari, ma i più eminenti tra loro, come Giuseppe Zurlo, per esempio, erano stati allontanati dal Regno e furono appunto essi che vennero posti dai Carbonari alla testa del regime democratico liberale. Ora, i murattiani erano, come il Medici, sostenitori del dispotismo illuminato e solo tenendo conto di particolari circostanze, estere ed interne, si sarebbero spinti alla costituzione di Francia del 1814, una costituzione con forte prerogativa regia, con due Camere, col sistema elettorale censitario molto alto, col sistema amministrativo accentrato napoleonico: la costituzione di Spagna del 1812 era per loro una costituzione troppo “anarchica”. Si aprì, quindi, un primo dualismo nelle forze rivoluzionarie, che venne esasperato dalla trasformazione della Carboneria da associazione politica clandestina in associazione politica pubblica con dimostrazioni, parata, ecc.: era una diarchia d’un regime liberale democratico legale e d’un partito unico extra-legale, che voleva tenerlo sotto pressione, anzi una triarchia, il Re Ferdinando, col trucco già da lui adoperato in Sicilia nel 1812-14, aveva dato la Luogotenenza al figlio Francesco, e per mezzo dei suoi più fidati diplomatici manteneva i contatti con la controrivoluzione europea, alla quale rendeva segretamente noto d’aver subita una violenza e di non aver dato la costituzione con sincera convinzione. Il sistema moderato dei murattiani prevalse nel complesso durante il corso della rivoluzione, pur senza riuscire ad ottenere, per la fiera resistenza carbonara, un ripiegamento costituzionale dalla costituzione spagnola del 1812 a quella francese del 1814, ma si diceva che la moderazione non era che una finta, poi sarebbero venute la “legge agraria” e la “religione sciolta”; desideri – notava il Colletta – forse manifestati da “poca plebe”, ma impossibili dove la forza del rivolgimento stava nei proprietari.

Un’altra debolezza della rivoluzione fu costituita dal movimento liberale separatista della Sicilia: i Borboni nel 1816, con un tacito colpo di Stato, avevano creato il Regno unito delle Due Sicilie e abolito di fatto la costituzione siciliana del 1812; a questa costituzione aspiravano di ritornare i siciliani, ma i liberali meridionali, continuatori dell’unitarismo borbonico, non vollero loro consentire di avere una costituzione autonoma e li sottomisero con la forza, servendosi anche dei contrasti municipali dell’isola (rivalità di Messina e di Catania per Palermo).

La Carboneria napoletana non era un movimento puramente regionale, tendeva, come a suo programma massimo, alla formazione degli Stati Uniti d’Italia, ed emissari della setta furono divisi a far propaganda in tutta Italia, ma la campagna di propaganda nazionale fu avversata dai murattiani, ai quali non sembrava prudente, anzi sembrava un’arma che si dava in mano all’Austria per giustificare il suo intervento.

Nonostante la moderazione e la prudenza della classe dirigente murattiana, il regime liberale napoletano venne abbattuto dall’Austria (marzo 1821), con la complicità del re Ferdinando, per mandato avuto dalle potenze conservatrici d’Europa nei congressi di Troppau e di Lubiana. L’unica cosa bella che fece la rivoluzione napoletana fu la protesta del Parlamento redatta da Giuseppe Poerio, uno di quei pochi liberali meridionali per i quali la libertà non doveva servire come  garanzia d’interessi di classe, ma essere segno e mezzo di più alta coscienza morale: “Se la presente generazione è immeritevole del bene della Costituzione – proclamò il Poerio in quell’atto – le generazioni future, che saranno delle nostre più virtuose, reclamano da noi quest’atto di protesta delle nostre franchigie e dell’indipendenza nazionale”.

 

 

 

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