Cavour contro Mazzini

Il testo che segue è tratto dalle pagine de “Il Risorgimento” a firma Camillo Benso Cavour e intitolato “Giuseppe Mazzini al primo colpo di fucile”.

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Neghiamo a Mazzini le qualità che precipuamente si richiedono ad un capo di parte, quando le imprese a cui si accinge fare non sono ristrette entro i pacifici recinti delle aule parlamentari, ma hanno a compiersi sui cambi di battaglia. Tali imprese richiedono i maggiori sforzi di cui un popolo sia capace. Ciò che manca a Mazzini per essere un sommo rivoluzionario, qual che ce lo dipinge l’avv. Angelo Brofferio, è il coraggio morale, l’intrepidità a fronte dei pericoli, il disprezzo della morte; virtù queste senza le quali il più ardente tribuno cade al livello dei retori delle scuole, degli sterili declamatori dei circoli e delle piazze.
Se questa sentenza fosse da taluno reputata ingiusta o severa, noi non vorremmo a provarne la verità addurre altre prove che i fatti che ci vengono riferiti da uno dei più ardenti ammiratori di Mazzini, lo stesso nostro autore avv. Brofferio.
L’accusa di essere costante sua abitudine di fuggire i pericoli, ai quali con tanta alacrità espone gli incauti suoi seguaci, fu già più volte formulata contro Mazzini. Ma finora eravamo disposti a crederla, sino ad un certo punto almeno, dettata da uno spirito di parte; anche ultimamente, quando leggemmo in quel aureo racconto delle vicende dei volontari e bersaglieri lombardi, scritto con tanta sincerità di affetti e nobiltà di pensieri da Emilio Dandolo la seguente terribile imprecazione:
“Oh Iddio, perdoni a coloro che furono cagione di tanta inutile strage! Ed essi (Mazzini e i suoi addetti) invero hanno tanto più bisogno del perdono di Dio, in quanto che, convinti già dell’impossibilità di ogni ulteriore difesa, anche per attestazione dei più intrepidi militari, si ostinano contro coscienza nella continuazione di essa, e solo per poter dire: noi non cedemmo! Non ebbero ribrezzo di aumentare inutilmente il numero delle vittime. Eppure il volgo batte le mani e chiama gloria d’Italia mentre (Mazzini) fuor di pericolo, in seggio tranquillo, e munito di salvacondotti, non arrischiava al più che di affrontare il consueto agitatissimo esilio”.
Anche allora, ripetiamo, ci parve poter riconoscere non poca esagerazione nelle parole dell’autore, cagionata dal dolore del perduto fratello e dalla morte degli eroici suoi amici Manara e Morosini. Ma ora, dopo i fatti ricordati con tanta pompa da Brofferio, ogni dubbio è scomparso dalla nostra mente, e ci è forza riconoscere che Dandolo e gli altri scrittori da noi accennati sono colpevoli di tutt’altro che di esagerata severità rispetto a Mazzini. Lo stesso accadrò, non ne dubitiamo, a qualunque imparziale lettore. Brofferio, infatti, narrando la malaugurata spedizione dei fuorisciuti in Savoia nel 1834, dopo averci mostrato un Mazzini alla testa delle mal ordinate sue schiere, eccitando con aspre parole Ramorini ad andare in traccia del nemico, continua così:
“Mazzini fissava lo sguardo nel Generale come persona in preda a mille contrari affetti, allorchè si udirono improvvisi colpi di fuoco. Ramorino si alza precipitosamente, Mazzini impugna il moschetto e ringrazia Dio di avergli fatto incontrare il nemico. Ma quello era l’ultimo suo sforzo. La febbre gli sconvolge la mente. I suoi compagni gli apparivano larve, il suolo gli traballava sotto i piedi, e privo di sensi cadeva. Quando riapriva gli occhi si trovava in Svizzera, dove i suoi compagni lo avevano a gran pena trasportato. Le fucilate di Carra non erano che una facile riscossa”.
Ah, Broferio, che cosa avete mai fatto. Senza avvedervene avete impresso sul carattere di Mazzini una macchia crudele, più di quella prodotta dalle amare parole di Dandolo… Se il vostro racconto è vero e chi potrebbe dubitarne conoscendo la vostra tenerezza per Mazzini? Potrete ancora vantarci il suo sapere filosofico, la sua acutezza politica; ma non parlateci mai più delle sue virtù qual capo di parte, dei suoi titoli ad essere tenuto quale iniziatore del risorgimento italiano.

 

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