Claude Monet e l’impressionismo
Il Salon di Parigi era all’epoca l’evento più importante per i pittori e per il mercato. La possibilità di poter esporre lì e il giudizio della critica determinavano la fortuna o la miseria di un’artista. Monet riuscì faticosamente a conquistarlo e a spazzare via l’aria stantia e conformista che soffocava la pittura di fine Ottocento. Allontanò l’arte dal tono spento di interni opachi, la volse alla luce naturale, a giornate chiare, a cieli luminosi, fiori e nuvole che si riflettono nelle acque di stagni.
Quindicenne, si guadagnò fama di pungente caricaturista, prendendo di mira i suoi insegnanti di Le Havre. L’amicizia col pittore Eugene Boudin lo portò all’interesse per i paesaggi, con escursioni al mare e in spiaggia, e gli fece scoprire la pittura all’aperto, tecnica nuova per quei tempi. A Parigi il giovane pittore frequentò l’Academia Suisse e, dopo un breve periodo sotto le armi in Algeria, rimise piede a Le Havre dove fece la conoscenza del paesaggista olandese Johan Barthold Jongkind e allora tornò ad interessarsi alla pittura. Si affiliò all’atelier di Charles Gleyre e fu qui che conobbe Bazille, Sisley e Renoir. Nel giro di pochi anni, con loro animò il movimento impressionista.
Fu affascinato dal mare e poi da giardini fioriti, dalla varietà dei colori naturali, dalla loro vitale rigogliosità e dalla ricchezza della luminosità. Era consapevole del fatto che tutto ciò che veniva dipinto direttamente all’aperto, sul posto, possedeva un’energia inarrivabile in studio. Negli atelier i pittori si servivano ripetutamente di manierismi e convenzioni accademiche, ma chi lavorava all’aperto era costretto a confrontarsi col vero, con la natura, con l’ambiente, con i continui mutamenti di luce. Così, per riprodurre direttamente le impressioni cromatiche e luminose percepite all’aperto, Monet sviluppò un tratto proprio, palpitante e turbolento, fatto di pennellate libere e tocchi arcuati, a forma di virgole, con cui le componenti chiare e quelle scure, coi loro contrasti, venivano accostate senza note intermedie modulanti. Tutto ciò richiamava lo stile di uno schizzo rapido, ma non soddisfaceva i requisiti di un dipinto completo. Mancavano profili precisi e contorni definiti, mancava la linearità classica, mancava persino la nobilitazione della figura umana che caratterizzava la pittura tradizionale. Gli uomini e le donne, infatti, erano ritratti da Monet alla stessa stregua di un ciuffo d’erba, erano solo superfici su cui si proiettava la luce. Ciò rese l’impressionismo una frattura rivoluzionaria con le scuole pittoriche. Monet coglieva l’istantaneità fugace, la freschezza della prima impressione e la fissava su tela.
In realtà questa immediatezza era un artificio. I quadri di Monet sono molto ben costruiti, il pittore, infatti, si serviva con frequenza di espedienti precisi, anzitutto di una simmetria degli assi che gli accademici evitavano, e con questi metodi creava un effetto piatto che trasfigurava lo spazio e generava un intreccio armonico di figure e colori. Allo stesso modo, nonostante sottolineasse spesso che il suo vero studio fosse la natura all’aperto, la maggior parte dei quadri, Monet li completò o li elaborò al chiuso. Per un determinato periodo di tempo, a Giverny, il pittore ebbe addirittura tre studi. Anche i quadri dello stagno non furono dipinti completamente all’aperto e quelli del Tamigi e di Piazza San Marco risultano il frutto di un intenso lavoro in atelier.
La sua attenzione fu scrupolosamente rivolta alla luce, alla festa degli occhi, ad una ricercata tecnica, solitaria e travagliata, di delicate cromaticità, di un linguaggio elaborato, sconosciuto prima di allora.
Autore articolo: Angelo D’Ambra