Cronaca di sette anni

I sette anni che vanno dal 1552 ed il 1559 videro susseguirsi per l’Italia fatti di grande importanza che portiamo all’attenzione del lettore attraverso la Istoria civile di Pietro Giannone. Parliamo in ordine: della rivolta di Siena e della conseguente guerra con l’intervento militare del Regno di Napoli e dell’esercito de Medici; della morte, a Firenze, di Pedro de Toledo, che la storiografia celebra come il più grande vicerè di Napoli, in Toscana per guidare la riconquista di Siena; l’arrivo a Napoli del Cardinal Pedro Pacheco Ladrón de Guevara, nuovo vicerè; il matrimonio di Maria I d’Inghilterra, detta la Cattolica, con Filippo II, figlio di Carlo V, divenuto per l’occasione re di Napoli, Sicilia e Milano; il ritiro in convento di Carlo V e la sua morte; la nascita dello Stato de Presidi. Leggiamo:

 

“Avvenne che in quest’anno 1552 tra le molte rivoluzioni accadute in Italia, Siena parimente si sconvolgesse.

Era questa Repubblica sotto la protezione di Cesare, il quale v’avea mandato a governarla D. Diego Urtado di Mendozza. Costui diede a Sanesi sospetto di voler loro togliere la libertà, perchè designava fabbricare in Siena una cittadella così forte, che con essa potevano gli Spagnuoli in poco numero difendersi dalla città. I Sanesi perciò determinarono ricorrere al re di Francia, il quale accettando la lor difesa, diede ordine a suoi ministri che teneva in Italia, di provvedere al bisogno. Fu tra essi conchiuso che il conte di Pitigliano ed i due conti di Santa Fiore facessero con secretezza semila fanti e molti cavalli, il che fu tosto eseguito. Il conte di Pitigliano entrò nella città, e gridando libertà, libertà; e conducendo seco tremila fanti, unitosi col popolo costrinse Otto di Monteaguto, il quale mandato da Cosimo de’ Medici duca di Fiorenza, era entrato per soccorso degl’Imperiali, a ritirarsi sotto la cittadella, non senza morte dell’una e l’altra parte. Il duca Cosimo s’apparecchiava mandar ad Otto grosso soccorso; ma la Repubblica gli mandò ambasciadori a fargli intendere ch’essa non voleva levarsi dalla fedeltà dell’imperadore, ma sì bene rimettersi nella libertà, della quale n’era a poco a poco stata spogliata dal Mendozza. Il duca ciò credendo, conchiuse colla medesima trattato che gli Spagnuoli dall’una parte se ne uscissero da Siena, e dall’altra Otto se ne ritornasse salvo colle sue genti in Fiorenza; ma quando i Sanesi gli videro usciti, tosto buttarono a terra la cittadella, e vi posero dentro presidio francese, attendendo a fortificarsi contro gli Spagnuoli. L’imperadore, ciò inteso, trovandosi allora all’assedio di Metz in Lorena, scrisse al Toledo che assoldasse un esercito, e che andasse egli a far guerra a Siena; e venne ancora in quel tempo a Napoli a sollecitarla D. Francesco di Toledo, uomo dell’imperadore appresso il duca Cosimo. Il vicerè, ancorchè il tempo che correva d’un orrido inverno fosse contrario, incominciò con prestezza secretamente ad apparecchiar l’esercito; e mentre questo si faceva, fu assalito da un catarro con febbre, dal quale ogni anno era spesse volte l’inverno gravato, onde perciò per consiglio de’medici in quella stagione soleva dimorare in Pozzuoli. Ma non per questo si rallentava l’apparecchio, e già la fama cominciava a spargersi che quello era per la guerra di Siena, ove dovea in persona comandare il vicerè, il quale perciò dovea partire, ed abboccarsi col duca Cosimo suo genero. Pubblicata questa partenza, sofferivano molti baroni di seguirlo, ma il vicerè a pochi il concesse, e ringraziò gli altri; e creato D. Garzia suo figliuolo luogotenente dell’esercito, lo mandò per terra con dodicimila valorosi soldati spagnuoli, italiani e tedeschi. Partì D. Garzia nel principio di gennaio del nuovo anno 1553, e passò per le terre dello Stato Ecclesiastico pacificamente, nel qual passaggio entrò in Roma con molti cavalli a baciare il piede al papa, e giunto finalmente nel territorio sanese, senza perder tempo prese molte castella. In questo mezzo il vicerè fece imbarcare nelle galee del principe Doria il resto delli soldati spagnuoli con la sua corte; e lasciando per suo luogotenente nel regno D. Luigi di Toledo suo secondo figliuolo, entrò egli in mare, e partissi per la volta di Gaeta, ove fermatosi tre giorni passò a Cività Vecchia, nel qual viaggio per fortuna di mare se gli accrebbe il male, e smontato poi a Livorno, mandò subito a D. Garzia gli Spagnuoli ad unirsi col suo esercito, ed egli forzato dal catarro e dalla febbre si fermò ivi con la sua corte. Ma vie più aggravandosi il male, e veduto da medici che quel luogo posto in mezzo all’acqua era contrario al clima di Pozzuoli ed al suo male, partì alla volta di Pisa, e declinando alquanto il male se ne andò a Fiorenza, ove dal duca Cosimo suo genero fu accolto con molta affezione e splendidezza. Vennero in quel mezzo a ritrovarlo Ascanio della Cornia, ed altri colonnelli dell’esercito a pigliar da lui l’ordine che s’avea da tenere per quell’impresa; ed essendo già tutte le cose ben disposte, mostrando allora la di lui infermità esser alquanto in declinazione; mandata avanti per cio tutta la sua corte, si preparava egli per cavalcare la mattina. Ma ecco che gli sopravvenne di nuovo il catarro tanto furioso, che l’inquietò tutta quella notte, e sopraggiuntagli la febbre, ogni virtù gli andò mancando. Corse alla fama del suo pericolo D. Garzia suo figliuolo a visitarlo, e per dargli conto di quel che egli faceva nell’esercito; ma il vicerè volle che, senz’aspettar l’esito della sua infermità, tornasse come suo luogotenente a comandare a quell’impresa; e lo benedisse; e non guari da poi aggravando tuttavia il male, tra gli abbracciamenti di sua figliuola e genero spirò l’anima a 22 febbraio di quest’anno 1553.

Fu fama che fosse stata la sua morte sollecitata con veleno dal genero, per sospetto ch’ci avesse d’avergli il Toledo insidiata la vita. Parimente, che l’imperadore per levarlo dal governo di Napoli (ciò che avea determinato di farlo sin dal tempo de’rumori di quella città) avesse trovata quest’occasione della guerra di Siena. Altri non consentono nè all’uno nè all’altro, allegando certa lettera dell’imperadore capitata in Fiorenza prima che egli morisse, nella quale, non sapendo ancora che fosse partito da Napoli, scrivea che in niun modo fosse andato a quella impresa, per aver inteso che stava infermo, ma che vi mandasse D. Garzia suo figliuolo. Che che ne sia, governò egli il regno anni venti, mesi cinque e giorni otto con tanta prudenza, che superò tutti i passati governadori, e meritevolmente dal comune consenso gli è attribuito il titolo di Gran Vicerè. Della sua prima moglie D. Maria Ossorio Pimentel lasciò più figliuoli, poichè della seconda da lui sposata, essendo già vecchio, non ne ebbe alcuno. D. Federigo primogenito; D. Garzia, che morendo il lasciò suo luogotenente nella guerra di Siena; e D Luigi, rimaso luogotenente nel regno, quando egli parti da Napoli. Ebbene ancora di quelle quattro femmine. La primogenita D. Isabella la casò con D. Giovan-Batista Spinelli duca di Castrovillari e conte di Cariati. La seconda D. Eleonora fu maritata nel 1539 a Cosimo de’ Medici duca di Toscana. La terza D. Giovanna fu moglie di D. Ferrante Ximes d’Urrea primogenito del conte d’Aranda; e l’ultima D. Anna di D. Lope Moscoso conte d’Altamira.

1554 – Luigi, rimaso in Napoli luogotenente, non potè mostrare nel governo del regno gli alti suoi talenti, perchè non lo tenne che pochi mesi; essendo stato dall’imperadore, intesa la morte di D. Pietro, mandato per suo successore il cardinal Pacecco, il quale trovandosi a Roma, a giugno di questo istesso anno si portò subito a Napoli. Il cardinal Pacecco, rinomato non men per la sua famiglia cotanto illustre in Ispagna per lo marchesato di Vigliena e ducato d’Ascalona che ivi possiede, che per eccellenza di dottrina, e per li buoni servigi prestati in Trento in quel concilio, fu dal pontefice Paolo III, essendo vescovo di Giaen, promosso al cardinalato a richiesta dell’imperadore, e dichiarato parimente vescovo Saguntino; e trasportatosi il concilio a Bologna, rimase egli in Roma per affari di Cesare, il quale intesa la morte del Toledo, lo mandò, come si disse, suo vicerè nel regno. Il concetto che s’avea del suo rigore, spaventò prima Napoli; ma rimase poi ingannata dall’evento. Poichè reso placido e soave, non solo trattò con mansuetudine i Napoletani, ma gli favorì molto presso Cesare, da cui impetrò l’esatta osservanza del suoi privilegi che Carlo V gli avea di nuovo spediti in Brusselles a richiesta del famoso Girolamo Seripando nell’ultimo giorno dell’anno 1554. Non s’intesero più carcerazioni di fatto, nè tormentare, o procedere all’esazione di pene criminali contra i delinquenti col solo processo informativo. Furono dati provvidi ordini e norme da osservarsi nelle collazioni della cappellania maggiore, prelature regie, protomedicato, ufficiali di giustizia e castellanie del regno; e nel suo governo furono dalla benignità di Cesare concedute alla città e regno molte altre grazie e privilegi.

Intanto a Filippo principe di Spagna, essendo rimaso vedovo di Maria di Portogallo sua prima moglie, s’aprì, secondo la felicità di questa augustissima casa, una ben ampia via d’unire alla monarchia di Spagna il regno d’Inghilterra; e se la morte di Maria senza lasciar prole di questo matrimonio, e le tante rivoluzioni accadute in Inghilterra non avessero frastornato sì bel disegno, l’impresa erasi condotta a fine. Poichè proclamata a 20 di luglio dell’anno 1553 per regina d’Inghilterra Maria prima figliuola d’Errico VIII, ed incoronata regina con solennissima pompa nel primo d’ottobre in età di trentasette anni, non avendo marito, da’baroni del regno fu fatta istanza che per assicurare la successione del regno dovesse tosto maritarsi. Ella perciò s’elesse per isposo Filippo principe di Spagna; onde in gennaio del nuovo anno 1554 mandò ambasciadori a Cesare, notificandogli il suo pensiero. Con incredibile contento accettò l’imperadore l’offerta, e senza perdervi tempo fu tosto il matrimonio conchiuso, e chiamato Filippo dalle Spagne, acciò si conducesse a tal effetto in Inghilterra. I baroni inglesi di questa elezione fatta dalla reina ne rimasero mal contenti, e perchè odiavano gli Spagnuoli, e perchè aveano a male che quel regno venisse ne’discendenti dell’imperadore. Partì ciò non ostante a 17 luglio di quest’anno 1554 Filippo di Spagna dal porto di Corugna con grossa armata e splendidissima corte; e giunto al porto di Southamptone, dieci miglia distante da Vincestre, ove la regina l’aspettava, quivi si celebrarono le nozze con gran festa e trionfo. Ma l’imperadore riputando mal convenire ad una sì gran regina sposarsi Filippo, che non era ancora re, mando Giovanni Figueroa reggente di Napoli in Inghilterra a portargli la successione del regno di Napoli e di Sicilia, e dello Stato di Milano. Così Filippo, reso più augusto con questi titoli regii, accrebbe l’allegrezza ed il giubilo delle nozze. I nuovi sposi trattenuti molti giorni in Vincestre in giuochi e tornei a 19 d’agosto si partirono, e con doppia corte e quasi con tutta la nobiltà di Spagna e d’Inghilterra, con pompe e ricchi apparati fecero la loro trionfale entrata nella real città di Londra, dove i malcontenti baroni, sperimentata la dolcezza e mansuetudine di Filippo, rimasero soddisfatti. Filippo, avuta la cessione dal padre del regno di Napoli, mandò subto il marchese di Pescara a prenderne in suo nome il possesso, che con pubblica celebrità e grandi applausi dal cardinal Pacecco vicerè a 25 di novembre del medesimo anno gli fu data: nel medesimo tempo che l’imperador Carlo V, o fastidito dalle cose mondane, o per iscansare i colpi della fortuna ch’egli credeva cominciare a mostrarsegli avversa, meditava abbandonare i tedi del secolo. lira allora egli in Fiandra asllitto da continue e fastidiose podagre, e stanco ormai di sostenere più il peso dell’imperio, onde del berò ritirarsi dalle cure mondane. Chiamò pertanto a sè da Inghilterra il re Filippo suo figliuolo, e giunto in Brusselles ove dimorava, prima d’ogni altro lo fece capo dell’ordine del cavalieri del Toson d’oro: poi in una gran sala, al cospetto di tutti i consiglieri di Stato, di tutti i cavalieri degli ordini e nobiltà, a 25 ottobre del nuovo anno 1555 fece il gran rifiuto, rinunziando al re suo figliuolo tutti i Paesi Bassi, con gli Stati, titoli e ragioni di Fiandra e di Borgogna; e tre mesi dopo gli rinunziò anche li regni di Spagna, di Sardegna, di Maiorica e Minorica, e tutti i nuovi paesi scoverti nell’Indie, con tutte l’altre isole e Stati appartenenti e dipendenti dalla corona di Spagna. Rinunziò colla medesima solennità il governo dell’imperio a Ferdinando suo fratello eletto già re de Romani, e due anni da poi, pochi mesi prima di morire, mandò la rinunzia dell’imperio al collegio elettorale, il quale il dì 4 marzo del 1558 elesse in suo luogo il medesimo Ferdinando. Ritiratosi poi nella città di Gant sua patria, licenziò tutti gli ambasciadori de’principi ch’erano appresso di lui, e tutti i capitani d’armate, ed imbarcatosi nel seguente anno 1555 a 17 settembre navigò per Ispagna, e si ritirò in Estremadura, dove dimorò il rimanente dei suoi giorni in un convento abitato da’monaci di S. Girolamo, chiamato S. Giusto. Menò quivi vita solitaria, e morivvi il dì 21 di settembre dell’anno 1558, l’anno 59 di sua età.

In questi medesimi tempi il nostro re Filippo in quell’isole adiacenti allo Stato di Siena, per cui era in continue guerre co’Francesi, stabilì maggiormente il suo dominio, munendole di forti e fissi presidii, onde Presidii di Toscana furon detti, siccome ora ancora ne ritengono il nome; onde fu poi da politici ponderato che gli Spagnuoli collo Stato di Milano, con questi presidii e col regno di Napoli, come di tanti anelli, aveano fatta una catena per cingere Italia, e tenerla a lor divozione. Carlo V, come si è veduto, aveasi a sè attribuito, come devoluto all’Imperio, lo Stato di Siena, e vi mandava in quella città i suoi governadori spagnuoli a reggerlo; e mentre il vicerè Toledo presedeva al regno, i Sanesi mal soddisfatti dell’aspro governo del Mendozza, tumultuarono; tanto che accesasi guerra, bisognò che il Toledo andasse di persona ad estinguer quell’incendio: spedizione per lui purtroppo infelice, poichè, come si è narrato nel precedente libro, vi perdè la vita. L’imperador Carlo cedè poi Siena al suo figliuolo Filippo, che per suoi governadori la reggeva. Quindi avvenne che molti istituti e costumi i nostri Napoletani gli apprendessero da Siena, città allora assai culta. A similitudine delle accademie di Siena s’introdussero in Napoli l’accademie per esercitar gl’ingegni nelle belle lettere. Da Siena ci vennero i teatri e le commedie, allora nuove e strane in queste nostre parti, e fin da Siena si procuravano non pur le rappresentazioni e le favole, ma i recitanti istessi, per far cosa plausibile e degna di ammirazione.

Ma lo Stato di Siena posseduto dagli Spagnuoli fu sempre occasione a Francesi, ingelositi di tanta lor potenza in Italia, di fiere ed ostinate guerre. Cosimo duca di Fiorenza, il quale ora aderiva alle parti di Cesare, ora per far contrappeso alla sua potenza teneva intelligenza co Francesi, non tralasciava intanto le occasioni per ingrandire il suo Stato. Seppe in questi tempi colla sua industria e grande astuzia ingelosire il re Filippo in maniera, mostrando darsi alla parte di Francia e del pontefice, che l’indusse finalmente con quelli patti che diremo a cedergli Siena. Era egli creditore del re in grossissime somme, parte improntate a Carlo V suo padre, parte spese per la guerra in tempo che fu ausiliario degli Spagnuoli; per le quali, ancorchè ne avesse avuto in pegno Piombino; n’era però, secondo le congiunture portavano, spesso dagli Spagnuoli spogliato. Gridava egli perciò che almeno gli fosse restituito il denaro, e rifatte le spese; ma dandosegli sempre parole dal re Filippo, finalmente Cosimo ve: dendosi deluso, finse volersi unire col pontefice e col re di Francia, per indurre il re appunto alla cessione di Siena. Il presidente Tuano descrive gli stratagemmi usati da Cosimo per ingannar non meno Filippo, che il papa e il re di Francia in questo affare: e come il tutto felicemente gli riuscisse; poichè Filippo, premendogli che il duca Cosimo non si collegasse co’suoi nemici in questi tempi, ne’quali avea di lui maggior bisogno, e poteva recargli maggior danno, ancorchè quasi tutti i suoi fossero di contrario parere, quasi forzato s’indusse a cedergli Siena. Mostrava intanto Filippo di venire a questa cessione unicamente per gratificare il duca; ma nell’istesso tempo pensava (ritenendosi le isole idiacenti) rendersi con nuovi presidii vie più forte in Italia, affinchè potesse resistere a qualunque forza d’esterior nemico, e cingere in questa maniera Italia. Perciò col permesso dell’imperador suo padre risolvè di concedere ed investire il duca dello Stato di Siena con alcuni patti e condizioni; laonde per mezzo di D. Giovanni Figueroa, allora castellano del castel di Milano, che per questo effetto lo costituì suo procuratore, fu stipulato istromento col detto duca sotto li 3 luglio del 1557, col quale si concedeva a costui lo Stato con molte condizioni, fra le quali fu convenuto che in detta concessione non s’intendessero compresi Port’Ercole, Orbitello, Talamone, Mont’Argentario, ed il porto di S. Stefano Da questo tempo a spese del regno si mandarono in quest’isole milizie spagnuole per ben presidiarle, e da Napoli vi si manda ancora un Auditore per amministrar giustizia a quegli abitanti, i quali però vivono secondo gli statuti e costumi de’ Sanesi loro vicini, e perciò quel ministro ritiene ancora il nome d’ Auditore dei Presidii di Toscana. Fu in questo trattato compreso anche Piombino, e fu fedelmente eseguito, siccome non meno il Chioccarelli che il Tuano ne rendono a noi testimonianza. Fra quell’isolette ve ne è una chiamata l’isola di Fanuti, per la quale in questi tempi fu lungamente disputato, se apparteneva al re Filippo, ovvero fosse compresa nella concessione dello Stato di Siena fatta al duca di Fiorenza. Furono perciò, per sostenere le ragioni del re, fatte dalla Regia Camera due consulte, una sotto il primo di giugno del 1573, l’altra sotto li 26 agosto del medesimo anno, che si leggono nel tomo 18 de’MS. Giurisd. di Bartolommeo Chioccarello. Poichè la sovranità dello Stato di Siena dagl’imperadori d’Alemagna si pretende appartenere ad essi, l’imperador Rodolfo II, per maggiormente stabilire ciò che il re Filippo II avea fatto, a primo di gennaio del 1604 spedì privilegio al re Filippo III, col quale confermandogli il vicariato di Siena, Portercole, Orbitello, Talamone, Monte Argentario e Porto di S. Stefano con titolo di duca e principe dell’Imperio, confermò anche la concessione ed infeudazione fatta di detto Stato di Siena dal re Filippo II a Cosimo di Medici duca di Fiorenza; ed ecco come i Presidii di Toscana s’unirono alla corona de’re di Spagna”.

 

 

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