Friedrich Engels ed il cristianesimo delle origini

Il punto di partenza degli scritti sul cristianesimo delle origini di Friedrich Engels sta nell’idea che sussistano “notevoli punti di somiglianza” tra il primo movimento operaio ed il cristianesimo perché entrambi i movimenti erano costituiti da oppressi provenienti dai ranghi inferiori della società, schiavi, proletari e persone senza diritti. Questa interpretazione, oggi, per quanto diffusa, è semplicistica ed ampiamente superata. Il vedere nel cristianesimo delle origini esclusivamente un movimento socio-economico di diseredati, poi degenerato nella Chiesa di Roma e nelle chiese “istituzionali”, rivela un fragilità importante dell’impianto marxista ed è sconfessata dai fatti. Tuttavia, quando Engels scrisse i suoi saggi, la storiografia non era ancora approdata alle conoscenze che abbiamo oggi sul cristianesimo primitivo.

In “Per la storia del cristianesimo primitivo”, “Bruno Bauer e il cristianesimo primitivo” e “L’Apocalisse”, pubblicati tra il 1882 ed il 1894, Engels affermò in sintesi tre cose: 1. il cristianesimo delle origini era una religione di schiavi, proletari e persone senza diritti (come il movimento operaio); 2. degenerato il cristianesimo nella Chiesa di Roma, diverse rivolte sociali medievali avevano tentato di riportarlo a ciò che era alle origini; 3. per comprendere davvero il primo cristianesimo bisogna studiare l’Apocalisse che è il libro più antico della Bibbia.

L’analisi di Engels era diventata obsoleta già al principio del Novecento, in realtà lo era sempre stata. Oggi sappiamo che i cristiani si riunivano nelle case dei confratelli più ricchi e che costoro finanziarono personalmente basiliche e battisteri, così possiamo sostenere che senza la componente sociale dei “facoltosi”, il cristianesimo non avrebbe potuto svilupparsi tanto rapidamente e forse si sarebbe estinto. L’archeologo W. M. Ramsay sostenne, non a caso, che la nuova religione si diffuse “rapidamente prima tra i più istruiti che tra i più ignoranti; da nessuna parte aveva una presa più forte che a casa e a corte degli imperatori”. Oggi l’immagine di una chiesa delle origini proletaria è assai debole perché, col supporto di più approfondite indagini, gli storici concordano nel sostenere che i primi cristiani provenissero dai ceti medi ed alti della società. Opportunamente Abraham J. Malherbe ha fatto notare che il linguaggio e lo stile dei primi scrittori cristiani, rivela come essi si rivolgessero ad un pubblico istruito. Non è vero, dunque, come credette Engels che il cristianesimo “si manifestò dapprima come religione degli schiavi e dei liberti, dei poveri e dei senza diritti, dei popoli soggiogati o dispersi da Roma”. Adolf Harnack, dal canto suo, notò che se Ignazio di Antiochia, nella sua Lettera ai Romani, chiese ai cristiani di lasciare che morisse martire, fu perchè tra i cristiani di Roma c’era qualcuno nella condizione sociale di poter ottenergli il perdono.

Engels avrebbe potuto trovare degli importanti spunti di riflessione nelle lettere di Paolo di Tarso. Il passo di 1 Corinzi 1,26-28 (“Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono…”), rivela che, seppure pochi, tra i cristiani c’erano nobili e potenti. Così sulla base di Romani 16,23 e 2 Timoteo 4,20, si può affermare che tra i membri della chiesa di Corinto c’era Erasto, il tesoriere della città. Egualmente avrebbe potuto guardare alla letteratura latina: Pomponia Graecina, che Tacito riferì essere stata accusata di praticare “superstizioni straniere”, apparteneva alla la classe senatoria, era infatti una “nobile matrona romana, andata sposa a Plauzio”, governatore della Britannia (Annali 13.32). Engles, però, avrebbe potuto anche soffermarsi sulla provenienza di classe di chi seguì Cristo, pescatori del Lago di Tiberiade, esattori come Matteo, medici come Luca, benestanti come Giuseppe di Arimatea o Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode Antipa. Avrebbe potuto ragionare anche sulle classi a cui la predicazione di Gesù si rivolse, ovvero ricchi, scribi, rabbini, pubblicani… Avrebbe potuto ragionare sul fatto che Pietro a Roma convertì soldati romani come Processo e Martiniano, Cornelio ed Edisto, o sulla stessa conversione di San Paolo. Non lo fece.

Sul presunto comunismo delle prime comunità cristiane va notato che si tratta di una tesi riduttiva e sconfessata. I primi cristiani attendevano come prossima la fine del mondo e appariva loro inutile o addirittura riprovevole cercare di adattarsi alla società dell’epoca. Da ciò che si legge in Atti 2,42-48 (“Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”) è evidente che la vendita delle proprietà e la messa in comune del ricavato avvenivano volta per volta secondo i bisogni.

Il concetto è rafforzato in Atti 4,32-37 (“La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno. Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa «figlio dell’esortazione», un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli”) perchè se si cita l’azione generosa di un uomo e lo si ricorda citando il suo nome si rivela che la vendita dei beni e la condivisione dei ricavi non erano affatto così comuni, per niente obbligatorie. Che fosse tutto volontario e possibile pure trattenere parte dei guadagni è confermato dall’esempio di Zacchero in Luca 19,8 (“«Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto»”). Il caso di Anania (Atti 5,1-11) palesa come la vendita dei beni e la distribuzione dei ricavi tra i fratelli fosse spontanea, ma punita la menzogna, la doppiezza del cuore, l’aver voluto apparire esemplare, tacendo che una parte del ricavato era stata trattenuta.

Si riscontra, più che una società comunista, un’organizzazione caritativa che pensa sia alla verifica dei bisogni che alla distribuzione degli aiuti e che era gestita dagli stessi apostoli e più tardi questi devolsero il compito a sette diacono (Atti 6,16). Lo scopo per cui alcuni cristiani, evidentemente possidenti, vendevano le loro proprietà era quello di far sì che nelle loro comunità non esistessero bisognosi, come dimostrano l’episodio delle vedove o l’aiuto tra le chiese di Antiochia e quella di Gerusalemme. Era dunque stata istituita una cassa comune in vista di un’equa redistribuzione delle risorse, una cassa alimentata in base alle necessità dal ricavato della vendita di terreni o case, beni che davano ai proprietari una rendita a cui essi volontariamente rinunciavano. Non erano vendite di case che servivano come abitazione privata, queste erano aperte generosamente ad accogliere i fedeli per le celebrazioni. Tali versetti non dicono nulla sulle risorse ordinarie dei singoli cristiani, sull’organizzazione economica di eventuali nuclei comunisti, non parlano di mezzi di produzione, né di lavoro, non ci dicono di cosa vivevano i possidenti che rinunciavano alle proprietà (anche perché forse non rinunciavano a tutte).

Gli abbagli di Engels sono il frutto della sua adesione alle conclusioni inesatte cui era giunta la critica biblica tedesca della Scuola di Tubinga e di Bruno Bauer che, sulla base di studi metodologicamente errati né opportunamente suffragati da indagini filologiche, in buona sostanza negava la veridicità degli Atti degli Apostoli e la personalità storica di Gesù per approdare all’ateismo. La scuola verso la fine degli anni quaranta del XIX secolo era del tutto avversata dalla comunità scientifica ed oggi è caduta nel dimenticatoio.

Influenzato dagli studi del suo tempo che collegavano l’opera al periodo di Nerone, Engels sostenne che l’Apocalisse fosse la migliore fonte delle opinioni dei primi cristiani perché più antico in quanto databile intorno al 67-68 dC. Si avviò così ad un’altra serie di errori interpretativi, giacché studi recenti propendono per una datazione del libro prossima al 96-98 d.C (Nerva) o addirittura al 98-117 (Traiano), puntando ad usare il libro per mostrare la confusione e la disorganizzazione della nuova religione agli albori, ancora una volta sulla scorta del pensiero di Braun.

L’idea di Engels che le sollevazioni medievali socialisteggianti, contro il feudalesimo e le ingiustizie sociali, esplicitamente quella dei taboriti boemi di Jan Zizka, avvenissero sotto una maschera religiosa, come restaurazione di un cristianesimo più vero, ha un fondamento. Effettivamente i taboriti, convinti che il giorno del giudizio fosse imminente, prima che il loro esercito fosse definitivamente sconfitto nel 1434-5 dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, si organizzarono in società comunistiche, mettendo in comune anche le donne, decretando la punizione della morte per tutti i peccati mortali, uccidendo preti, saccheggiando e distruggendo case e chiese perchè “tutte le istituzioni e le leggi umane devono cadere poiché non vengono dal Padre Celeste”. Ciò avvenne specialmente dopo l’abbandono degli elementi aristocratici e borghesi nel 1419, capeggiati proprio da Jan Zizka. Fino ad allora l’unica esplicita richiesta socio-economica del movimento, confluita nei Quattro articoli di Praga, dichiarava: “Espropriazione dei beni del clero e abolizione del potere secolare della Chiesa”. Tuttavia il quadro in cui l’annotazione è inserita è inadeguato, l’intera disamina di Engles sul cristianesimo appare oggi vaga, frettolosa, insostenibile.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: R. Stark, Rise of christianity; J. Lortz, Storia della Chiesa in prospettiva di storia delle idee, vol 1; C. L’Eplattenier, Gli Atti degli Apostoli. Quadro delle origini cristiane; S. Cipriani,  Missione ed evangelizzazione negli Atti degli Apostoli; I. Rostislavovic Safarevic, Il socialismo come fenomeno storico e mondiale

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