Garibaldi prende Palermo

Gli uomini di Garibaldi abbandonarono Partinico la sera del 18 maggio 1860, puntando su Palermo. Si stabilirono a Renna e vi restarono tre giorni. Qui si raccolsero altre colonne per un totale di quattromila uomini. Coi borbonici dell’area si ebbero alcuni scontri di poco rilievi nei quali però morì Rosolino Pilo, trafitto da un colpo di fucile che lo colpì alla testa a San Martino.

Pilo apparteneva alla famiglia dei conti di Capace ed aveva guidato gli insorti siciliani. Era un uomo di sentimenti mazziniani che, dopo dieci anni di esilio, era tornato sull’isola sin dall’aprile 1860 per annunciare l’arrivo di Garibaldi ai nuclei liberali. Si era unito a lui capeggiando delle bande di insorti , ma prima che potesse portarle ad unirsi col generale incappò in una colonna borbonica diretta dal colonnello svizzero Giovan Luca Von Mechel e finì ucciso. Garibaldi che lo stava attendendo per passare all’attacco di Monreale, dovette rivedere i suoi piani.

Trasportando l’artiglieria a braccia, con una marcia notturna tra boscaglia, fango e dirupi, attendo ad evitare i borbonici arroccati a Monreale, Garibaldi portò i suoi a Parco, a sette miglia da Palermo, occupando la strada che conduceva alla Piana dei Greci e quindi all’interno dell’isola. L’idea del generale era quella di prendere Palermo e concentrare tutte le forze in un solo punto per poi piombare su Catania, Siracusa e Trapani, spingendo i borbonici a Messina. Intanto bisognava allontanare quanti più soldati nemici da Palermo in modo che fosse possibile assaltarla con più facile successo. Così, quando il 24, diecimila regi si mossero contro di lui con una colonna in marcia da Palermo ed altre due da Monreale, reagì col fuoco, poi si ritirò, ma solo per attuare il suo piano: fece credere che stesse scappando a Corleone, spedendo lì l’artiglieria ed uno scarso numero di uomini guidati dal colonnello Vincenzo Orsini, e di notte mosse le sue colonne, aprendosi una via attraverso i campi e i boschi per apparire al mattino a Marnico, immediatamente vicino a Palermo.

I borbonici festeggiarono la vittoria, senza rendersi conto del raggiro. Garibaldi pose il campo sull’altura che domina il borgo di Misilmeri, forte pure dei duemilacinquecento uomini del colonnello La Masa, unitisi a lui. I borbonici, ancora convinti che un attacco potesse solo avvenire dalla strada di Monreale, schierarono il grosso delle truppe nei quartieri a nord ed ovest, lasciando sguarnito il lato sud-est. La sorpresa per loro fu grande: “Per mantenere i Napoletani nella loro sicurezza che il nemico fosse in tutt’altra parte, s’accesero i soliti fuochi sui culmini delle montagne. Allora Garibaldi si ritirò tutto solo sopra un ripiano per osservare la posizione al di sotto, o piuttosto per abbandonarsi a quella sorta di meditazione che egli è solito ricercare nei momenti i più solenni, e la quale termina col concentra mento di tutte le sue facoltà verso il soggetto ch ‘ egli ha innanzi a sè. Dopo molte difficoltà per ridurre a soggezione le squadre e ordinarle in ischiere, la marcia cominciò alle 10 della sera. Niuna traccia di strada , ma un sentiero segnato da un torrente allora asciutto e coperto di grossa ghiaja, fra balze e dirupi scoscesi, non mai al disotto d’un angolo di 25 gradi. Finalmente, varcata la stretta, si giunse al piano; ivi si ‘fe’ alto per raccogliere e riordinare le schiere. Qualche ora dopo, la colonna giunse alle prime case che indicavano che Palermo era vicino: cominciava allora appunto ad albeggiare. I Siciliani, credendosi forse già dentro Palermo, si diedero a gridare e a mandare evviva. Senza quest’atto imprudente, l’avanguardo avrebbe sorpreso il posto dell’Ammiragliato e forse sarebbe entrato nella città senza la perdita d’un sol uomo. Le grida fatalmente riscossero quei che erano a guardia del ponte e diedero tempo ai Napoletani di rafforzare la guardia alla porta di Termini e d’apparecchiarsi alla difesa” (Luigi Rossetti, L’insurrezione siciliana e la spedizione di Garibaldi nel 1860).

Il fuoco fu micidiale e Garibaldi dovette portarsi davanti a tutti col primo battaglione di Cacciatori, seguito dal secondo. I borbonici erano ben trincerati a Porta Termini e le loro scariche di fucile erano sostenute dai cannoni piazzati alla Porta Sant’Antonio. Bisognò assalirli alla baionetta. In quell’assalto fu ferito il colonnello Luigi Tukory che morì qualche giorno dopo, nonostante gli fosse stata amputata la gamba sinistra per cancrena. Grazie al suo sacrificio i garibaldini entrarono nella città verso le 5 e 30 del mattino.

Precipitati nel panico, i borbonici chiusi nella cittadella di Castellammare iniziarono il bombardamento, più tardi si unirono ad essi i cannoni dei legni fermi nel porto. L’azione si frammenta in centinaia di episodi nei quartieri palermitani, sorgono barricate nei punti strategici, si registrano attacchi e cntrattacchi. Parte dei nemici riparò nel Palazzo delle Finanze. Continuarono a piovere palle di cannone sino a sera, Palermo finì in macerie: “Molte case della parte bassa della città cadevano in ruina; gran numero di donne e di bambini furono uccisi o mutilati : molti rimasero seppelliti sotto le rovine degli edificii. Dappertutto non si vedeva che distruzione e incendio, morti e feriti. La parte più danneggiata della città fu quella ove trovasi la piazza Bologni. I quartieri di Palazzo Reale e quello dell’Albergaria sono stati intiera mente saccheggiati ed incendiati. I bei palazzi di Carini, di Curò e di Santa Ninfa sono stati distrutti da cima a fondo pel fuoco appiccato dai Regii. Il bombardamento rovinò almeno un quarto della città. Dei monasteri di Santa Caterina, della Manovara , di Santa Chiara , dei Sette Angioli, la Badia Nuova, il Cancelliere, rimase un mucchio di rovine; i ricchi palagi del Cassero e delle Strade nuove furono tutti più o meno danneggiati, e le perdite si calcolano senza esagerazione a molti milioni d’onze” (Luigi Rossetti, L’insurrezione siciliana e la spedizione di Garibaldi nel 1860).

Nel frattempo Von Mechel, che si era spinto sino a Corleone, credendo che il generale si trovasse lì, furono raggiunti da un emissario che annunciò loro che Palermo era in mano ai garibaldini. Stupiti, si scatenarono in una precipitosa marcia, liberando l’artiglieria del colonnello Orsini. La flotta borbonica invece lasciò il porto in direzione di Termini.

Il 28 fu preso d’assalto il Palazzo delle Finanze e i borbonici furono costretti a chiedere un armistizio di ventiquattro ore, spedendo il generale Giuseppe Letizia da Garibaldi a trattare. Il bombardamento riprese con più vigore, seminando morte di innocenti e grandi rovine. “Dopo tre giorni di bombardamento, Palermo, tra Garibaldini, vecchi, giovani , donne, bambini, arsi dalle fiamme o squarciati dalle bombe, o schiacciati dalle rovine, contava più di novecento vittime; i volontari allora resi più furibondi, si avventavano contro i soldati del despota, e succedevano sanguinosi scontri; in cui assaliti e assalitori cadevano a rovescio, ma la rivoluzione guadagnava terreno, i nemici fuggivano dinanzi ad un soldato di Garibaldi e ove potevano giungere, infierivano quali jene, gettavansi sulle famiglie inermi e facevano opere esecrande. Ma non sempre andavano impunite le loro atrocità; e spesso erano assaliti , costretti a lasciare i cadaveri e fuggire cercando salvezza” (Luigi Rigoni, La spedizione di Garibaldi da Genova a Palermo per uno dei Mille). Lanza alla fine capì che tutto era inutile. Il 30 chiese di incontrare Garibaldi ed il 3 giugno le trattative furono prolungate. Infine, il 6 veniva firmata una convenzione: Palermo era libera.

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: Luigi Rigoni, La spedizione di Garibaldi da Genova a Palermo per uno dei Mille; Luigi Rossetti, L’insurrezione siciliana e la spedizione di Garibaldi nel 1860

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