Giorgio De Chirico, forse

Ulisse rema nell’azzurro tappeto di casa sua. Alle pareti un armadio e una poltrona, sulla sinistra un dipinto delle piazze d’Italia, sull’altra una finestra che si affaccia su un isolato tempio greco. Alle spalle dell’eroe c’è una porta aperta. Questo il soggetto di Il Ritorno di Ulisse, dipinto da Giorgio De Chirico al varco degli ottant’anni. È un’ironia dell’esistenza piccolo-borghese, di eroi pantofolai e sognatori incapaci di valicare persino porte aperte, o forse in esso c’è – o c’è anche – una lettura dell’eterno ritorno nietzschiano, la vita concepita come viaggio nei ricordi e quindi come sequenza di ritorni in posti dai quali non si è mai veramente partiti. «Basta coi falsi Edipi», anni prima aveva inveito contro di lui Aragon, senza accorgersi che egli stesso stava compiendo un parricidio.

L’arte di De Chirico non poteva piacere sul serio ai surrealisti, esprimeva la dimensione quotidiana ed era lontanissima dagli obbiettivi rivoluzionari delle avanguardie, si generava da sedimentazioni e intuizioni della soggettività e trovava nella mitologia i suoi elementi, recuperando il classicismo che Ernst considerava oscurantista.

Nel luglio del 1911 De Chirico aveva portato la pittura metafisica a Parigi. L’aveva scoperta l’anno prima, con una rivelazione a Piazza Santa Croce, a Firenze, quando, in uno stato di ipersensibilità, dopo giornate di fastidi e debolezza, aveva visto la chiesa trasformarsi in un tempietto ellenico e la statua di Dante trasmutare in un mutilo fantasma di pietra dalle forme greco-romane, mentre all’orizzonte scivolava silenziosa la nave degli argonauti, quella con cui, insieme alla madre e al fratello, aveva lasciato la natia Grecia. Il pittore ricordò quella illuminazione nelle sue Memorie: «In un limpido pomeriggio autunnale ero seduto su una panca al centro di piazza Santa Croce a Firenze… Al centro della piazza si erge una statua di Dante, vestita di una lunga tunica… Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mia mente». Il risultato delle sue visioni, la tela Enigma d’un pomeriggio d’autunno, conquistò Picasso e Apollinaire.

La pittura dell’italiano era impregnata di cultura greca e filosofia tedesca, vi riverbavano l’introspezione, le atmosfere incantate, gli istanti indecifrabili, l’uggia delle giornate d’autunno. Apollinaire la definì «una scrittura di sogni». Il pittore attingeva al mito come a codici simbolici personalissimi, a geometriche solitudini, a figure solitarie, suscitando un senso di sgomento, di presagio, di paura in uno spazio atemporale. Vengono alla mente le parole di Herman Broch: «Nel mito le verità fondamentali dell’anima si rivelano ad essa stessa; essa le riconosce negli eventi del mondo e della natura e le mette in atto. In un processo parallelo, la ragione afferra, come sue verità fondamentali, i principia della logica; essa riconosce questa logica nel mondo esterno, nella concatenazione di causa e di effetto, mettendoci, in questo modo, in grado di servirsi di essa. Mythos e logos sono i due archetipi del contenuto e della forma: essi si rispecchiano a vicenda e si ritrovano uniti, in un modo meraviglioso, nel più umano di tutti i fenomeni: nel linguaggio».

De Chirico aveva frequentato corsi di pittura privati e il Politecnico di Atene, poi l’Accademia delle Belle Arti di Monaco di Baviera, dove aveva preso confidenza con le opere dei simbolisti, di Arnold Bocklin, Max Klinger e la filosofia di Nietzsche e Schopenhauer. Allo scoppio della guerra era corso ad arruolarsi, lasciando in Francia parecchie tele che la maldestra proprietaria del suo appartamento in Rue Champagne-Premiere avrebbe voluto distruggere. A salvarle fu Ungaretti. Le comprarono giovani surrealisti come Eluard e Breton, pronti ad osannare l’artista che presto avrebbero odiato. «Reazionario», gli avrebbero gridato e si sarebbero sentiti rispondere: «Teppisti, figli di papà, onanisti e cretini mistici». Gli sfregiarono la tela Oreste e Elettra sulle pagine de La Revolution Surrealiste che, poi, in un giorno del 1926 uscì listato a lutto annunciando: «De Chirico è morto». Breton l’accusò d’essere passato dall’immagine netta a quella sfumata, dal soggetto nobile a quello volgare, di ripudiare, a scopi venali, i suoi vecchi quadri. La querelle era fatta risalire al 1918, in realtà De Chirico, pur influenzandole, era sempre stato in contrasto con le avanguardie, aveva sempre rifiutato lo svolgimento storico del pensiero artistico contemporaneo per opporvi la tradizione classica e, suo malgrado, aveva suggestionato i giovani artisti parigini. Aveva torto Breton, De Chirico al principio degli Anni Venti aveva solo vissuto una nuova rivelazione.

Dopo aver ammirato il Tiziano di Venere che benda Amore, a Villa Borghese, De Chirico aveva scoperto la malattia cronica e mortale della pittura. Raffaello, Rubens e Tiziano non avevano mai dipinto a olio, come lo si intendeva, ma a tempera, e gli impressionisti, credevano d’aver risolto il problema della luce con la loro tecnica, mentre sulla paletta avevano il principio delle tenebre.

Il filosofo Ubaldo Nicola e lo psichiatra Klaus Poddoll, in L’aura di Giorgio De Chirico. Arte emicranica e pittura metafisica, presentarono queste rivelazioni dechirichiana come il frutto di un’aura emicranica, cioè di quella particolare cefalea preceduta dall’aura, fenomeno ottico che distorce il campo visivo. Di problemi simili aveva sofferto anche l’amato Nietzsche. Ad ogni modo, forti mal di testa o grande sensibilità, l’artista fu attaccato da chi l’aveva acclamato, andando pure incontro all’ostilità della restante critica. Fu un “monomaco”, combatté da solo contro tutti. Nessuno era in possesso degli strumenti per comprendere la sua grammatica contemplativa. Nessuno poteva superare lo spiazzamento e penetrare in simbologie come quelle di Meditazione di Mercurio del 1973, dove un busto classico del dio della parola contempla oggetti sconosciuti ma dall’aspetto familiare, in uno spazio illogico e dalla prospettiva incongruente (esperimento aperto nel 1969 con Interno metafisico con testa di Mercurio e ripetuto in quello stesso 1973 con Vita silente con busto di Minerva e Frutta con busto di Apollo). Sebbene sia innegabile quanto tele come Metafisica interiore con biscotti del 1916 abbiano influenzato il concetto stesso di quadro surrealista, De Chirico non rifiutava lo stile e il concettuale per dar voce ad inquietudini oniriche, puntava sulla contemplazione dell’enigma. Questo s’incontra nei numerosi squarci su realtà fuori dal tempo, d’attesta, di mistero, mondi in cui sta per accadere qualcosa o forse è già accaduto, come in La Torre Rossa del 1913. Questo si ritrova in uomini persi in contesti singolari, privi di occhi, orecchie e bocca, dunque impossibilitati a vedere, udire e parlare, uomini disumanizzati, senza vita, ridotti a manichini sartoriali, automi e burattini da inquietudini che li condannano ad angosce e solitudini infinite, come in Ettore e Andromaca e Le muse inquietanti del 1917. De Chirico era questo, le atmosfere psicologiche ineffabili dei pomeriggi in città mediterranee, i silenzi sognanti, il senso d’una fatalità imperscrutabile, la stimmung, l’emozione fatta di malinconia e mistero.

Forse portava dentro frammenti dolorosi come la morte della sorellina, l’epidemia che mise a letto tutta la sua famiglia, i terremoti, i cambiamenti di abitazione, la guerra fra greci e turchi, la morte del padre, la malaria. Forse questi ricordi animarono gli scorci architettonici, le sue prospettive sghembe, le luci e le ombre ossessive, l’enigmatica giustapposizione di oggetti. Forse.

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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