Gli antichi romani a tavola
Traiamo da Roma antica questo testo di Mario Attilio Levi sui pasti e le pietanze che scandivano la quotidianeità degli antichi romani.
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I Romani a tavola rievocano facilmente in noi l’idea dello stravizio e dell’orgia: in realtà l’abuso di cibo non è stato frequente e soprattutto non veniva considerato di buon gusto. D’altra parte la storia di Roma è lunga, e nel corso dei secoli le usanze sono cambiate, come cambiavano dall’uno all’altro ambiente sociale.
Se si pensa al cibo abituale dei militari, della gente del popolo e dei campagnoli, non molto deve essere cambiato dai tempi della repubblica arcaica ai tempi dell’imero. L’orzo o il farro, più raramente il grano, venivano pestati in un frantoio, fino a farne una farina di grossa grana, con cui si faceva una polenta. Qualche pezzo di formaggio messo a sciogliere dentro questa polenta, una cipolla arrostita o anche cruda, sminuzzata a pezzi, e su tutto una gran coppa di vino mescolato col miele. Ognuno porgeva la sua tazza di coccio, se la faceva riempire della miscela calda, la mangiava lentamente, con un cucchiaio. Questo, per i più poveri, era già un pasto completo ed abbondante. Le focacce di cereali, intrise d’olio, condite con olive e cipolle, molto simili alle pizze di oggi, erano un altro dei cibi romani abituali: qualunque soldato imparava a confezionarsi da sé polenta e focacce, nelle tappe delle marce o mentre si costruivano le palizate degli accampamenti: se c’era un bicchier di vino completava il pasto frugale, altrimenti l’acqua veniva sempre considerata un ottimo mezzo per schiarire le idee.
L’alimentazione normale dei ceti più abbienti prevedeva tre pasti, nella giornata. Di buon mattino, si rompeva il digiuno con una modesta “prima colazione” tipicamente mediterranea: alcuni frutti accompagnati da un pezzo di focaccia al miele e olio, o da una delle abituali gallette secche e non lievitate. Le frutta più usate erano mele e fichi: quand’era stagione, si gradiva molto l’uva e anche le more. Le altre frutta conosciute e usate erano pere, pesche, prugne, albicocche, ciliege, noci e datteri. I limoni erano conosciuti, e non è escluso si conoscessero pure le arance, anche se nessuna fonte ne parla. Le mele cotogne erano apprezzate cotte e in marmellata: naturalmente alcune di queste frutta erano state trapiantate dai paesi del Levante, come le ciliege e le prugne; altre, come i datteri, erano soltanto generi di importazione.
Quando gli uomini ritornavano a casa, a metà della giornata, si faceva un altro pasto leggero, per lo più di un’nica portata, pesce o uova, con alcuni vegetali crudi o cotti. Gli antichi Romani usavano per la loro alimentazione 150 qualità di pesce, di prezzo altrettanto differente quanto i tipi: in genere, per il “pasto meridiano”, si preferivano le qualità più semplici e digeribili cucinate alla svelta, con vegetali crudi o bolliti e appena conditi con olio. Il pasto si chiudeva con un bicchiere di vino.
Ospiti o no, la “cena” era invce il pasto più forte della giornata. Il servizio veniva diviso in tre parti: in una cena veramente ampia e solenne si richiedevano antipasti formati da uova con salse piccanti, frutti di mare o crostacei parimenti molto insaporiti, insalate di verdure e il consueto mulsum, il vino dolcificato col miele. I legumi e le verdure più in uso erano i fagioli, i ceci, i piselli, le fave, la lattuga, la bietola, le carote, le radici, la cipolla, l’aglio, gli asparagi, i porri, oltre a infiniti vegetli usati soltanto per il loro aroma, come il ligustico, la menta, il rafano, il prezzemolo ed altri. La vera e propria cena erau n servizio tutto a base di carni varie, che poteva essere di un numero variabile di portate, tre, o cinque, o sette. In età imperiale, un pasto elegante e completo poteva comprendere una lampreda o una murena, o forse un capitone, prima bollito, poi stufato con salse molto piccanti; rombo arrostito e condito con salse di vino e aromi; maialino o giovane cinghiale arrostito allo spiedo con odori e aromi, come la nostra “porchetta”; pavone arrosto, rivestito di tutte le sue piume; e, per finire, un arrosto carne ovina, o più raramente ovina. Naturalmente questo menu poteva essere largamente variato.
Un degli ingredienti più importanti della cucina romana è qualla salsa dall’acuto odore di pesce che si trova tanto frequentemente nelle ricette. Con il nome di garum si indica un liquido che, in origine, proveniva dalle coste mediterranee della Spagna, ove i pescatori usavano lasciar fermentare al sole, in appositi recipienti, le interiora degli sgombri e di altri pesci frassi e saporiti. Quando la fermentazione era giunta ad un punto determinato, la sostanza veniva rovesciata in speciali recipienti fatti come cestelli, in modo che ne colasse fuori tutta la parte liquida, la quale, con aggiunta di sostanze aromatiche e agrodolci, costituiva un condimento assai ricercato, in quanto si sostituiva al sale, dando un forte sapore caratteristico a qualunque sostanza alimentare.
I Romani non amavano il gusto di selvatico, e facevano perdere l’afrore alla selvaggina, catturandola viva e nutrendola in casa per parecchi mesi prima di mangiarla: apprezzati, come cibi fuori dell’ordinario, erano i fagiani, le lepr, le quaglie, i fenicotteri, i pappagalli, le oche, le anitre, i germani, i piccioni, specialmente se tenuti in casa lungamente e catturati ancora molto piccoli, in modo che l’alimentazione domestica rendesse più facile l’oper del cuoco, il quale doveva saper nascondere il naturale gusto delle vivande per sostituirlo con i sapori creati dalla sua fantasia. Con questo, si deve insistere sempre sul concetto della eccezionalità dei pasti molto sontuosi. La cena di trimalcione, descritta da Petronio Arbitrio, è la caricatura del tenor di vita della gente di bassa estrazione e di recente ricchezza.