I funerali nell’antica Roma e lo ius imaginum
Bianchi Bandelli, in Roma. L’arte romana nel centro del potere, dedica alcune pagine al funerale nell’antica Roma, ricordando le precise descrizioni di Polibio e soffermandosi sullo ius imaginum.
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Nella sua lucidità intellettuale, Polibio riconosce che il tempo lavorava per i Romani e che la loro conquista dell’Oriente I funerali nell’antica Roma e lo mediterraneo, Grecia compresa, era inevitabile. Pur essendo ben disposto, egli nota tutto ciò che trova di diverso dai costumi della Grecia e ciò che lo colpì in modo particolare, come uso non altrove veduto, fu il rituale funerario del patriziato romano. Merita il conto di leggere quanto egli scrive (I. VI, 53 delle Storie):
“Quando qualche illustro personaggio muore, celebrandosi le esequie, è portato con ogni pompa nel Foro presso ai cosiddetti rostri ed ivi posto quasi sempre diritto e ben visibile, raramente supino. Mentre tutto il popolo circonda il feretro, il figlio, se ne ha uno maggiorenne e si trova presente, o in mancanza qualcuno della famiglia, sale sulla tribuna, rammenta le virtù del morto e le imprese felicemente compiute in vita. Perciò tra la moltitudine non solo coloro che hanno preso parte a quelle imprese, ma anche gli estranei, gli uni richiamando alla memoria e raffigurandosi gli altri il passo del defunto, tutti si commuovono a tal punto che la perdita appare non limitata a coloro che sono in lutto, ma comune a tutto il popolo. Dopo la laudatio funebris, il morto si seppellisce con gli usuali riti funebri e la sua immagine, chiusa in un reliquario di legno, viene portata nel luogo più visibile della casa. L’immagine è una maschera di cera che raffigura con notevol fedeltà la fisionomia e il colorito del defunto. In occasione di pubblici sacrifici espongono queste immagini e le onorano con ogni cura; e quando muore qualche illustre parente le portano in processione nei funerali, applicandole a persone che sembrano maggiormente somiglianti agli originali per statura e aspetto esteriore. Costoro, se il morto è stato console o pretore, indossano le toghe preteste (cioè orlate di porpora), se censore toghe di porpora, e ricamate in oro se ha ottenuto il trionfo o qualche altra onorificenza del genere. Tutti costoro avanzano sui carri preceduti dai fasci, dai littori, e dalle altre distinzioni, alle quali ciascuno aveva diritto secondo le cariche ricoperte in vita e, quando giungono alla tribuna dei rostri, tutti si seggono in fila sulle sedie curuli. Non è facile per un giovane che aspiri alla fama e alla virtù vedere uno spettacolo più bello di questo. A chi mai non sarebbe di incitamento la vista delle immagini, per così dire, vive e ispiranti di uomini famosi per i loro meriti? Qualche spettacolo potrebbe essere più bello di questo? Quando ha finito di parlare del morto, l’oratore incaricato dell’elogio funebre ricorda i successi e le imprese dei suoi antenati, dei quali sono presenti le immagini, cominciando dal più antico. Così, rinnovandosi continuamente la fama di virtù degli uomini valorosi, si immortala la gloria di coloro che hanno compiuto qualche nobile impresa e il nome di coloro che hanno servito bene la patria è conosciuto da tutti e si trasmette ai posteri. E, quel che più importa, i giovani sono spinti a sopportare tutto per procacciarsi la gloria che si accompagna ai valorosi”. Sin qui Polibio.
Questo straordinario rituale legato al culto degli antenati e soprattutto all’esaltazione della gloria patrizia, appare non influenzato da contatti con il mondo greco. Esso non prevede affatto il ritratto del defunto sulla sua tomba, ma si lega strettamente ad una concezione, che è essenzialmente politica, regolata da vincoli religiosi e da norme giuridiche del tutto particolari, il ius imaginum. E’ questa l’espressione giuridica di un diritto che si concretava nel privilegio di tenere le immagini degli antenati nell’ambiente centrale della casa, l’atrio. Queste immagini dovevano conservarsi ciascuna entro un armadietto a sportelli, che il membro più autorevole della casa apriva solo in determinate occasioni. Ogni armadietto era munito di una iscrizione col nome e i titoli del defunto e veniva a comporre, con tutti gli altri, un albero genealogico (Plinio, Nat. hist. XXXV, 6).
Questo diritto alle immagini era strettamente gentilizio; esso appartiene ai discendenti e ai consanguinei; la moglie porta con sé le immagini dei proprio antenati che vengono inserite nella serie già esistente nella casa del marito. Sappiamo di incidenti e di proteste per l’inserzione dell’immagine di un estraneo nella serie di una gente (Plinio, loc. cit, 8). Tutto questo porta di conseguenza che di una imago si dovettero andar facendo numerose repliche, per seguire gli appartenenti ai vari rami della famiglia. Quando le immagini di cera furono sostituite da busti in scultura, anche di questi si dovettero fare molte repliche, alcune subito, altre in epoche successive. Dobbia mo perciò arrivare alla conclusione che solo un ristretto numero dei ritratti di “stile repubblicano” che ci restano sono stati eseguiti effettivamente in quel tempo. La maggioranza, e specialmente quelli identificabili come membri di grandi famiglie patrizie, ci sono pervenuti solo in repliche più tarde, di età imperiale, dove lo stile originario si mescola con elementi di stile diverso, cioè del tempo nel quale la copia è stata eseguita. Ciò rende spesso incerta l’attribuzione cronologica attraverso l’analisi dello stile.
Il ius imaginum rimase esclusivamente patrizio, sino a che solo i patrizi furono ammessi alle magistrature ordinarie; poi fu esteso a quelle famiglie plebee che si ritenevano oriunde da ceppi familiari patrizi, e insieme ai discendenti di tutti coloro che avevano ricoperto delle magistrature superiori (curuli).