Memorie della Grande Guerra: i partiti politici italiani davanti alla Grande Guerra

Di fronte alla Grande Guerra i partiti politici italiani si divisero tra neutralisti e interventisti, ma differenze profonde scalfirono ogni schieramento. Gli interventisti d’ispirazione democratica non prevalsero su quelli di stampo nazionalistico e tra i neutralisti molti si orientarono verso un programma rivoluzionario. La crisi del dopoguerra vide queste tendenze emergere con forza nella società italiana. Ce ne parla Morandi in “I partiti politici nella storia d’Italia”.

 

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La vera crisi del ’15 gravida di lontane conseguenze, nacque non dal fatto che gl’interventisti fossero una minoranza audace e restia all’ossequio delle forme legali, ma dall’equivoco che si annidava nello stesso interventismo. Infatti su Trento e Trieste il consenso era unanime. Ma la questione dei confini orientali non poteva esaurire la complessità dei problemi che scaturivano dalla nostra partecipazione ad una guerra europea. E qui si palesava l’intimo travaglio: nel fatto cioè che non esisteva un unico o prevalente criterio nel concepire la natura e le finalità ultime del conflitto. I nazionalisti intendevano la guerra come un mezzo d’espansione territoriale e la vittoria come uno strumento di potenza dell’Italia; i democratici, i bissolatiani e i repubblicani come la conclusione gloriosa del nostro Risorgimento e la premessa di una nuova Europa sacra alle libere nazionalità, i liberali di destra come la sola via per completare l’unità della patria rafforzando i vincoli tradizionali con l’Inghilterra e col mondo occidentale. Ma c’erano i sindacalisti e i mussoliniani i quali contemplavano tutt’altre mete: vedevano nella guerra un fatto rivoluzionario, accentuavano tale carattere, e si proponevano di far leva sugli effetti che una prova di tale genere non avrebbe potuto non esercitare negl’italiani. Sergio Panunzio, sul “Popolo d’Italia”, parlava di abolire, a vittoria ottenuta, il parlamento e di uccidere lo Stato liberale. Il pericolo era nel nascere e nel diffondersi di questa mentalità.

Un contrasto d’altra natura, ma non meno grave, si rispecchiava nel governo, anche quello “nazionale” di Boselli (dove entrarono per la prima volta i socialriformisti con Bissolati, Bonomi e Canepa, i repubblicani con Comandini e i cattolici con Meda), sul terreno della politica estera, tra il conservatorismo nazionale di Sonnino e l’europeismo di Bissolati; contrasto destinato poi a sfociare, tra il ’18 e il ’22, nella più aspra battaglia dei nazionalisti e dei “rinunciatari”. Due concezioni che ubbidivano a distanze etico-politiche troppo lontane e diverse per poter essere composte e risolte in una superiore unità.

Intanto i socialisti italiani avevano partecipato con i compagni di fede dei paesi neutri e con i socialisti dissidenti dei paesi belligeranti, ai convegni svizzeri di Zimmerwald e di Kienthal (1915 e 1916), dove la fredda e lucida intransigenza rivoluzionaria di Lenin apparve dominante. Si trattava di ricostruire l’Internazionale e di stimolare gli operai alla lotta per la pace. Una pace, secondo la formula adottata poi ufficialmente dai bolscevichi, “senza annessioni e senza indennità”, con il diritto d’autodecisione per tutti i popoli, ma evitando l’errore di “creare, sotto la falsa bandiera della liberazione dei popoli oppressi, stati indipendenti in apparenza, ma in verità incapaci di vita autonoma”. Questo concetto, espresso da Lenin a Zimmerwald anticipava una realistica critica a taluni criteri affermatisi nei trattati del ’19. Sappiamo dalle memorie di Trotzki che Lenin non giudicò molto favorevolmente i capi socialisti italiani; e questi, dal canto loro, forse non ebbero il senso della grande rivoluzione proletaria che andava maturando. Comunque, l’attività del partito socialista, in Italia, esasperava gli ambienti nazionalistici; quando sopraggiunse l’ora grigia di Caporetto, parve facile rovesciare la responsabilità dell’accaduto sul disfattismo rosso (e sul pacifismo nero). In realtà, Caporetto fu una sconfitta militare, che s’innestò in un’atmosfera di stanchezza diffusa dopo anni di guerra dura, non meno in Italia che in Russia, in Francia e altrove.

Caporetto ebbe – almeno in un primo tempo – conseguenza favorevoli: la sensazione del grave pericolo corso provocò un risveglio d’energie, un mutamento di criteri nei comandi militari, un’intima unione di spiriti e di volontà. Turati e Treves parlavano di “resistenza fino all’estremo”, Baldesi e Rigola incitavano il popolo italiano “a raccogliersi in uno sforzo per respingere l’assalitore”. I convegni internazionali della Svizzera sembravano un lontano ricordo; ma, a riproporne il tema, intervennero i primi echi della rivoluzione d’ottobre in Russia. La dittatura del proletariato non era dunque un mito irrealizzabile. Sulle rovine della seconda poteva nascere la terza Internazionale, libera dagli errori del passato, aureolata dal trionfo sovietico. E l’Europa avvolta nella strage, con le sue masse di combattenti stanchi, spalancava audaci orizzonti. Il socialismo italiano ne fu scosso: nonostante l’azione di freno esercitata dai capi, il suo evolversi verso un programma rivoluzionario a breve scadenza ed una stretta collaborazione con i comunisti di Mosca fu presto palese. Il congresso, tenuto a Roma nel settembre ’18, ne offrì la conferma. Il prolungarsi del conflitto e la rivoluzione russa agivano di conserva. La guerra operava nel profondo, suscitando nelle masse un’inquietudine nuova ed un senso più consapevole di forza, mentre la classe dirigente del paese teneva gli occhi fissi al Grappa, al Montello e al Piave, perché là e soltanto là era la patria.

Ma un altro sintomo d’oscuro avvenire doveva manifestarsi tra breve. Poco dopo la vittoria e la fine della guerra, l’11 gennaio del 1’9, Bissolati pronunciò alla Scala di Milano un appassionato discorso, prospettando la tesi mazziniana della nazionalità, della collaborazione italo-slava, secondo i concetti informatori del Patto di Roma (19 aprile 1918), insomma la tesi cosiddetta “rinunciataria”. Bissolati era un interventista, un valoroso e fiero combattente: ma fu più volte interrotto e fischiato. Inveivano contro di lui i futuri fascisti guidati da Mussolini. In Bissolati parlava l’anima del Risorgimento e dell’interventismo democratico del ’14-’15. Ma dinanzi a sé, egli aveva una gioventù nuova educata nell’atmosfera della guerra, che ignorava il travaglio interiore della generazione che l’aveva preceduta. Inebriata della gloria guerriera, sentiva altri richiami: la conquista, il dominio, l’impero. Giovani che parlavano un altro linguaggio, ai quali quello bissolatiano suonava ormai incomprensibile, anzi pareva una debolezza o una profanazione.

Erano le prime avvisaglie della crisi.

 

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