I primi documenti in volgare

Nei primi secoli del Medioevo, mentre il latino parlato andava disintegrandosi in una moltitudine di parlate locali, il latino letterario rimaneva fedele alla sua tradizione. Si trattava però di un linguaggio appartenente ad una schiera ristretta di persone. Nell’813, a dimostrazione di ciò, un canone del Concilio di Tours prescrisse ai vescovi di predicare in lingua romana rustica proprio per rendere accessibile a tutti la parola di Dio, visto che la maggioranza dei fedeli non comprendeva già più il latino. Così apparvero i primi testi in volgare ed anche in Italia, sebbene il latino rimase vivo più a lungo, non mancarono scritture in volgare sin dall’VIII secolo.

I primi testi in volgare letterario apparvero intorno al XIII secolo. Essi furon preceduti da brevi scritture a carattere eminentemente pratico come i Placiti cassinesi del 960 d.C.. I placiti rappresentano i primi documenti nei quali appare consapevolmente il volgare contrapposto al latino. Sono tre documenti giudiziari campani, l’uno sottoscritto a Capua, gli altri a Sessa e Teano nel 963.

“Praedictum Mari clericum et monachum ante nos stare fecimus, quem monuimus de timore Domini, ut quod de causa ipsa veraciter sciret indicaret nobis. Ille autem, tenens in manum praedicta abbreviatura, que memorato Rodelgrimo hostenserat, et cu malia manu tetigit eam, et testificando dixit: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti” ovvero “Facemmo stare davanti a noi il predetto Mari, chierico e monaco e lo ammonimmo, in nome del timore di Dio che ci rivelasse ciò che veramente sapeva intorno alla causa. E quello, tenendo in mano la predetta carta che aveva mostrato a Rodelgrino, la toccò con l’altra mano e fece questa testimonianza: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. E cioè: So che quelle terre con quei confini che qui si contengono, le possedette per trent’anni la parte di San Benedetto”. Questo si legge in un passo del placito di Capua che, come gli altri, concerne i beni di un monastero dipendente da quello benedettino di Montecassino e intendeva assicurare la proprietà di tali beni contro ogni contestazione. Il cancelliere verbalizzò tutto in latino, sebbene lontanissimo da quello classico, e riportò scrupolosamente le parole in volgare rese in tribunale da un certo Mari, “chierico e monaco”, in merito alla rivendicazione di un terreno reclamato dall’Abbazia di Montecassino. Il fatto che i protagonisti, pur conoscendo il latino, usassero il volgare, indica chiaramente l’intenzione di dare massima pubblicità all’atto, di farlo comprendere a tutto il pubblico che assisteva e che, invece, conosceva solamente il volgare. La frase di Mari rivela una struttura sintatticamente e lessicalmente ancora latina, infatti conserva la desinenza del genitivo nell’espressione “sancti Benedicti”, ma foneticamente è una lingua nuova. Questa semplice frase rivela quanto il latino avesse cessato di essere lingua per la comunicazione quotidiana, assumendo invece la funzione di lingua settoriale, lingua per trattati, strumenti notarili e verbali di tribunali. Nel giro di due secoli, il volare acquistò maggiore autonomia e dignità, finendo usato anche per produrre opere di carattere letterario e spingendo scrittori e poeti alla ricerca di un volgare “alto”. La frase in volgare – nel mezzo del testo in latino qui tradotto in italiano – era pronunciata dai testimoni e probabilmente fu preparata dal giudice stesso perchè ricorre, identica, in tutti i placiti. Si tratta di un volgare illustre, ripulito e reso in qualche modo aulico, come è dimostrato dai latinismi. Il fatto che i protagonisti, pur conoscendo il latino, usassero il volgare, indica chiaramente l’intenzione di dare massima pubblicità all’atto, di farlo comprendere a tutto il pubblico che assisteva e che, invece, conosceva solamente il volgare.

Più antico appare essere il cosiddetto “Indovinello Veronese”, scoperto nel 1924 in un codice della Biblioteca capitolare di Verona. Scritto in volgare da un ignoto copista tra l’VIII secolo e l’inizio del IX in forma d’appunto, l’indovinello recita: “Se pareba boves, alba pratalia araba / albo versorio teneba, negro semen seminaba”. I versi starebbero per: “Si spingeva avanti i buoi, arava un bianco pr ato e teneva un bianco versorio e seminava una semente nera”. Si allude all’azione dello oscrivere: i buoi sono le dita, il prato arato è la pagina, il versorio bianco è la penna d’oca, il seme nero è l’inchiostro. Spesso questo testo è stato presentato non come volgare ma come latino infacrito di volgarismi, tuttavia si è perlopiù ritenuto che si trattasse di un intenzionale volgare nel quale riccorre solo una forma latina, semen. Il codice è di provenienza spagnola, sicuramente di Toledo, poi portato a Cagliari, in seguito a Pisa, prima di raggiungere Verona. Che la mano che lo ha vergato fosse veronese, probabilmente di un amanuense della stessa Capitolare, è invece stato attestato da un esame filologico che dimostra la presenza di tratti tipici del dialetto veronese (come versorio = aratro e i verbi all’imperfetto indicativo in -eba invece dell’-aba o -ava di altri dialetti).

Successiva ai placiti è invece la Postilla amiatina. Risale al 1087 e recita: “Ista cartula est de caput coctu / ille adiuvet de illu rebottu / qui mal consiliu li mise in corpu” ovvero “Questa carta è di Capocotto e gli dia aiuto contro quel ribalto che gli mise in corpo un mal consiglio”. La scrittura è più latineggiante rispetto alle formule dei placiti cassinesi (ista, est, caput…) e ciò probabilmente è dovuto all’autore, il notaio Rainerio, che forse sapeva scrivere solo in latino. Interessante è la comparsa nel testo dell’articolo, cioè illu dal quale derivrà il. E’ una postilla che il notaio aggiunse a una carta del 1087 con la quale un certo Micciarello e sua moglie Gualdrada facevano dono di tutti i loro beni all’Abbazia di San Salvatore sul Monte Amiata.

E’ solo nel XII secolo però che il volgare diventa lingua letteraria. Vi sono alcuni componimenti di grande interesse, soprattutto poemetti giullareschi come il Ritmo di Sant’Alessio, marchigiano, il Ritmo Cassinese, ritmi celebranti avvenimenti storici bellunesi e lucchesi, e infine il Ritmo Laurenzano, fra questi il più antico. I suoi venti versi sono certamente opera di un giullare. Venti versi ottonari doppi, ritrovati in un codice della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, probabilmente recitati davanti al vescovo, quello di Pisa, del quale il giullare fa lodi sperticate – pronosticandogli nientemeno che il pontificato – sperando in questo modo di ottenere in dono un cavallo…

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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