Il colera a Napoli nel 1836
Il colera a Napoli nel 1836 raccontato in un frammento autobiografico di Francesco De Sanctis tratto da “La giovinezza”.
E ci voleva pure il colera! Questo ignoto e sinistro morbo, dopo di avere spaventato mezza Europa, piombò sopra Napoli come un flagello. Le immaginazioni furono colpite; la paura rendeva irresistibile l’epidemia. Si raccontavano molti casi di colera fulminante, con le circostanze piú strazianti. Si parlava di famiglie intere spente, di migliaia di morti al giorno, e coi piú minuti particolari si descrivevano i casi di contagio. Non c’erano allora giornali; il governo col suo mutismo accresceva il terrore e provocava le esagerazioni. Quel tintinnio di campanelli che accompagnava le comunioni, pareva la campana dei morti; i piú agiati fuggivano alle loro ville; la plebe squallida e sudicia faceva spavento; nessuno osava accostarsi; l’uno fuggiva l’altro. La vita pubblica fu sospesa; le scuole, le botteghe erano deserte.
Il morbo, che dopo alcuni mesi pareva ammansito, riprese con piú furore l’estate dell’anno appresso. È rimasta ancora nella memoria la giornata di San Pietro e Paolo, per il gran numero dei morti. Avvenivano scene che richiamavano alla memoria gli untori di Milano. Gli opuscoli dei medici confondevano ancor piú le menti. Chi affermava l’epidemia e chi il contagio. Molti i rimedi, e perciò si prestava poca fede ai medici e alle loro cure. C’erano i creduli, che narravano cure miracolose; ma il morbo procedeva con tanta violenza che lasciava poco adito alla ciarlataneria. Non mancavano le processioni, le esposizioni di Santi e di Madonne, le invocazioni e le preghiere e le penitenze; ma la paura del contagio raffreddava lo zelo religioso. Nell’ultimo tempo, per non fiaccare piú gli animi, s’era tolta dagli occhi ogni parte spettacolosa, i campanelli, le fraterie, i preti, i fratelli delle congregazioni, ogni Sorta di accompagnamento, il che scemava poco la paura e accresceva lo squallore. Erano sepolture notturne, le quali, esagerate di bocca in bocca, riempivano nel mattino la città di nuovi spaventi.
Anche a me giungeva un vocío del colera; in casa e fuori casa non si parlava che di questo. Ma l’impressione su di me era piccola. Uso alla vita interiore, il mondo mi passava innanzi come una fantasmagoria; non avrei saputo ridire cosa mangiavo, come vestivo e come vestivano gli altri. Anche oggi dei miei piú cari amici ricordo le fisionomie, non il vestito. Quelle varie voci del morbo si arrestavano come un ronzío importuno nel mio orecchio, non turbavano la mia serenità; anzi io avevo una certa inclinazione a esagerarle ancora piú, a metterci i miei colori e i miei ricami, a provocare lo spavento sulle facce, stentando molto a frenare il riso. Vedevo le cose non quali erano, ma quali volevo che fossero secondo la disposizione della mia mente; quei mali già cosí gravi erano inadeguati alla mia immaginazione letteraria, e andavo trattando e tormentando i fatterelli che mi erano raccontati, come fossero pagine di romanzo. Presto divenni insopportabile agli amici; il mio coraggio e la mia indifferenza già parevano loro un rimprovero; ma ciò che addirittura li metteva fuori di sé, era quella mia aria motteggiatrice, quei riso che mi appariva sulle labbra, innanzi ai moti improvvisi che certe notizie producevano sulle loro facce contraffatte dalla paura. Sentivo talora che facevo male, e sforzavo il viso a serietà; pur ci riuscivo poco. La mia condotta non veniva da malignità o durezza di cuore; ma da incosciente, allegra natura, che mi faceva sorvolare sui mali della vita. Tutti se ne accorgevano, e però molti non se lo avevano a male, e talora ridevano del mio riso e mi chiamavano poeta.
Intanto la scuola del Puoti s’era sciolta da sé; il marchese con tutta la famiglia s’era ricoverato in Arienzo, dove aveva alcune possessioni, e s’era messo a dettare un’Arte di scrivere. Gli studenti s’erano riparati nelle case loro, dove non ancora li aveva inseguiti il morbo; anche i fratelli Amante s’erano ritirati nel loro paese. Di questa fuga generale quasi non mi accorsi, tutto pieno del mio compito in casa e fuori casa. Zio era riuscito a levarsi qualche giorno, appoggiato sul bastone; ma questo non accresceva numero degli scolari, e poco scemava la mia fatica.
Io avevo preso dimestichezza con la casa Fernandez. Il povero Pasqualino, riparato in villa, era stato colpito dal morbo; poi, guarito appena, e sparsasi la voce che andare in villa era peggio che stare in città, fece con la famiglia ritorno…
…Intanto lettere mi venivano da babbo, da mamma e da zio, atterriti dalle voci del colera, che giungevano in paese, e mi chiamavano, e me ripugnante sgridavano e incalzavano. Io non voleva, e per una cotal sciocca braveria, e perché non voleva lasciare a mezzo le mie lezioni, parendomi fare quasi atto di disertore. Alfine cedetti alle grida di mia madre, e mi risolsi di andar via. La sera fui dal duca. Erano già parecchi giorni che infuriava di piú il colera, e il duca, per non sentirne a parlare, s’era fatto taciturno e solitario. Giunsi io con un’aria imbarazzata, che annunziava qualche cosa di grosso. “Cosa c’è?” disse lui. “C’è che..” “Insomma, vi sentite male?” interruppe lui, che mi vedeva cosí smilzo e con la faccia del colera. Io balbettava, cercando le parole, e che doveva per un mese allontanarmi, e che mia madre mi voleva, e che sarebbe stato per poco… Ma egli appena mi udiva, e non capiva niente. “Andate, andate”, diceva, con l’aria di chi mormori tra’ denti: Che il diavolo ti porti! “E come? – diceva il duca, tirandosi indietro, – siete in questo stato e venite a casa mia?” Io lo pregai a volermi permettere che prendessi commiato dal figlio; egli non disse di no, ed io entrai. Il giovinetto ebbe assai caro di sapere che quella sera non c’era lezione, e quel mesetto di vacanza in prospettiva me lo rese amico: mi strinse la mano, e mi promise di scrivermi, e mi fece molte cerimonie. Mai non mi aveva usato tanti riguardi il bricconcello.
Un’ora piú tardi ero già in via a Porta Capuana. Mi avevo comprato una buona bottiglia di rum, come salvaguardia contro il mostro, e un po’ di salame e non so cos’altro. Questo era tutto il mio fardello. Camminavo a piedi velocemente, per non perdere l’ora della diligenza. L’idea di mettermi in una carrozzella non mi era venuta, e non mi venne che assai piú tardi, quando non guardavo piú al carlino. Giunto in quei vicoli stretti e puzzolenti, che menano a quella brutta Porta Capuana, cominciò un via vai di carri funebri, con preci sommesse, con grida di monelli, che mi fece capire cos’era il colera. Mi strinsi tutto in me, chiusi la bocca e mi turai il naso, come per salvarmi dall’infezione. L’infezione era un fetore acre, che veniva da cessi, da orinatoi, da spazzature, da cenci, da uomini vivi e da uomini morti. Tirai di lungo, quasi scappando, e giunsi affannoso, che il carrozzone era già in via. “Ferma, ferma, cocchiere!” Fermò, e io mi gettai dentro, che per fortuna c’era ancora un ultimo posto. Mi ci accomodai alla meglio, tra le mormorazioni dei viaggiatori, che mi guardavano come si fa a uno straccione. Io non me ne accorgevo; li salutai e offersi loro del rum, ed essi tirarono la mano indietro, come per dir di no. Non ci fu verso di cavar loro una parola, e io che avevo ripreso il mio buon umore, ed ero divenuto tutto ad un tratto comunicativo, ne presi il mio partito, e mi posi a guardare le stelle, sorbendo di volta in volta un po’ di rum.
Giunsi in Avellino che parevo un fantasma, e tirai da Peppangelo, il celebre locandiere a quel tempo. “Signorino, cosa avete? voi mi sembrate uno spirito”. “Vado a letto, – diss’io, – e dammi un buon bicchiere di vino, ché la polvere m’ha asciugato la gola”. La mattina lasciai Avellino senza vedere alcuno, con l’aria di un fuggitivo. Prima la via era buona, e io caracollava con un frustino in mano e in aria di bravo, su di una mula. Mi veniva appresso, correndo, il contadino che m’accompagnava. Era innanzi l’alba, e il freddo avuto mi dava un tremolio, specie per le vie umide di Atripalda. Col levarsi del sole la via si faceva sempre piú sassosa e ripida, e la mula spaventata e poltra dava salti, tirava calci, chinava le gambe e il collo, e io mi aggrappavo sulla sella per tenermi saldo. Il contadino andava stuzzicando la bestia, e la pigliava per la coda e la bastonava di santa ragione, imbestialito anche lui, e le due bestie parevano congiurate a farmi cascare. Spesso il cappello rimaneva imbrogliato tra le spine, e talora davo di fronte in qualche albero. La strada era cosí brutta, che in parecchi punti aveva l’aspetto di un vero precipizio, stretta stretta, sdrucciolevole, aperta ai fianchi, di una altezza che mi dava le vertigini, e io gridavo che volevo calare, e il contadino bestia dava dei pugni alla mula. Avevo smesso quell’aria di bravo cavaliere, e mi rodevo tra la stizza e la paura, col capo dimesso, assetato, affamato, dissossato. Giunsi alla famosa taverna di Santa Lucia, e il cuore mi si allargò, come vedessi Gerusalemme…
…Presto la casa fu piena di gente. Molte strette di mano, molti baciozzi di zie e di comari. Il discorso si oscurò subito, ché il colera non invitato, entrava nella conversazione. Pretendevano che il morbo fosse apparso già in Avellino e in molti paesi vicini, e c’era chi sosteneva di averlo incontrato sulla via del cimitero, e della peggior natura, un vero colera fulminante; un contadino, appena colpito, morto. “Non lo chiamate troppo, che viene per davvero”, diss’io. Quelli mi guardavano con sospetto, e volevano sapere da me perché, cosí giallo e tisico, mi avevano lasciato passare senza la quarantena; e i soprastanti del paese conchiudevano che bisognava chiudersi e non lasciare piú entrare nessuno, e per poco non mi volevano affumicare. Pochi dí appresso mi giunse notizia che il duca di Cassano, il giorno dopo ch’ero partito, colto da timor panico, s’era rifuggito sul Vomero, ed era morto subitamente. La notizia accese ancora piú le fantasie, e le facce erano oscure, e i discorsi lugubri. Io aveva la testa piena di grilli e non sapeva star solo. Mi vennero a noia paese e paesani, e presi il volo. La mattina seguente volli partire. Mamma, ancorché fosse innanzi l’alba, e il freddo grande, volle accompagnarmi fino al cimitero, e là c’inginocchiammo e pregammo. Io avevo una gran tosse e lei mi si attaccò al collo, e mi stringeva forte, e mi diceva con lacrime: “Figlio mio, forse non ti vedrò piú”. Ed era presaga! Non dovevamo piú rivederci.
Trovai in Napoli il colera un po’ rimesso. Gli studenti tornavano, le scuole si riaprivano; la novità era l’edizione fatta di fresco delle poesie di Giacomo Leopardi. Io ne andavo pazzo, sempre con quel libro in mano. Conoscevo già la canzone sull’Italia. Allora tutto il mio entusiasmo era per Consalvo e per Aspasia. Avevo preso lezione di declamazione dal signor Emanuele Bidera, che aveva stampato sopra la sua arte un volume, zeppo di particolarità e minuterie. Io era tra’ suoi scolari piú diligenti, e quando c’era visita di personaggi, il primo chiamato ero io. “Fatevi avanti, signor De Sanctis, declamatemi l’Ugolino”. Quello lí era il mio Achille. E io, teso e fiero, trinciando l’aria con la mano diritta, cominciavo: “La testa sollevò…” Non mancavano i battimani; ma un uomo di spirito mi disse: “Piangete troppo”. Ricordo il motto, non ricordo la persona. Ed era un motto vero. Io peccavo per eccesso, volendo accentuare tutto e imitare tutto, suoni, immagini, idee. Consalvo mi fece dimenticare Ugolino. Lo andavo declamando anche per via, e parevo fin ebbro, come Colombo per le vie di Madrid, quando pensava al nuovo mondo. Lo declamavo in tutte le occasioni, e mi c’intenerivo. Sovente lo declamai in casa Fernandez, e mi ricordo che, per un delicato riguardo alle signorine, dove il poeta diceva “bacio”, io mettevo “guardo”.
Poco poi seppi che il gran poeta era morto. Come, quando, dove non si sapeva. Pareva che un’ombra oscura lo avvolgesse e ce lo rubasse alla vista. Le immaginazioni, percosse da tante morti, poco rimasero impressionate da quella morte misteriosa.