Il dadaismo
Tristan Tzara diede dei suggerimenti precisi per comporre una poesia: “Prendete un giornale e un paio di forbici. Scegliete un articolo e ritagliate tutte le parole che lo compongono. I ritagli ottenuti da queste parole vanno messi in un sacchetto e mescolati. A questo punto tirate fuori le parole dal sacchetto e copiatele su un foglio di carta nell’ordine in cui le avete pescate e otterrete la vostra poesia. Non vi preoccupate se le parole non hanno un legame logico: ciò che conta è che abbiate espresso la vostra creatività in modo originale”. Questo era il dadaismo, parola dall’intonazione infantile che esprime un chiaro nichilismo semantico, attorno a cui convennero gli sforzi di decine di artisti che puntarono ad infrangere la logica con un movimento iconoclasta incentrato sul nonsense.
La Svizzera, all’inizio delle ostilità della Grande Guerra, si ritrovò invasa da rifugiati provenienti da tutti i paesi belligeranti, pacifisti, comunisti, transfughi dell’espressionismo tedesco e del futurismo. Tra questi c’era il filosofo Hugo Ball. Amico di Kandinsky e Klee, renitente alla leva, anarchico cristiano, espressionista e appassionato di Bakunin e Nietzsche, Ball aveva partecipato agli esperimenti del Blaue Reiter di Monaco di Baviera. La sua critica travolgeva la cultura a tutto tondo, intesa come strumento di dominio ed era convinto della funzione coercitiva del linguaggio e del dovere di distruggerlo. Sul finire del 1915, volle intessere una rete di intelletti in rivolta contro i concetti d’arte e letteratura impregnati di quei stessi valori che avevano condotto il mondo in guerra. Gli si affiancarono Huelsenbeck, poeta e scrittore antimilitarista, il pittore espressionista Richter, già animatore del gruppo Die Akton, e Serner, scrittore austriaco, direttore della rivista Sirius. Fu così che aprì il Cabaret Voltaire all’angolo tra la Niederdorfstrasse e la Spiegelgasse, nel quartiere più malfamato di Zurigo. Al Voltaire si recitavano poemi, si evocavano canti indigeni, si esponevano tele di Picasso, Marinetti e Cangiullo, c’erano critica, musica, provocazione, pittori, scultori e poeti, Marcel Janco, Tristan Tzara, Hans Arp, Marcel Slodki. Arp coi suoi collage si staccò completamente da ogni scuola, forse per primo. Gli altri continuarono ad avere i loro modelli. Janco, per esempio, lavorò a rilievi in gesso ispirati al cubismo e Richter dipinse quadri espressionisti. Nonostante questo Ball riuscì a dare voce ai concetti rivoluzionari di spontaneità creativa e primitivismo, riuscì a concretizzare l’opposizione alla nozione di gusto e di fabbricazione di arte, e tutto questo lo chiamò Dada, una parola senza significato, che sfugge con ironia alla prigione del linguaggio convenzionale.
Tuttavia il filosofo si allontanò progressivamente dal movimento. La ragione di ciò fu l’emersione di una personalità forte, quella di Tzara, che egli accusava di ridurre dada ad antiarte fine a se stessa. Su questa lunghezza d’onda s’era posto pure Picabia che, dopo un soggiorno di due anni negli Usa, si era stabilito in Svizzera col pretesto di sottoporsi ad una cura di disintossicazione etilica, ma soprattutto per non essere richiamato in servizio dall’autorità militare. Ball alla fine mollò e Tzara, libero dalla sua moderazione e col sostegno dell’amico, si lanciò nella redazione del Manifesto intorno al quale convennero un nuovo gruppo di artisti fino ad ora rimasti in ombra: Friz Baumann, Walter Serner, Augusto Giacometti. Le iniziative dadaiste continuarono con maggiore aggressività iconoclasta in una nuova sede, la Galleria Dada, che ospitò mostre di assemblages polimetrici casuali di Arp, esposizioni di costruzioni tridimensionali e schadografie di Christian Chad, ma anche quadri di Klee, Modgliani e De Chirico. Il numero 4-5 di Dada presentò i nomi pure di Breton, Aragon, Soupault, Radiguer, Cocteaur, Reverdy, ma il gruppo non era affatto così unito. Arp e Janco fondarono l’Associazione degli Artisti Rivoluzionari, Tazara invece si tenne lontano da ogni esplicito impegno politico.
Fu la fine della Grande Guerra a distruggere il nucleo creato da Ball. Gli artisti del circuito dadaista si sparsero in tutta Europa. Hulsenbeck tornò a Berlino, dove Dada divenne un linguaggio della lotta comunista, Arp finì a Colonia, Tzara e Picabia si ritrovarono a Parigi.
Il dadaismo berlinese, con l’adesione di Raul Hausmann, Franz Jung, George Grosz, Willand Herzefeld, John Heartfield e Hannah Hoch, si orientò al comunismo radicale e si scagliò contro il governo socialdemocratico di Weimar, abbracciando prospettive di tipo sovietico. Tutto ciò trovò espressione evidente in un manichino esposto alla prima fiera Dada, il 15 giugno 1920, raffigurante un ufficiale tedesco “impiccato dalla rivoluzione” con, sotto l’elmetto, una testa di maiale. A Colonia, invece, Arp portò le sue ricerche ortometriche, guidate dal caso. Lasciava cadere dei pezzi di carta colorata su una tela e ne accettava la disposizione naturale, dando vita ai suoi quadri. Non mancarono legami con la sinistra rivoluzionaria, ma non furono forti come a Berlino. I dadaisti qui guardarono principalmente alla psicologia e a Freud per scomparire dopo una manifestazione dell’aprile 1920 precipitata in disordini.
Nel frattempo a New York il movimento, nato dall’influenza di Duchamp e Picabia nell’estate del 1915, s’era riunito attorno al fotografo Alfred Stieglitz.
Duchamp coi suoi ready-mades, oggetti d’uso comune innalzati alla dignità d’opera d’arte, aveva orientato l’intero dadaismo americano ad un attacco al prestigio della pittura da cavalletto, il suo intento era quello di “sottrarsi all’intossicazione da trementina”, alle speculazioni dei mercanti. Picabia, invece, propose il tema del rigetto del culto degli automi con raffigurazioni di elementi meccanici eseguiti con glaciale precisione da ingegnere. I due artisti ispirarono Charles Demuth, Joseph Stella, Jean Crotti, Morton Schamberg, John Covert e Arthur Dave. Su tutti, però, si distinse Man Ray, il più originale.
Quando Duchamp, però, si vide respingere dal Comitato degli Indipendenti un orinatoio battezzandolo Fontana in quella che doveva essere la sua prima esposizione, si dimise. Ne nacque una dura polemica che precisò meglio i contenuti del dadaismo. Non si trattava solo di arte moderna, dada voleva rimettere tutto in discussione, voleva distruggere il ruolo tradizionale dato al pittore come al poeta e ridicolizzare l’importanza a cui era stata innalzata la tecnica. Duchamp migrò a Parigi con Ray, Picabia li seguì e dada scomparve dagli Usa come era scomparso da Zurigo.
A Parigi nel 1920, Tzara e Picabia presentarono al pubblico un evento organizzato con Breton e Aragon. Tutti restarono disorientati, doveva essere una conferenza sulla svalutazione del franco, ma era un concentrato di arte, provocazioni e contraddizioni. Il superamento della tradizione “psico-plastica” fondata sul principio dell’imitazione della realtà, la ricerca di una nuova forma espressiva, di una nuova scrittura, dada era questo. Voleva tagliare ogni legame con ciò che era esistito, fracassare ogni tradizione, sovvertire gli schemi, superare gli stili, rigettare ogni principio di estetica, ironizzare, provocare, dare scandalo. La verità per i dadaisti era semplice: l’arte non poteva più rappresentare la bellezza perché essa era ormai morta.
Prima che si aprisse la frattura tra Breton, destinato al surrealismo, e Tzara, impaludato nell’intendimento di distruggere e basta, Dada trovò la sua opera chiave in Regalo di Many Ray: un ferro da stiro in ghisa, trovato da un rigattiere, al quale l’artista applicò una striscia di quattordici chiodi, modificandone la naturale funzione allisciante. Il ferro da stiro divenne qualcosa di diverso, un nuovo oggetto con una nuova destinazione d’uso. È un dono ma anche un oggetto di tortura, la sua apparenza è così aggressiva e inquietante che è contraria al piacere che dovrebbe dare un regalo. I chiodi e il ferro da stiro uniti congiungono vanità e bellezza in un oggetto inutilizzabile, un dono inservibile che anziché lisciare le pieghe, distrugge il vestito. Il ferro da sito diventa un oggetto capace di ferire, di distruggere, l’associazione inquietante col mondo del lavoro. Many Ray, più i rayogrammi, le solarizzazioni, le sovrimpressioni, i montaggi, fornì ai dadaisti il più celebre esempio di “giustapposizione sintagmatica”, metodo di creazione con cui gli oggetti vengono associati senza nesso logico.
Autore articolo: Angelo D’Ambra