Il partito liberale napoletano nel 1860

Alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento v’era ancora forte un partito costituzionalista napoletano che non era stato spazzato via nella repressione dei moti del 1848-49.

Questi esponenti borbonici liberali si muovevano negli spazi politici ancora accessibili rappresentati dagli stessi istituti regi, le società economiche, l’Istituto di Incoraggiamento. Decisi a favorire un processo riformista che avrebbe traghettato il Regno delle Due Sicilie verso quella modernità economica e civile che si andava configurando all’estero, i borbonici liberali si fecero rappresentanti di disegni di modernizzazione produttiva che coinvolgevano il settore agrario, quello manifatturiero, quello creditizio. Una politica riformista fatta di piccole richieste raramente però accettate dal governo borbonico.

Essi provarono a interagire con esponenti della famiglia reale sensibili a certe istanze. Ad eccezione di Carolina, divenuta Duchessa di Berry, infatti, Ferdinando II era del tutto isolato nella sua famiglia per le sue posizioni accentratrici. Il re era circondato da fratelli con simpatie costituzionali: Carlo Ferdinando, Principe di Capua, liberale, si sposò senza il consenso regale e finì i suoi giorni presso la corte sabauda a Torino; Leopoldo, Conte di Siracusa, rimproverò apertamente sia Ferdinando che Francesco II per le politiche ostili al processo unitario; Luigi, Conte di Aquila, liberale, sebbene ostile a Garibaldi, fu spedito in esilio dal nipote Francesco II. A quanto pare la stessa Maria Sofia palesò idee liberali chiedendo più volte al suo regale consorte di proclamare la costituzione, ma il re accettò tali consigli solo quando ormai era troppo tardi.

Una delle poche innovazioni concesse da Ferdinando II fu l’istituzione di un orto sperimentale. Tale realtà, con la solita lentezza amministrativa, fu approvata nel 1840 ma nacque solo nel 1856. L’orto sorse lungo la strada per Santa Maria Capua Vetere e Capua, accanto al palazzo reale e all’ospedale militare in costruzione, e con esso la Società Economica di Terra di Lavoro promosse nuove colture e concimi chimici. Fu questa la sola concessione. La stessa società si vide respingere una richiesta di istituzione della Cassa di Risparmio e pure un progetto di ampliamento dell’istruzione primaria (A. Marra, La società economica di Terra di Lavoro).

L’area borbonica liberale non era ancora unitarista, si scontrava con i timori ed i sospetti delle autorità borboniche, col rafforzarsi di un ambiente poliziesco e ostile, con iter burocratici le cui lungaggini erano ora divenute scudo protettivo per i Borbone. Da privati cittadini e dai consigli provinciali partivano richieste di strade, di ponti, di istituti di credito, di ristrutturazioni dei porti. Le risposte tardavano ad arrivare e, quando giungevano, erano spesso negative o chiedevano ragguagli dilatando ulteriormente i tempi. E’ così che nei dizionari finì il termine “borbonico” come sinonimo di “lento”.

Nella difficoltà del dialogo, nasceva la sfiducia verso i sovrani arroccati in un orizzonte refrattario ad ogni cambiamento. Quell’architettura istituzionale di tipo assolutistico delle Due Sicilie restava vecchia nel contesto europeo fatto ormai di monarchie tutte costituzionali e parlamentari, come quel sistema produttivo ancora legato a manifatture non meccanizzate. Così, lentamente, i borbonici liberali iniziarono la loro trasmigrazione politica nelle fila mazziniane o murattiane e più tardi sabaude. Ancor più dopo i successi diplomatici e militari di Cavour e della Seconda Guerra d’Indipendenza, i liberali delle Due Sicilie si sentirono attratti ad una conversione unitaria prima impensata.

In merito al ruolo giocato dal partito borbonico liberale nel Risorgimento, Eugenio di Rienzo scrive in L’Europa e la questione napoletana: “Fino a Ferdinando II, la corte di Napoli si rifiuterà ostinatamente di ancorare la sopravvivenza della dinastia e del Regno a una riforma di carattere costituzionale, respingendo sia il programma di chi vedeva in quel cambiamento il primo passo per riunire la «patria napoletana» alla «patria italiana», sia il progetto di quanti, come Luigi Blanch, Giuseppe e Carlo Poerio, esponenti del partito liberale napoletano non unitario, tentarono di preservare e di rafforzare l’identià nazionale dello Stato borbonico sostituendo al binomio Nazione-Regnum quello di Nazione-Costituzione”.

Se figure come Luigi Settembrini e Pasquale Stanislao Mancini risultano da sempre legate all’ideale unitario ed antiborbonico, i borbonici liberali rappresentarono un partito denso e silenzioso per la sua stessa linea moderata. Vi possiamo annoverare:  Ferdinando Palasciano, chirurgo militare che partecipò alla riconquista della Sicilia nel 1848-1849, poi chirurgo dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli; Leopoldo Pilla, professore di Mineralogia all’Università di Napoli; Giulio Minervini, direttore del Bullettino archeologico napoletano; Giustiniano Nicolucci, antropologo del Collegio Medico di Napoli; l’avvocato Giuseppe Maria Bosco che lasciò l’incarico di magistrato alla caduta del governo liberale del 1849; il giurista Lelio Maria Fanelli, direttore del giornale “L’Epoca”; Francesco Feniziani, agronomo decorato con due medaglie d’argento per le sue scoperte; Giacomo Gallozzi, amministratore dell’ospedale civico di Santa Maria Capua Vetere.

L’obbiettivo dei borbonici liberali era la formazione di un parlamento che servisse a mitigare il ruolo di Napoli, capitale capace di assorbire tutte le risorse dalle province: “La riforma costituzionale propugnata da questi ultimi – continua Eugenio di Rienzo avrebbe, infatti, dovuto assicurare, attraverso la concessione di una rappresentanza nazionale, la nascita di una camera di compensazione tra le istanze delle province e le oppressive prerogative della capitale (fortemente stigmatizzate già da Giuseppe Maria Galanti nel 1781), che le strutture dello Stato amministrativo borbonico non avevano saputo garantire, impedendo l’allargamento di quella frattura tra centro e periferia e tra i domini continentali e la Sicilia, che le crisi rivoluzionarie del 1820-21 e del 1848-49 avevano drammaticamente evidenziato e che avrebbe condotto, nel 1860, all’implosione del Regno”.

Questo partito accolse con costernazione le notizie dei successi militari sabaudi nel Nord dell’Italia perchè ravvide in essi i prodromi della conquista del Regno delle Due Sicilie: “Molto indicativo del carattere «nazionale-napoletano», che contraddistingueva il credo politico dei liberali non unitari, i quali fino all’estate del 1859 rimasero fedeli alla causa del Regno e al legittimo sovrano, fu il profondo sgomento che, secondo la testimonianza dei rappresentanti dell’Austria e del Regno Unito a Napoli, colse i membri di questo partito alla notizia della definitiva vittorio delle armi franco-sabaude nella pianura padana. Secondo il barone, Joseph Alexander von Hubner, incaricato da Vienna di offrire la sua collaborazione a Francesco II nell’opera di governo, quella vittoria fu considerata dai seguaci di Poerio una notizia infausta perchè apriva la strada «conquista del sud» da parte del Regno di Sardegna, ormai divenuto la «Puissance preponderante parmiles Etats italiens», in grado quindi di realizzare, a danno degli altri Stati della Penisola, il «progetto di ingrandimento egoistico perseguito dalla Corte di Torino».

Non mancò tra essi chi, nel 1860, si risolse di seguire Francesco II, ed anzi si mostrò più duro nel contrasto ai garibaldini ed ai repubblicani. E’ attribuito infatti a settori borbonici liberali l’Appello di Salvezza Pubblica rivolto a Francesco II, col quale si chiedeva la rimozione di Liborio Romano: “Il vostro Ministero tutto intero vi tradisce: i suoi atti ne fanno fede; le sue relazioni coi Giudi e Pilati lo attestano. Che il vostro Ministero sia dunque sciolto e surrogato da uomini onesti e devoti alla vostra Corona, ai vostri Popoli ed alla Costituzione”. Vi si legge: “Quando la patria è in pericolo; il Popolo ha il diritto di domandare al suo Re di difenderlo, perché i Re son fatti per i Popoli e non i Popoli per i Re. Noi dobbiamo loro ubbidire, ma essi debbono sapere difenderci; e per questo Iddio loro ha dato uno scettro ed una spada. Oggi, o Sire, il nemico è alle nostre porte; la Patria è in pericolo. Da quattro mesi, un avventuriere, alla testa di bande reclutate in tutte le nazioni, ha invaso il Regno, ed ha fatto scorrere il sangue dei nostri fratelli. Il tradimento si alcuni miserabili l’ha aiutato; una diplomazia, più miserabile ancora, l’ha secondato nelle sue colpevoli intraprese. Fra giorni, questo avventuriere c’imporrà il suo giogo odioso: perché, i disegni, li conosciamo tutti; e Voi ancora, o Sire. Quest’uomo, d’altronde, non ne fa alcun mistero: sotto pretesto di unificare quel che non è stato mai unito, egli vuole farci piemontesi, per meglio scattolicarci e quindi stabilire un governo repubblicano sotto l’odiosa dittatura di un Mazzini, di cui sarà egli anche è il braccio e la spada…”. L’appello si concludeva coi motti: “Viva il Re nostro, Francesco II! Viva la Patria! Viva la Costituzione, Viva la brava Armata napoletana!” (A. De Francesco, La rappresentazione della Spagna nella cultura napoletana tra rivoluzioni e Restaurazione).

Impossibile poi, tra i borbonici liberali, non ricordare quanti seguirono sino alla fine il re Francesco II, come per esempio di Pietro Calà Ulloa, assertore di una restaurazione borbonica costituzionale nell’ambito di una confederazione di stati italiani; non mancò neppure chi restò deluso dall’Unità, parliamo di Francesco Proto, Duca di Maddaloni, liberale nel 1848, spedito in esilio da Ferdinando II, poi parlamentare del Regno d’Italia assertore di un forte autonomismo meridionale; furono però pochi.

Quando Garibaldi mise piede in Sicilia fu impossibile arrestare la travolgente attrazione dei liberali meridionali verso il progetto annessionistico del Regno di Sardegna, che un Parlamento ed uno Statuto li aveva dal 1848. A nulla valse la svolta costituzionale di Francesco II, sincera o meno che fosse, né l’adozione del tricolore. La sfiducia con cui il giovane re si misurò era maturata in almeno quindici anni di chiusure e repressione. Mentre l’esercito borbonico indietreggiava sino al corso del Volturno, i liberali meridionali fecero nella stragrande maggioranza dei casi atto solenne di adesione al governo di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi, converiti completamente all’idea unitaria.

 

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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