Il pensiero di Filippo Buonarroti

Quello che segue (tratto da A. Saitta, Filippo Buonarroti, Roma 1951) è un brano della difesa di Filippo Buonarroti al processo che lo vide implicato come congiurato accanto a Babeuf. In essa sono esposti i motivi del suo abbandono dell’Italia ed i suoi ideali.

 

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Era sotto il dispotismo più duro che il mio animo si nutriva nel silenzio dei pensieri della libertà. Rosseau fu il mio maestro. I dogmi dell’eguaglianza e della sovranità popolare infiammarono il mio spirito. Fin da allora io evvi la profonda persuasione che fosse dovere di un uomo da bene concorrere al rovesciamento del sistema sociale che opprime l’Europa civile per sostituirvi un ordine conservatore della dignità e della felicità di tutti.

Io credo necessario di mettere sotto i vostri occhi gli elementi della mia dottrina morale e politica, nel momento in cui io accorsi in Francia ad abbracciare la causa della rivoluzione… Riduco questa dottrina alle seguenti massime generali:

  1. Il silenzio certo dell’Essere terno, i cui attributi sono un problema, ci fa un dovere di cercare nelle leggi della nostra organizzazione le regole della nostra condotta.
  2. La felicità è il bisogno di tutti: la felicità è dunque la condizione essenziale di ogni società.
  3. La felicità si compone necessariamente di certe azioni: le facoltà corrispondenti sono dunque i diritti naturali ed imprescrittibili ai quali nessun patto sociale può derogare.
  4. La conservazione della felicità è la legge sociale. L’intelligenza che ne indica i mezzi non può essere che quella di tutti: giacché se alcuni ne fossero esclusi, il suo scopo non sarebbe che la felicità di una parte; il popolo è dunque il sovrano; esso solo ha il diritto di dare delle leggi alla società.
  5. Le determinazioni pubbliche si avvicinano di più alla felicità sociale, a misura che ogni volontà individuale conserva un peso più eguale nella formazione della volontà generale. L’esclusione di alcuni membri, la loro dipendenza, il loro avvilimento o la loro ignoranza forzata distruggono il vero ordine sociale.

E’ per aver disconosciuto queste leggi che un piccolo numero di uomini si è impadronito dei beni, dei lumi, della considerazione e del potere. E’ questa la causa del dispotismo dei re, dei grani, dell’avarizia e dell’orgoglio, che fanno la desolazione del globo.

Il dovere dell’uomo giusto, che vuol fare agli altri ciò che egli vorrebbe venisse fatto a lui, è di lavorare a ricondurre per mezzo dell’eguaglianza il regno del vero sovrano. Egli deve dunque combattere la forza, smascherare l’astuzia, e soprattutto illuminare l’ignoranza.

Io conformavo la mia condotta a questi principi e ne ricevevo, in ricompensa, l’odio e la persecuzione dei grandi quando la rivoluzione francese scoppiò.

La sua impetuosità scosse i troni, stupì la moltitudine, e fece rilucere un raggio di speranza nell’anima di un piccolo numero di amici della disgraziata umanità.

Io divoravo le notizie di Francia; confrontavo i discorsi dei patrioti dell’assemblea costituente con i precetti di Gian Giacomo e mi dicevo: E’ proprio vero che comincia il regno della giustizia?

Attendevo da lungo tempo il segnale, esso fu dato. Alcuni articoli della prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino confermarono le mie speranze e finirono di infiammarmi… Non mi occorse di più per convincermi che tutti gli animi penetrati dei doveri che li legano all’umanità erano chiamati a lavorare efficacemente al suo affrancamento. Giurai di difendere la libertà. Abbandonando famiglia e beni, mi trasferii presso i Corsi, vicini del mio paese natale, famosi per la loro antica e perpetua lotta contro l’oppressione.

 

 

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