Il re carlista Carlo VII a Palazzo Loredan

Venezia dopo la terza guerra carlista divenne definitivamente il quartier generale del tradizionalismo ispanico, Carlo Maria – senza considerare i suoi innumerevoli viaggi per il mondo – la prese stabilmente a sua dimora e a Palazzo Loredan allestì la sua reggia-museo, con le bandiere del movimento e i cimeli di guerra. Egli viveva secondo il cerimoniale spagnolo e sul tetto dell’edificio sventolava il vessillo del suo paese. Il monarca era un uomo prestante: figura imponente, spalle larghe, folta barba bionda, sguardo magnetico; si integrò perfettamente nella vita cittadina e prese contatto con i cattolici intransigenti che animavano il Veneto con le loro polemiche contro i liberali, continuando a rifiutare il tricolore: essi riconoscevano in lui l’ultimo paladino dell’Europa cristiana. Sua moglie, la regina Margherita, gli era sempre stata vicina durante l’ultimo conflitto, curando i feriti, visitando gli ospedali e gli accampamenti.

Carlo VII era il portastendardo della reazione, ma essere tradizionalista non significa affatto essere retrogrado; nel 1881 tra i canali veneziani fece il suo ingresso il primo vaporetto, il Regina Margherita: da casa sua il re di Spagna lo vide certamente solcare il Canal Grande e non tardò a comprarsi egli stesso un motoscafo.

Nel 1883 a Palazzo Vendramin morì Wagner, invitato dal conte di Chambord. Durante la sua ultima permanenza nella città lagunare il musicista aveva adornato le sue stanze di stoffa cremisi e si era procurato la storia di Venezia scritta da Pierre Daru (1767-1829), il calunniatore della Serenissima, che però – incredibilmente – gli aveva fatto perdere i suoi pregiudizi verso il vecchio governo veneto. Il destino volle che l’artista tedesco dovesse morire proprio nella ex Dominante, il 13 febbraio 1883. Nel romanzo Il fuoco (1900) D’Annunzio volle descrivere così il suo funerale: «La barca funebre attendeva dinanzi alla porta. Su la cassa fu distesa la coltre. I sei compagni attesero a capo scoperto che la famiglia discendesse. Discese, insieme stretta. La vedova passò la velata; ma lo splendore della sua sembianza era nella memoria dei testimoni per sempre. Il corteo fu breve. La barca mortuaria andava innanzi; seguiva la vedova con i cari; poi seguiva il drappello giovenile. Il cielo era ingombro su la grande via d’acqua e di pietra. L’alto silenzio era degno di Colui che aveva trasformato in infinito canto per la religione degli uomini le forze dell’Universo». Privatamente l’inimitabile scrittore lasciò credere ai suoi ammiratori di essere stato presente alla cerimonia, ma ciò pare non corrispondere al vero, egli infatti visitò Venezia per la prima volta nel settembre del 1887. Fu una licenza poetica, un tributo o forse il desiderio di mettersi in mostra? Forse che sì, forse che no.

Il 24 agosto 1883 morì anche il conte di Chambord e i legittimisti francesi proclamarono re di Francia Giovanni III che, quando venne a mancare, il 18 novembre 1887, trasmise il titolo al suo erede, Carlo VII.

Ormai Don Carlos era ben conosciuto a Venezia, era stimato per le opere di bene e lo si vedeva spesso in piazza San Marco con il suo grande cane danese, in compagnia di qualche gentiluomo carlista. Non viveva affatto isolato ed anzi, insieme a suo figlio Don Jaime (1870-1931), frequentava le feste che si tenevano a Palazzo Barbaro e in altri luoghi di ritrovo della crème cittadina. Proprio mentre si trovava in compagnia, in un contesto simile, il re fu turbato dalla notizia dell’improvvisa scomparsa dell’Arciduca Rodolfo “per apoplessia”: fu un dolore molto forte, Carlo si congedò subito dai convitati e si ritirò a casa sua. Il giovane Rudolf era spirato il 30 gennaio 1889, la faccenda non fu chiara per diversi giorni, ma in realtà, come è noto, si era trattato di un suicidio.

Il 29 gennaio 1893 scomparve la prima moglie di Carlo VII, Margherita, e, il 28 aprile dell’anno successivo, egli convolò a nozze con Berta de Rohan (1860-1945), donna bellissima, ma contraria alla causa carlista.

Il 16 maggio 1894, durante una visita a Don Carlos, il reverendo José Espinós celebrò la Santa Messa nella cappella di Palazzo Loredan, avendo come accolito il capitano generale Rafael Tristany (1814-1899).

Nel 1896, nella sua residenza veneziana, il re riunì i capi del Carlismo e i suoi principali teorici per stendere un nuovo programma aggiornato: l’Atto del Loredan (1897), cioè un’attualizzazione della dottrina che però si manteneva perfettamente coerente alla linea storica del movimento. In quello stesso anno, il numero del 26 giugno 1897 del giornale barcellonese Lo Mestre Titas, nella cronaca, ci informa che «Donya Maria Berta, esposa de Don Carlos» mandò in regalo da Venezia una bellissima casula per il santuario della Vergine di Montserrat, “La Moroneta”, che l’11 settembre 1881 Papa Leone XIII aveva dichiarato patrona della Catalogna.

Il Carlismo coltivava ancora il desiderio di riportare sul trono il re legittimo, ma «il suo principale ostacolo si trovava a Venezia» evidenzia Melchor Ferrer (1888-1965) nella sua Breve storia del Carlismo (1958, la traduzione italiana è stata recentemente pubblicata dalle edizioni Solfanelli), «dove Don Carlos era dominato da Donna Maria Berta». Fu lei, nel 1900, a convincere suo marito a distruggere l’intero archivio di Palazzo Loredan, poiché, a parer suo, non raccoglieva che carte di poco valore, «conti della serva».

Nel 1902 Carlo VII protestò contro l’ascesa al trono di Spagna del diciottenne Alfonso XIII (1886-1931) e sulla scia di alcune sollevazioni, deciso a dare subito man forte ai suoi, tentò di portarsi in Spagna per guidare una nuova guerra contro i liberali. Tuttavia il progetto fallì, la polizia francese lo identificò e lo rimandò in Italia, ma non bastò questo a farlo desistere dal suo intento. Nel numero di dicembre del 1906, la cronaca estera del mensile musicale Ars et Labor, redatta dal giornalista liberale Francesco Giarelli (1844-1907), riporta notizie molto significative (tralasciando la punteggiatura un po’ arruffata): «in Spagna un Borbone – anzi il capo supremo di tutta la Borboneria primogenita – vede il proprio partito agitarsi nella Catalogna, nell’Aragona e nei Paesi Baschi. Questo è. Mentre il giovinetto e geniale Alfonso XIII re, con esempio novo nel suo ambiente dinastico e conservatore, consacra alle riforme liberali il tempo che gli avanza alle letizie trepidanti pel suo felice maritaggio colla vezzosa ed anglo-tedesca principessa di Batenberg [sic] – i blancos di Don Carlos, il cinquantottenne Duca di Madrid, che è l’aspirante perpetuo al diadema di Carlo V e di Filippo II – minacciano una nuova levata di scudi, e la giustificano come loro reazione contro la politica anticlericale dei ministri di re Alfonso, i quali tentano di emanciparsi dalle vecchie convenzioni col Vaticano. Ora, narra il corrispondente – legittimista per la pelle – dalla Biscaglia al Figaro “è arrivato il momento d’agire per i lealisti spagnuoli, i quali hanno ancora intiera la religione dei loro vecchi re per diritto divino: obbediscono ai comandamenti della Chiesa e venerano il Santo Padre. Essi sanno che più favorevole occasione della presente essi non potrebbero avere. La rivoluzione atea ed antireligiosa non è fatta per le nobili anime spagnuole. Ed i prodi montanari baschi sono pronti al primo cenno che loro farà chi solo ha diritto di farlo. La nostra fede è insieme il nostro patriottismo. È stata la prima, fusa nel secondo, che spinse i padri nostri a liberarsi dai mori miscredenti. Ebbene, collo stesso eroismo combatteremo anche codesti miscredenti indigeni che vorrebbero scattolizzare la nostra patria gloriosa. Noi siamo i pronipoti dei soldati di Lepanto, e là vincemmo, benedetti dal Pontefice. Noi siamo i figli dei combattenti contro Napoleone, seguendo i nostri monaci, issanti la Croce. Noi siamo i superstiti delle giornate di Durango e di Estella, allorché trent’anni or sono, sventolando la candida bandiera, innalzata dal prete D’Erdavide e dal ‘Cura de Santa Cruz’ vedemmo impallidire le truppe di Martinez Campos [1831-1900]. Voi vedete: oggi la religione per noi spagnoli non è soltanto una questione di coscienza, ma è la nostra anima, la nostra forza, la nostra salvezza nazionale. Re Alfonso XIII, prode e generoso, è illuso, è ingannato dai suoi consiglieri. Inconsciamente, egli conduce il popolo suo alla republica. Ma la Republica il popolo non la vuole. Non basta dunque più essere conservatori. Dobbiamo scendere all’azione. E l’azione rimetterà a capo della patria il vero e l’autentico suo re, Don Carlos. E dalle montagne Biscagline e dalle valli di Guipizcoa brillano già i fuochi del bivacco dei primi insorgenti!” Senza dubbio, la concione è imbottita di retorica. Il vecchio Hidalgo fa assai a buon mercato colla realtà positiva delle cose. Ma pur facendo la tara a tutte queste esagerazioni enfatiche – non è possibile negare che il Carlismo vuole rialzare il capo. Forse lo stesso Pretendente che resta chiuso in un misterioso silenzio nella solitudine del suo palazzo Loredan in Venezia – non è ottimista come il suo bellicoso proselite che scrive al Figaro. Ma al postutto l’ombra della reazione legittimista principia a reingombrare le provincie nordiche della Spagna. Ed i ministri di re Alfonso faranno ottima cosa a non perder d’occhio gli armeggiamenti del Carlismo; il quale se oggi è ancora in semplice fermento – può, domani, trasformarsi in serio conflitto». Nelle regioni citate, il legittimismo, inscindibile dalle richieste di autonomia, continuava a raccogliere forti consensi. Il secessionismo catalano e quello basco – i cui tremendi strascichi perdurano sino ai giorni nostri – sono fenomeni di natura etnonazionalista sorti come degenerazioni tardo-ottocentesche del Carlismo: i requetés, anti-assolutisti, anti-centralisti, anti-nazionalisti e difensori della Spagna forale, unita nella sua «federazione storica», si opposero subito a queste tendenze incomprensibili.

Nei primi del Novecento, acquistando il vendutissimo volume Venice di Augustus J. C. Hare (1834-1903), un turista curioso avrebbe potuto leggere: «We now pass the Palazzo Loredan. Don Carlos (Charles VII.) of Spain inhabits the palace, where his arms appear over the door, and the palli are painted red and yellow, the Spanish colours».

Nelle fotografie scattategli poco prima della morte, Carlo VII appare ancora in gran forma, ma la sua salute si stava indebolendo, spirò a Varese il 18 luglio 1909 e venne sepolto nella Cattedrale di San Giusto, a Trieste, che raccoglie le spoglie dei membri della famiglia reale proscritta. Sua moglie Berta vendette Palazzo Loredan, si trasferì all’Hotel Excelsior del Lido e dopo la sua morte (19 gennaio 1945) tutto il tesoro del “museo” di suo marito finì all’asta e andò disperso: il tempo del “Carlismo veneziano” era finito per sempre.

Con la perdita di Don Carlos, il tradizionalismo affrontò dei momenti difficili, ma la successione passò poi a suo figlio Don Jaime, che aveva lo stesso carisma del padre, ma rifiutava la possibilità di iniziare una nuova guerra sul suolo spagnolo. Costui morì senza figli, il 2 ottobre 1931, e gli successe lo zio Alfonso Carlo (1849-1936), Duca di San Jaime, che era stato zuavo pontificio. Il nuovo re era già in età molto avanzata, ma i carlisti, uniti come una famiglia, gli volevano bene, essi ricordavano ancora il coraggio di sua moglie, l’infanta Maria de las Nieves (1852-1941): l’avevano vista cavalcare alla testa dei requetés, portando sul capo una boina bianca.

Da molti anni solo un numero ristretto di veneziani è a conoscenza del legame tra la propria città e il Carlismo, uno di questi fu il compianto Alvise Zorzi (1922-2016), il quale però espresse pareri molto negativi sul movimento tradizionalista. Nel suo volume Canal Grande (1991) egli riconobbe la terza guerra carlista come la più intensa tra le carlistade: «era durata quattro anni, c’erano stati innumerevoli episodi di lotta partigiana e anche battaglie campali, eroismi d’ambo le parti e orrori d’ogni genere, quanto bastava per affascinare i narratori del secolo successivo […], dallo spagnolo Ramón María del Valle Inclán [1866-1936] al francese Pierre Benoît [1886-1962]».

Lo scrittore veneziano si interrogò anche sul destino del Carlismo nella sua epoca: «non è detto che a molte centinaia di chilometri da Venezia, in qualche remoto villaggio della Spagna moderna […] non sopravviva dimenticato, qualche remoto epigone, qualche superstite ancorato a ricordi crudeli e drammatici che vanno assai più indietro della guerra civile, che affondano nel secolo passato, ripetutamente sconvolto e insanguinato dalle periodiche ribellioni, anzi dalle guerre carliste».

Alvise Zorzi è stato indubbiamente uno dei più grandi conoscitori della città lagunare e il triste giorno della sua morte, avvenuta il 15 maggio 2016, Venezia è rimasta orfana di un narratore abilissimo, di cui, ad oggi, non si è ancora visto il degno successore. Va detto, però, che per quanto concerne la Spagna durante la fine del Novecento, il suo libro del 1991 è completamente disinformato: ai giorni nostri esistono circoli carlisti in tutte le maggiori città del paese (il più recente risulta addirittura inaugurato da pochissimo).

Solo qualche anno più tardi, nel 1995, uscì il libro I Borbone Parma e l’Europa. Storia intima e pubblica di una grande dinastia, traduzione di un saggio del giornalista Juan Balansó (1942-2003), che nelle sue ultime pagine – pur non senza errori – fece conoscere al pubblico italiano le vicende del Carlismo dopo la fine della Cruzada, descrivendone le dispute interne e spiegando che il movimento era stato in grado di formare una nuova generazione di docenti universitari di primo livello, pronti a proseguire le loro battaglie sul piano culturale.

Oggi, dal punto di vista architettonico, la reggia sul Canalazzo non è cambiata, ma è diventata una pinacoteca e non conserva più alcun ricordo del suo vecchio proprietario, el hombre de Loredan

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Riccardo Pasqualin, insegnante di materie umanistiche, si dedica allo studio della Storia Veneta e del legittimismo. Tra i suoi testi si può ricordare “Il paesaggio rurale storico nel Comune di Candiana” (2020).

 

N.B. Nella rivista Storia Veneta, l’autore del presente scritto ha pubblicato un altro testo dedicato al medesimo argomento (e corredato da un buon apparato iconografico), a cui si permette di rimandare: Riccardo Pasqualin, I Re carlisti a Venezia, in «Storia Veneta», N.° 56, aprile 2020, pp. 25-34.

Riccardo Pasqualin

Riccardo Pasqualin, insegnante di materie umanistiche, si dedica allo studio della Storia Veneta e del legittimismo. Tra i suoi testi si può ricordare “Il paesaggio rurale storico nel Comune di Candiana” (2020).

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