Il rogo di Primavalle

Quella notte del 16 aprile 1973 mia madre, Maria Teresa, aveva solo diciannove anni, e viveva, insieme ai genitori ed ai suoi due fratelli maggiori, in un appartamento delle case popolari di Via Angelo Mai, una traversa di Via Federico Borromeo – lo storico asse viario, da Piazza Clemente XI a Largo Federico Borromeo, intorno al quale si venne costituendo, nella seconda metà degli Anni Trenta, il primo, stabile nucleo abitativo popolare della vecchia Borgata Primavalle, come parte del ben più grandioso disegno urbanistico mussoliniano per Roma -; sulla medesima Via Borromeo, quasi all’altezza di Via Mai, affacciava pure Via Bernardo da Bibbiena, quindi mamma abitava a poche decine di metri in linea d’aria dall’appartamento, in tutto e per tutto simile al suo, nel quale viveva un’altra famiglia proletaria, i Mattei, padre netturbino (e segretario della piccola ma attiva sezione missina locale), madre casalinga e ben sei figli (dal più piccolo, Mario, di appena tre anni, al più grande, Virgilio, ventidue anni).

Mia madre, che non conosceva personalmente i Mattei, né ha un ricordo di loro, non si era mai occupata attivamente di politica, né del resto lo avrebbe fatto dopo, all’epoca poi, appena finita la terza media, era andata subito a lavorare, per contribuire quanto poteva al modesto bilancio familiare, eppure non ha mai dimenticato quella notte – rimasta ben impressa, del resto, a tutti i vecchi residenti di Primavalle, un quartiere notoriamente proletario e rosso – quando, intorno alle tre antimeridiane, un commando di tre giovani militanti della sinistra extraparlamentare, nel (presumibile) tentativo di “dare una lezione” a papà Mattei, in nome di una distorta e fanatica visione dell’antifascismo militante, aveva dato fuoco alla porta dell’appartamento popolare nel quale il Mattei viveva con tutta la sua numerosa famiglia, e l’incendio si era improvvisamente quanto rapidamente esteso; i Mattei riuscirono fortunosamente a salvare quattro dei sei figli, ma non Virgilio (venti anni) e Stefano (appena otto), rimasti soffocati nel vano tentativo di gettarsi a loro volta dalla finestra (come era invece già riuscita a fare, in precedenza, una sorella, rompendosi due costole e tre vertebre, ma sopravvivendo).

Per alcuni giorni un lenzuolo bianco coprì, pietosamente quanto vistosamente, quel davanzale annerito, luogo della atroce fine di quei due poveri giovani, i cui spietati assassini, protetti da vaste complicità politiche ed ideologiche – il famigerato Soccorso Rosso Internazionale, abbondantemente sostenuto da alcuni noti e facoltosi personaggi dello spettacolo e della cultura del tempo -, la fecero praticamente franca. Solo in anni molto recenti, una certa sinistra ha riconosciuto le proprie, gravissime colpe morali ed intellettuali, nell’aver a lungo disinformato su questo terribile delitto politico, giungendo finalmente ad una conclusione: l’antifascismo militante non può mai giustificare lo sterminio fisico dei familiari del proprio avversario politico.

Che Virgilio e Stefano possano almeno aver trovato la pace, ricordati come vittime di un odio spietato che, allora, purtroppo animò in tanti, spingendoli a commettere delitti anche più atroci di questo.

 

 

 

Autore: Claudio Carpentieri

 

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