Il secondo dopoguerra nel Meridione

Il secondo dopoguerra nel Meridione fu segnato dall’emigrazione, da controversi tentativi di industrializzazione e dalle rivolte del mondo contadino.

L’emigrazione

A Torino, migliaia di lavoratori arrivati dal Sud trovarono sistemazione negli ambienti più squallidi della periferia urbana ma anche negli alloggi del centro storico, suntuosi palazzi d’epoca adesso fatiscenti. Erano convinti di una cosa: “Torino è uguale Fiat”. Un assioma che accettarono tutti, il governo, i sindacati, i comunisti, i torinesi ed i meridionali stessi. L’atteggiamento dei torinesi era equilibrato o forse meglio dire ambiguo, “qualcosa che assomiglia al razzismo, ma in una struttura civile che esclude il razzismo”, scrive Giorgio Bocca. Era la Torino dei cartelli “Qui non si affitta ai meridionali”, delle scritte sui muri “Abbasso i terroni arabi”, dei negozi che a Pasqua e Natale auguravano “Buone feste ai piemontesi” e di chi non faceva “credito ai terroni”; era la Torino che si avviava lentamente a scoprire che quei “terroni” erano ottimi clienti, più onesti forse degli onestissimi torinesi, sicuramente erano lavoratori seri e disciplinati, di quelli che puntualmente sfilavano davanti all’orologio per timbrare il cartellino sotto lo sguardo vigile dell’impiegato del controllo. La città ne aveva bisogno.

L’industrializzazione

Erano gli anni dell’emigrazione e pure gli anni della spinta all’industrializzazione supportata agli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, gli anni della Monteschell a Brindisi, della Rasiom di Angelo Moratti ad Augusta, della Liquigas in Calabria, anni in cui si mormorava di “cattedrali nel deserto”, non si aveva ancora esattamente idea di cosa volesse dire “impatto ambientale” e le valanghe di denaro, che l’impianto petrolchimico di Gela e l’Italsider di Taranto portarono sottoforma di salari, misero a tacere chi si lamentava di inquinamento e calo del turismo.

Il mito di Capri

Il mito di Capri nasce forse alla fine della Seconda Guerra Mondiale? L’isola è un paradiso e sembra avere delle sue leggi, avulse dal resto del mondo: eccentricità e stravaganza sono la consuetudine in vesti e vestiario, l’estetica si sublima, nessuno controlla i centimetri dei bikini ed ogni vicolo pullula di neodandy e chic.

Totò portò lo sci-sci dei villeggianti in uno sketch del varità e poi anche in un film: “L’imperatore di Capri”.

Personaggi insoliti, bizzarri, estrosi, si ritrovano ad adulare Antonio De Fazio, finto Bey Khan di Agapur, uomo più ricco del mondo, in una serie di disavventure esilaranti che culminano con la riproduzione di una celebrazione di Tiberio, l’imperatore che sull’isola si fece costruire ben dodici sfarzose ville.

La pellicola riproduceva con le esagerazioni e gli schemi della commedia degli equivoci, la vita di una Capri realmente coccolata da attori, artisti, aristocratici e principesse, in abiti vivaci, decisamente sopra le righe, tutti attratti dal mare e dalla quiete. Era l’isola di Alessandro “Dado” Maria Galeazzo Ruspoli, IX principe di Cerveteri, l’isola adulata dai Principi di Monaco, dagli attori del varietà, da Alberto Moravia e da sua moglie Elsa Morante, da Winston Churchill e Gregory Peck. L’isola dei faraglioni e della Grotta Azzura, delle barche e degli yacht, l’isola dei film. Sì, nei film degli anni Cinquanta, Capri smette di essere solo uno sfondo e diventa a tutti gli effetti coprotagonista delle pellicole insieme agli attori principali, come nelle commedie “Avventura a Capri” e “Bellezze a Capri” o in “La baia di Napoli”, grazie al quale sbarcarono sull’isola Sophia Loren e Clark Gable.

E tuttavia il mito di Capri è più antico, poggia sulla Roma degli imperatori ma non è altro che una costruzione dei primi del Novecento quando il poeta Jacques d’Adelswärd-Fersen elesse l’isola ad alcova delle sue irrequietezze.

Il francese sfuggì a Parigi che l’accusava di omosessualità, festini orgiastici e “messe rosa”, rifugiandosi a Capri dove fece erigere l’imponente Villa Lysis, con riferimento al dialogo di Platone sul tema dell’amicizia e – secondo i critici moderni – dell’amore omosessuale. In quest’enorme edificio che mesce neogotico e neoclassico, visse assieme al suo compagno Nino Cesarini, cullandosi tra libri ed oppio, fino al suicidio per mezzo di una overdose di cocaina nel 1923. Fu lui a consegnare ai moderni il mito di Capri isola della trasgressione.

Una società contadina

Il Sud del secondo dopoguerra era ancora agricolo e profondamente arretrato. I grandi aristocratici latifondisti la facevano da padrone, basti pensare ai Baracco e Berlingeri che da soli possedevano nel Catanzarese più di trentaseimila ettari; i coltivatori diretti erano pochi, troppo pochi, i più erano lavoratori alla giornata, contadini poveri, senza proprietà, affamati.

Qualcuno insorse… Come a Caulonia, in provincia di Reggio Calabria, dove il 5 marzo del 1945, il sindaco comunista Pasquale Cavallaro proclamò la Repubblica autonoma in seguito all’arresto di suo figlio Ercole Cavallaro, guida dei braccianti che nei giorni precedenti avevan preso d’assalto la cascina dell’ex console fascista. La Repubblica di Caulonia istituì persino un tribunale del popolo processando agrari e fascisti ed imprigionandoli in un campo nella frazione di San Nicola. Tuttavia fu la vendetta violenta a farla da padrone ed i comunisti torturano ed ammazzano. Stalin, durante una trasmissione di Radio Praga, disse che “ci voleva un Cavallaro per ogni città”, ma Togliatti prese le distanze dai rivoltosi che, isolati, si arresero e furono condannati per banda armata dal Tribunale di Locri. Graziati con l’amnistia del 1946, a decine vennero poi picchiati a sangue e quattro lavoratori morirono per torture.

Nel 1947 a Calabricata, frazione di Sellia Marina in provincia di Catanzaro, venne uccisa Giuditta Levato, una contadina incinta. Il 28 novembre di quell’anno era tra i manifestanti che si scontrarono con Pietro Mazza, latifondista del luogo per una mandria di buoi che questi aveva lasciato pascolare nei campi assegnati ai contadini, impedendone quindi la coltivazione. Durante la protesta dal fucile di un guardiano al servizio del latifondista partì un colpo che raggiunse la donna all’addome ammazzandola all’età di 31 anni, mentre era incinta di sette mesi del suo terzo figlio. Sangue scorse anche a Melissa dove il 29 ottobre del 1949, reparti speciali della Celere spararono sui contadini che occupavano le terre ma le contestazioni che meglio finirono col rappresentare il vasto malessere sociale del Meridione scoppiarono a Battipaglia e Reggio Calabria.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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