La balestra nel Mezzogiorno medievale
La balestra fu un’arma che segnò profondamente il Medioevo. Un ordigno micidiale, concentrato di velocità, silenziosità e potenza, che seminò morte negli assedi e sui campi di battaglia sovvertendo le regole della cavalleria e incutendo orrore nei cronisti. Numerosi erano i vantaggi che concedeva rispetto all’arco, per esempio, nei suoi esemplari più evoluti, poteva essere caricata e pronta a sparare in tempi estremamente rapidi, era molto più precisa di un arco e non soggetta alle capacità muscolari dell’arciere, era infine capace di penetrare armatura e cotta di maglia anche a più di duecento metri di distanza.
Le fonti non presentano riferimenti espliciti a balestre o balestrieri durante le prime fasi della conquista normanna del Sud Italia. Solo più tardi essi compaiono. La più importante descrizione letteraria è quella di Anna Comnena nel 1096 che, discorrendo dei normanni di Riccardo al seguito di Boemondo nella Prima Crociata, ci parla di un “un arco barbaro assolutamente sconosciuto ai Greci”. Altra testimonianza interessante è documento notarile del novembre del 1123 che si riferisce alla donazione di Guglielmo di Altavilla al monastero di San Nicola di Troia di un terreno in prossimità di una ripa, “ampio di sopra e di sotto sin dove un buon balestriere potrà tirare fortemente con la balestra”. Questo documento testimonia l’uso assai diffuso dell’arma dal momento che ciascuno viene ritenuto in grado di giudicare la sua gittata (AA.VV., I caratteri originari della conquista normanna: diversità e identità nel Mezzogiorno 1030-1130). Molto interessante è anche un fregio presente nel Portale dei Leoni di San Nicola di Bari in cui si nota uno strano arciere dai più individuato come balestriere. Egli indossa una corazza ed un elmo di fante. In effetti, per proteggere il corpo, i balestrieri portavano non la cotta di maglia, ma una sopravveste di pelle, imbottita, su cui erano fissati anelli di ferro: la cotta d’arme.
Sappiamo di balestrieri al seguito di Riccardo di Capua, sotto le insigne di Roberto il Guiscardo, durante l’assedio di Salerno del 1076, ma anche di maestri balestrieri franco-provenzali al seguito di Carlo d’Angiò (AA.VV., Le eredità normanno-sveve nell’età angioina…). In verità la diffusione della balestra fu molto lenta per “il disprezzo dei milites normanni verso le armi da lancio, da essi ritenute non confacenti al loro status, e proprie degli strati sociali più bassi” (E. Cuozzo, “Quei Maledetti Normanni”. Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno Normanno). Infatti, i riferimenti cronachistici all’uso della balestra risalgono soprattutto al regno di Federico II ed a quello di Carlo d’Angiò. Si hanno numerose notizie circa la fabbricazione di balestre ad opera delle “ghazene”, ovvero officine per la costruzione di armi da lancio, di Lucera, Palermo e Messina (G. Amatuccio, Aspetti dell’interscambio di tecnlogia militare nel Mezzogiorno normanno-svevo).
Chiara evoluzione dell’arco, frutto del perfezionamento del propulsore elastico, la balestra consentiva una tensione a lungo termine non sottoposta allo stress muscolare umano e dunque un migliore controllo del dardo. Quanto l’arma fosse letale era a tutti chiaro, essa parve sovvertire ogni ordine, persino parve esecranda perché evitava al nemico di mostrasi, secondo le diffuse concezioni della cavalleria; economica, facile da usare, poteva permettere ad un soldato inesperto, anche ad un contadino appena arruolato, d’uccidere un nobile cavaliere nella sua armatura senza troppi problemi, così nell’aprile del 1139 il Concilio Lateranense, presieduto da papa Innocenzo II, ne mise al bando l’uso: “Artem autem illam mortiferam et Deo odibilem ballistariorum et sagittariorum adversus Christianos, et Catholicos, exerceri de cetero sub anathemate proibemus”. Una pagina di Georges Minois (La Chiesa e la guerra. Dalla Bibbia all’era atomica) analizza l’argomento: “Con una balestra, l’ultimo dei fanti può uccidere il più grande dei cavalieri: questa d’altro canto sarà la sorte di Riccardo Cuor di Leone, ferito a morte il 26 marzo 1199 da un dardo scoccato dal castello di Chalus, nel Limousin, che stava assediando. Il rilievo concesso dai cronisti a quest’evento è rivelatore della mentalità cavalleresca. Il balestriere è assimilato ad un comune omicida, ed in più regicida. Se bisogna credere alle cronache, Riccardo non comprende il suo gesto, e egli avrebbe chiesto poco prima di morire: ‘Che male t’avevo fatto? Perché mi hai ucciso?’. Una domanda assurda per la nostra sensibilità, come se la guerra fosse un grande gioco di cui il balestriere non aveva rispettato le regole. Dopo la conquista del castello, lo si fa scorticare vivo e appendere alla forca, per insegnargli a vivere. Arcieri e balestrieri devono tirare solo sui loro parigrado; le loro armi, che uccidono a distanza e anonimamente, sono sovversive, un po’ come le bombe dei terroristi nella nostra epoca, perché permettono a dei villani di uccidere un nobile, nonostante la sua corazza. Alla fine del XI secolo l’impiego massiccio in battaglia della balestra ha turbato profondamente i contemporanei, che attribuiscono a quest’arma un potere diabolico: ‘I dardi attraversano uno scudo, perforano una corazza di ferro spesso e proseguono la traiettoria dall’altra parte’, scrive all’inizio del XI secolo Anna Comnena. ‘Questa è l’efficacia della balestra, efficacia realmente diabolica’. Urbano II, all’epoca della Prima crociata, ne proscrive l’uso tra cristiani. I romanzi di cavalleria riflettono il disprezzo della nobiltà per queste armi: nella chanson de geste di Girard di Vienne, ad esempio, i figli di Garin di Montglane si rifiutano di attaccare con le frecce. Ma l’interdizione dell’arco e della balestra da parte della Chies nel 1139 non è assoluta: è possibile usarle nelle guerre contro gli infedeli, vere e proprie guerre totali in cui tutte le armi sono consentite. Intorno al 1200, Pietro Cantore fornirà un’interpretazione larga di questa possibilità: secondo lui, la balestra può anche essere impiegata contro i pagani, i catari, ed anche nelle guerre giuste tra cristiani, cosa che non trova d’accordo altri teologi come Raimondo di Penafort e Giovanni di Dio.
In definitiva, il fine perseguito è piuttosto l’eliminazione del tipo di soldato armato di balestra. Quest’arma complessa è maneggiata da specialisti, sempre mercenari. E’ noto che i Genovesi si costruirono una reputazione in questo campo. L’interdizione del 1139 si unisce così alla condanna dei mercenari. Quest’impressione è confermata dal fatto che l’impiego delle prime armi da fuoco, due secoli più tardi, non provocano alcuna reazione da parte della Chiesa. Il papa stesso è uno dei primi sovrani a servirsi del cannone, nella guerra di Romagna del 1350. La proibizione della balestra ha dunque una motivazione sociale, e non morale, perché se la si giudica troppo dannosa, cosa dire del cannone? La differenza sta nel fatto che il corpo dei cannonieri, formatosi progressivamente, non comporta alcun pericolo sociale: sono dei tecnici, completamente controllati dal sovrano”.
Nel Regno di Sicilia del Duecento esistevano tre tipo di balestre, quella ad unum pedem, la classica arma portatile caricata con un solo piede inserito nell’apposita staffa, quella ad duos pedes, più grande e caricata con entrambi i piedi, e la balista de torno, arma da postazione fissa usata maggiormente su carri, navi o sulle mura di castelli (G. Amatuccio, Arcieri e Balestrieri nella storia militare del Mezziogiorno medievale). In effetti, intorno al XII secolo la balestra era ancora un’arma pesante con una celerità di tiro piuttosto scarsa. Pesava infatti attorno ai dieci chili e scagliava appena due dardi al minuto, le stesse frecce pesavano dai duecento ai trecento grammi; in compenso la precisione e la gittata erano ottime. L’arma si evolse, divenne più leggera e semplice da usare, e fu soppiantata solo dalle armi da sparo. Si diffusero pure diverse modalità di caricamento grazie a dispositivi meccanici, come i martinetti, che permettevano un sistema pratico e poco ingombrante di caricamento, adatto anche per i balestrieri a cavallo. Il particolare tipo di freccia per balestra prende il nome di quadrello ed è caratterizzato da una punta a sezione quadra tale da permettere di perforare usberghi. I quadrelli erano costituiti o totalmente in ferro oppure con un’asta di legno e la punta in ferro. Erano poi impennati con penne di vari uccelli. Molto interessante è un decreto di Carlo d’Angiò risalente alla sua campagna nei Balcani. In esso è elencata la quantità di quadrelli da fabbricarsi in ogni provincia del Regno, si trattava di 790.0000 quadrelli per balestre ad un piede e 190.000 per balestre a due piedi. I quadrelli erano per lo più prodotti in Sicilia, in Capitanata e nel Principato di Salerno. I fabbri migliori per le punte erano indicati ad Amalfi, Sant’Agata dei Goti, Avellino ed Eboli, il legno era preso ad Avellino, San Severino, Monteforte Irpino e Forino, mentre le penne provenivano da Guardia de Lombardi, Lacedonia, Rocca Sant’Antimo, Bisaccia (G. Amatuccio, Arcieri e Balestrieri nella storia militare del Mezziogiorno medievale).
I balestrieri erano sicuramente importantissimi nella difesa di castelli e luoghi fortificati, e ciò in un’epoca in cui gli episodi bellici erano costituiti più che da scontri campali, da assedi.
Tirando dall’alto delle mura d’un castello, col balestriere riparato dalle feritoie, l’arma aveva una gittata accresciuta. Questo aspetto, assieme alla facilità d’utilizzo e, dunque, di formazione degli uomini, fece della balestra soprattutto un’arma delle città, delle Repubbliche Marinare e dei comuni che ebbero tutti le loro corporazioni di balestrieri. Quelli di Genova, cui fa riferimento Minois, si affermarono come élite specializzata ed assai richiesta, ma notizie interessanti a tal riguardo concernono anche Messina. La città siciliana inviò i suoi balestrieri in soccorso di Milazzo assediata dagli angioini (in Saba Malaspina, Storia delle cose di Sicilia); ancora nel 1349, in un’isola scombussolata dalla morte di Giovanni d’Aragona che aveva tentato di chiudere i Vespri Siciliani con un trattato di pace e mutuo soccorso col Regno di Napoli (Pace di Catania), i messinesi con barche cariche di truppe con “balestre ed altri strumenti da guerra” respinsero l’esercito aragonese guidato da Blasco II Alagona; nel 1392, Martino d’Aragona, “per venire a capo d’impossessarsi di Palermo, spedì il re per consiglio del padre lettere circolari a tutti i baroni feudatarii, affinchè venissero a prestare nell’armata reale il servigio militare, e fece venire da Messina dei balestrieri, e legname di abete e di pino, per fabbricare le macchine necessari all’assedio” (G. E. Blasi, Storia del Regno di Sicilia dall’epoca oscura e favolosa sino 1774).
Autore: Angelo D’Ambra
Articolo molto interessante, che chiarisce con relativa precisione il periodo in cui si cominciò a diffondere l’uso della balestra. Purtroppo anche in recenti film di notevole successo ambientati nel periodo dell’impero romano, registi per lo più americani hanno inserito balestrieri nelle scene di guerra, creando situazioni assolutamente false. Grazie Angelo