La doppia faccia del “Decennio Francese”

Il periodo napoleonico fu denso di radicali mutamenti per il Regno di Napoli.

La stagione francese s’era aperta con l’occupazione del corpo di spedizione agli ordini del generale Andrea Massena. Le truppe s’erano inoltrate nei territori del Regno di Napoli incontrando una flebile resistenza da parte dei soldati borbonici che pur mantennero il controllo di alcuni avamposti in Calabria e dell’isola di Capri.

La famiglia reale si rifugiò in Sicilia sotto la protezione della flotta inglese e così ebbe inizio il regno di Giuseppe Bonaparte.

Prerogativa fondamentale dell’iniziativa di governo fu la demolizione delle vecchie strutture dello Stato napoletano attraverso riforme capaci di trasformare il volto amministrativo e civile del Regno. Tutto ciò continuò anche con Murat.

“Questa doppia faccia, – scrive Pasquale Villari, violenza conquistatrice della occupazione militare, da una parte, e costruzione di nuovi e più efficienti e moderni apparati civili e statali, dall’altra, va sempre tenuta presente e costituisce in effetti la caratteristica essenziale dell’età napoleonica”.

L’eversione della feudalità, la formazione del Ministero dell’Interno e delle Intendenze, la riorganizzazione del sistema fiscale e del debito pubblico, la soppressione dei monasteri e la vendita dei beni dello Stato scossero alle radici la società napoletana. Il decennio significò anche una grande progettualità pubblica con strade, bonifiche, ampliamento dei centri urbani. Pensiamo, per esempio,  agli scavi di Ercolano ed alla progettazione del borgo nuovo a Bari secondo i più moderni canoni urbanistici: i Napoleonici si mostrarono insomma dominatori ma anche riformatori capaci di imprimere uno slancio modernizzatore che ebbe strascichi anche a Restaurazione avvenuta.

Il provvedimento che segnò la completa frattura con l’antico regime fu la legge del 2 agosto del 1806 che sopprimeva la feudalità ed affidava i demani feudali ai Comuni. Lo scopo era quello di facilitare la nascita di un ceto di contadini/proprietari, eppure gli acquirenti furono baroni ed exbaroni, ricchi commercianti e solo in piccola misura contadini. Su questa nuova borghesia agraria si poggiò la classe dirigente del Decennio, ne provenivano i vari Poerio, Pepe, Zurlo, Ricciardi… e su questo nuovo ceto dirigente poggerà anche il Regno restaurato dei Borbone con la nota politica dell’amalgama.

Nel campo dell’istruzione furono fandati il Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade, sostanziale embrione di quella che sarà la Facoltà di Ingegneria a Napoli, e la Cattedra di Agraria con decreto 10 dicembre 1809.

Contemporaneamente la repressione del brigantaggio, che fu pure politico, si traduceva in giudizi sommari, taglie, confische e misure restrittive anche per i familiari dei briganti o dei sospetti per brigantaggio. Se poi qualcuno era stato costretto con la forza ad offrire assistenza ai malviventi, aveva tempo solo fino alle sei ore successive per la denuncia, prima di essere trattato alla pari dei briganti e dei favoreggiatori. La repressione fu così violenta che il Principe di Canosa contò 16.308 vittime nel solo periodo di governo di Giuseppe Bonaparte (A. Capece Minutolo, I Piffari di Montagna).

Ancora Pasquale Villari osserva: “Senza la considerazione delle riforme il Decennio scadrebbe a brutale occupazione militare, come del resto continuarono a definire gli irriducibili fautori dell’antico regime”. Ha ragione, questa duplice fisionomia del periodo napoleonico è un aspetto centrale in un contesto di guerra totale in Europa che si rifletteva con l’asfissiante presenza inglese in Sicilia e lungo le coste.

Questo giudizio è ancor più valido se si pensa, come sostiene A. Massafra in “Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in terra di Bari e Basilicata”, che la caratteristica delle riforme dei napoleonidi fu proprio nella fissazione dei vincoli normativi certi all’esercizio del potere repressivo. Lo stesso autore però denuncia come “se, ad esempio, fin dal 1806 la difesa esterna venne definitivamente attribuita alla responsabilità esclusiva dell’armata di terra e di mare, la formale separazione dell’apparato militare da quello repressivo, così sancita in via di principio, non si tradusse nel superamento del rapporto di dipendenza dell’esercito dai corpi di pubblica sicurezza tipico del sistema difensivo del regno di antico regime”.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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