La formazione partigiana “Italia Libera”

«Ogni divisione partigiana dell’estate ’44 ha i suoi remoti precedenti nell’azione dei piccoli gruppi che nell’autunno ’43 presero per primi la via della montagna; regione per regione possiamo constatare la modestia dell’inizio e sorprenderci della esiguità delle faville che hanno acceso la gran fiamma del movimento. Indubbiamente, di tutto l’arco delle Alpi, è nel Piemonte che s’accendono i primi focolai della guerriglia. Ancor prima dell’episodio di Boves si era costituita e già stanziata fin dal 12 settembre a Madonna del Colletto, fra Valle Gesso e Valle Stura, la formazione Italia Libera, “l’unica formazione che si sia veramente costituita in città, attraverso una selezione e che dalla città si sia trasferita a costituzione avvenuta, in montagna”», così Roberto Battaglia ci introduce alla conoscenza con la prima banda partigiana della Resistenza. Il suo fondatore, Duccio Galimberti, sarebbe morto l’anno dopo, la mattina del 3 dicembre 1944, fucilato alla schiena nei pressi di Centallo, dopo essere stato ridotto in fin di vita dalle ripetute sevizie inflittegli dai fascisti.

«E’ composta da una dozzina di civili del Partito d’azione capeggiati da Duccio Galimberti: non soldati sbandati, non giovani minacciati dal lavoro obbligatorio o dalla deportazione in Germania, ma elementi borghesi anche agiati, il cui antifascismo risale e si ricollega all’insegnamento di Piero Gobetti. Il suo esempio ha infatti resistito tenacemente nell’ambiente intellettuale torinese per vincoli diremmo quasi familiari: la moglie di Gobetti, Ada Marchesini, è rimasta sul luogo a ricordare il sacrificio del compagno e la sua casa è divenuta uno dei maggiori centri della cospirazione cittadina». La figura di Ada Marchesini evidenzia subito l’apporto fornito dalle donne, soprattutto in ambito informativo. Spesso si trattava delle compagne dei partigiani come Pinella Ventre moglie di Livio Bianco ed Alda Frascarolo moglie di Alberto Bianco.

Era il settembre del 1943. Impugnarono le armi contro i tedeschi, nel Cuneese, operativi nella Valle Gesso e nella Valle Grana, giovanissimi col fazzoletto verde di cui troppo poco si parla. Per la prima volta tanti ragazzi imbracciavano le armi. Erano quelli che il fascismo aveva definito imboscati, vili, vigliacchi, nemici della patria… perchè si erano rifiutati di combattere per la loro guerra, invece ora combattevano.  A guidarli c’erano personaggi carismatici tra i quali Giorgio Bocca, il citato Galimberti, Dante Livio Bianco e Nuto Revelli. Sul finire dell’anno i tedeschi contarono decine di attacchi, la distruzione di parecchi mezzi corazzati e la cattura di alcuni loro soldati. Le ritorsioni di Boves non servirono, i partigiani crebbero in numero e crebbe la loro compattezza. Si spostarono nella Valle Stura, con base alla Borgata Praloup.

Galiberti, sin dal 26 luglio, con un coraggioso discorso pronunciato dal balcone del proprio studio, aveva chiamato a raccolta i giovani decisi a salire tra i monti per avviare la lotta contro il nazifascismo. Non riuscirono a coinvolgere il Comando militare di Cuneo ad opporsi in armi all’avanzata dell’esercito tedesco che stava calando dal Brennero, ma non si tirarono indietro. La loro resistenza fu però quella dell’intera Valle Stura. L’appoggio degli abitanti del territorio fu centrale nelle loro azioni: «Del tutto inesperti d’arte militare, i componenti dell’Italia Libera si sono rivolti in un primo momento a ufficiali effettivi che hanno rifiutato di porsi a capo di quella piccola spedizione. Debbono quindi fare da sè, felici di poter passare finalmente – com’essi dicono – “dalla teoria all’azione”. Ma non c’è tuttavia in loro quella smania di agire subito e ad ogni costo che contrassegnerà altri settori del movimento partigiano. C’è piuttosto l’idea di organizzarsi solidamente, di addestrarsi alla nuova vita con cognizione di causa: li anima un rigoroso spirito egualitario per cui tutti i servizi, anche i più faticosi della vita collettiva in montagna, vengono eseguiti a turno e al tempo stesso una profonda avversione per qualsiasi forma disciplinare che ricordi il vecchio esercito: fino al punto di rifiutare l’uso di indumenti militari! E’ questa la formazione politica che avrà poi un più costante e regolare sviluppo, aggregandosi gruppi di ufficiali alpini, estendendo continuamente il suo raggio d’azione fino a trasformarsi nelle divisioni Giustizia e Libertà del Cuneese».

Fu questa la culla di Giustizia e Libertà, sorta con l’unione della banda guidata ai Damiani da Detto Dalmastro. Lo scontro principale della sua storia avvenne tra il 12 ed il 13 gennaio del 1944, quando, in seguito alla cattura ed all’uccisione di due soldati, i tedeschi appiccarono l’incendio alle borgate dei Damiani e dei Vero. Perse la vita il partigiano diciannovenne Carlo Michelis, Galiberti fu ferito. Portato in salvo a Rittana, fu curato da una dottoressa ebrea sfuggita ai nazisti e riparata tra i partigiani. Da lì fu condotto a Torino dove rimase nascosto fino alla guarigione. Aveva continuato però a lavorare per la Resistenza e fu nominato comandante di tutte le formazioni Giustizia e Libertà del Piemonte. In questa veste siglò un patto di collaborazione coi partigiani francesi. Di lì a poco una delazione condusse al suo arresto.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

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