La grande rivolta araba

A quattro anni dall’inizio della conquista libica, nel bel mezzo della Grande Guerra, i penitenziari italiani che ospitavano i ribelli arabi e berberi erano strapieni e malsani. In molti vi morirono e nessuno, in barba all’accordo di riconciliazione, fu rimpatriato. Ben poco s’era fatto per guadagnarsi l’affetto e la stima degli indiegni e centinaia erano state le sentenze capitali, gli impiccati, i fucilati. Il colonnello Arturo Vacca Maggiolini ammise che su tale malcontento “tedeschi e turchi lavorarono proficuamente durante la guerra europea, conducendo una campagna attiva e abilissima che scalzò gli ultimi residui del nostro prestigio e sviluppò contro di noi l’odio più feroce, il fanatismo più cieco”. Nacque così la grande rivolta araba.

I senussi in Cirenaica ed i berberi di Chalifa ben Ascar nel Gebel Nefusa avevano eroso quel poco di territorio fino ad allora occupato dagli italiani. Il governatore della Tripolitania, Luigi Druetti, teneva la linea marginale del Gebel, tra Homs e Fassato, con qualche presidio a Nalut, Mizda e Beni Ulid. Tutto precipitò nell’aprile del 1915: il colonnello Gianinazzi veniva battuto due volte dai mujahidin di Ahmed es-Sunni a Chormet el Chaddamia e all’Uadi Marist, mentre Antonio Miani fu sbaragliato a Gasr bu Hadi, nella Sirtica. Ovunque s’erano subite perdite ingenti di uomini, ovunque s’erano abbandonati al nemico, fucili, cartucce, mitragliatrici, viveri. Ai primi di maggio la rivolta dilagava, l’inferno scoppiava a Misurata, Zliten, Tauorga. Le perdite nel complesso superarono quelle di Adua. Il generale Latini le stimava in 5031 uomini, Meuccio Ruini, futuro ministro delle Colonie, ebbe a dire che “la ritirata segnò di 10.000 morti il deserto coloniale”. Anche il generale Ameglio dovette abbandonare Zuara e Misurata Marina. Il tricolore sventolava solo su Tripoli e Homs.

Innumerevoli furono i capi tribù al servizio degli italiani che passarono alla dissidenza, uno su tutti, Mohamed Fekini. Al centro di missive segrete da ogni parte della Libia, Fekini divenne il punto di riferimento politico dei senussi, mentre altri capi berberi caddero nel gioco degli italiani rinnovando lo scontro etnico con gli arabi. Nel giro di pochi mesi Misurata divenne il maggior centro politico-militare della rivolta, qui tornarono a sbarcare ufficiali turchi e fucili, munizioni, denaro, persino cannoni. Tuttavia la strategia del generale Ameglio diede qualche risultato: gruppi tribali rivali si scontrarono in razzie, violenze e combattimenti, vanificando ogni debolezza italiana. Grazie a tali divisioni, gli italiani – col sostegno degli ibaditi – poterono rioccupare il porto e la città di Zuara, il 18 maggio 1916. Nell’autunno però tornava in Libia un vecchio nemico, Suleiman El-Baruni, ancora una volta col suo sogno d’una Tripolitania berbera.

Stavolta El-Baruni dimenticò astutamente i contrasti con Fekini e lo corpì di attenzioni ed elogi. L’obbiettivo era ricacciare gli italiani da Zuara. Feikini si unì a lui, con un gruppo di ufficiali turchi e tedeschi. Ameglio però non stava a guardare e anticipava le mosse spedendo il generale Latini in marcia verso Tripoli per ristabilire le comunicazioni tra i due centri e disperdere i ribelli. La mossa però non fu delle più fortunate. Letini si trovò di fronte un numero di nemici di gran lunga superiore alle sue stime. Erano più di cinquemila e, dopo una giornata di scontri, senza aver espugnato l’oasi di El-Gedida, Letini dovette rientrare a Zuara, inseguito dal nemico. Ancora una volta ci pensarono i cannoni delle navi alla fonda ad allontanare i libici.

Assediato su tutti i fronti ed abbandonato dal governo, tutto concentrato sui fatti dell’Isonzo, ad Ameglio non restava che la triste politica di far terra bruciata. Ad aprile 1916 fece lanciare dai nostri aerei 1270 chilogrammi di liquido incendiario e 3600 chili di alto esplosivo sui campi di orzo di Zanzur e Zavia. L’iniziativa fu estesa su tutta la campagna tripolitania sino ad agosto, finirono incendiate anche le colture della Gefara con la speranza di costringere i ribelli a ripiegare sul Gebel allentando la morsa attorno alle tre città in possesso degli italiani: Tripoli, Homs e Zuara. Incalcolabile fu il numero di decessi per fame e malattie, tra i civili.

Intanto la guerra in Europa finiva e, a El-Cussabat, nel corso di un incontro tra capi libici, venne proclamata la Repubblica di Tripolitania. Era il 15 novembre del 1918, la grande rivolta araba aveva dato i suoi frutti. Nasceva una repubblica indipendente. La guidava un quadrumvirato costituito da Ahmed El-Mraied, che rappresentava il Gebel di Tarhuna, Abd en-Nebi Belcher, che controllava la regione di Orfella e parte del Fezzan, Ramadan esx-Sceteui, capo dell’area di Misurata, e Suleiman El-Baruni. Fekini compariva come prefetto del Fezzan.

 

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: A. Del Boca, A un passo dalla forca

 

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Un pensiero su “La grande rivolta araba

  • 14 Febbraio 2024 in 12:43
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    Vorrei avere delle informazioni sul colonnello Gianinazzi sconfitto in Libia

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