La guerra degli ufficiali di complemento aversani

L’immaginario collettivo considera la Prima Guerra Mondiale l’evento che più di ogni altro, contribuì a cementare l’unità nazionale. Fu specialmente l’Esercito ad operare per tale fine mettendo da parte le differenze sociali, saldando le masse per un obiettivo comune: la difesa di una patria che molti consideravano ancora matrigna. Il conflitto, intrapreso come guerra regia, decisa da ragioni politiche ed economiche, divenne col tempo guerra di popolo che si sostenne per il contributo dei singoli reparti. I combattenti seppero essere protagonisti oscuri di un vero rinnovamento sociale che affiancò i contadini agli operai, la borghesia al popolo più basso, i veneti e i friulani ai campani, ai calabresi, ai siculi, ai sardi, concorrendo a ridare senso ad un sentimento patrio che di lì a poco si sarebbe incarnato come forza ideologica nel Fascismo.

Gli ufficiali di complemento, istituiti con Legge del 1873, parteciparono alla Grande Guerra con un contributo di oltre centomila combattenti, pagando un sanguinoso scotto, percentualmente più alto persino rispetto a quello della truppa. I giovani ufficiali, figli della borghesia italiana, con una formazione militare sommaria, espletarono in maniera integerrima la propria funzione e risultarono essere determinanti per la vittoria finale nonostante la bassa considerazione di cui godevano presso gli ufficiali in servizio attivo permanente.

I secondi, dopo essere stati decimati nelle prime fasi del conflitto, divennero troppo preziosi per essere impiegati in prima linea e furono sostituiti gradualmente dagli ufficiali di complemento che ebbero il comando di plotoni e compagnie in zone operative e finirono con l’essere il vero tassello di coesione tra la truppa e gli stati maggiori. Essi portarono in combattimento la classe contadina al prezzo di mezza lira al giorno, facendosi ammazzare al posto degli operai delle industrie belliche del nord Italia, che di lire ne guadagnavano sette, condividendo con i soldati il pensiero di Padre Agostino Gemelli “uccidere per non essere uccisi, combattendo col passivo eroismo, vivendo alla giornata, rispettando gli ordini, evitando il pericolo, combattendo solo perché il nemico cercava di toglierti la vita e per i propri compagni d’arme”.

Tali sentimenti divennero vera spinta motivazionale per quei giovani in uniforme, i quali grazie a quei valori fondati sull’appartenenza e la solidarietà seppero adattarsi e resistere al lungo crogiolo della trincea.

In questa sede vogliamo ricordare alcuni ufficiali di complemento, nativi del nostro comprensorio, che lo onorarono con sacrificio e dedizione.

Cominciamo da due aversani, che vissero forse conoscendosi e condividendo lo stesso settore del fronte: Carmine Marino e Raffaele Orabona che morirono in modo diverso, nel breve lasso di tempo di poche ore, quasi nello stesso posto.

Il primo era nato il 13 ottobre del 1889 da Antonio, commerciante e, Carmela Ciriello. Carmine era il terzogenito della famiglia, dopo Giovanni e Carolina. Ancora lo possiamo vedere, un po’ imbronciato in una foto scattata quando era studente universitario. Aveva, in precedenza, anche tentato la strada del Seminario, ma ne era presto uscito, rinunciando all’abito talare e alla tranquillità della vita sacerdotale diocesana. Quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale, Carmine frequentava la facoltà di Giurisprudenza ed era un convinto interventista. Chiamato alle armi venne avviato al corso per allievi ufficiali ed inviato sul fronte friulano con il 47° reggimento Fanteria della Brigata “Ferrara”. Con il grado di Sottotenente cadde colpito mentre guidava un assalto contro le linee austriache sul Monte San Michele. Era il 28 giugno del 1916.  La Strafexpedition del generale asburgico Conrad si era arenata sugli Altipiani e gli Austriaci avevano diversificato l’azione strategica, attaccando tra il monte San Michele, San Martino del Carso e Bosco Cappuccio, descritto dall’Ungaretti come un “declivio di velluto verde come una dolce poltrona”. L’obiettivo austriaco era alleggerire la pressione sul San Michele, ricacciare gli italiani al di là dell’Isonzo riconquistando il monte Fortin da cui battere con le artiglierie sulle nostre truppe.  Sono i giorni che precedono la sesta battaglia dell’Isonzo che porterà alla presa di Gorizia. L’attacco è sferrato su di un breve tratto di fronte, dalle posizioni di quota 275 del San Michele e da San Martino del Carso, con obiettivi la quota 197 di Bosco Cappuccio e giù verso l’Isonzo, Sdraussina e Peteano.

La giornata del 28 giugno aveva visto gli italiani all’attacco, condotto in parallelo dalle brigate Regina e Ferrara. L’azione aveva portato alla conquista dell’“Elemento Quadrangolare” mentre la reazione austriaca si era concretizzata in un intenso fuoco d’artiglieria su Bosco Cappuccio. In questo contesto avviene l’atto di valore del nostro Carmine Marino che sarà ricompensato con la concessione di una medaglia d’argento: “In un assalto, raggiunta una trincea nemica, sprezzante del pericolo, rimaneva in piedi allo scoperto, incitando i suoi soldati ad assicurarne il possesso. Colpito gravemente da un proiettile di fucile, con invitto valore consacrò ancora la sua opera alla riuscita dell’operazione in corso, finché lasciò la vita sul campo. San Michele del Carso, 28 giugno 1916”.

Il giorno precedente aveva vergato una cartolina  nella quale rassicurava i congiunti circa la propria buona salute. Lo scritto reca il timbro postale del 28, proprio il giorno della morte. I suoi resti, oggi, riposano nel Sacrario di Redipuglia. I riconoscimenti postumi seguirono al suo atto di valore: alcuni anni dopo, l’Università di Napoli volle conferirgli la laurea in giurisprudenza alla memoria mentre la nostra città gli ha dedicato una strada nelle adiacenze di Porta San Giovanni,  per interessamento della sezione dell’Associazione Nazionale del Fante che è intitolata proprio al suo nome. E’ assai probabile che il soldato effigiato al centro nel monumento ai Caduti posto in Piazza Municipio sia ispirato proprio al suo volto.

La Seconda battaglia di Ypres, dell’estate del 1915, viene ancora ricordata perché durante i combattimenti fu effettuato il primo attacco con gas. Dopo di essa, e con una cadenza sempre più continua, l’uso del gas divenne una letale quotidianità spingendo i soldati di ogni schieramento a cercare, prima, delle contromisure e, di seguito, la possibilità di arrecare eguale e ulteriore danno al nemico. Fosgene e iprite furono impiegati per vincere la resistenza di truppe in possesso di equipaggiamenti inidonei alla difesa, e che, spesso, cercarono rimedio alle esalazioni con l’impiego di pezze di stoffa imbevute di urina. Bisognerà aspettare un anno per avere un attacco simile anche sul fronte italiano, ancora sul Monte San Michele, quando il 29 giugno 1916 i nostri fanti furono investiti dal gas e poi sopraffatti nelle trincee dall’intervento dei soldati ungheresi che li finirono a colpi di mazze ferrate. Tra quei soldati era il nostro Raffaele Orabona, figlio di Aversa e giovanissimo ufficiale dell’Esercito Italiano, Tenente di complemento del 30° Reggimento Fanteria della Brigata “Pisa”. Nato il 27 Agosto 1891 da Domenico Orabona ed Adelina Buffardi, è ancora possibile scorgere la lapide che ricorda il suo sacrificio in Via Roma, sulla facciata del palazzo che gli diede i natali. Il colle di San Martino, dove l’Orabona inalò il gas, è detto anche “quota degli asfissiati” posta tra la “buca carsica” e la “lunetta”, una conca dove i gas austriaci produssero i loro devastanti effetti, facendo una carneficina. Con l’Orabona morirono altri 31 ufficiali e 51 furono i feriti, tra i soldati morirono in 416, 173 rimasero feriti, 933 i dispersi.

Raffaele Orabona nei primi mesi del conflitto aveva deciso di abbandonare gli studi e arruolarsi come ufficiale di complemento: aveva frequentato la scuola militare di Parma e dopo la nomina ad aspirante era stato assegnato al 30° reggimento di fanteria. Si distinse quasi immediatamente per valore e dedizione alla Patria. Il nove giugno 1915 si era messo in evidenza per essersi spontaneamente offerto di raccogliere nottetempo alcuni caduti. Nonostante un intenso fuoco nemico si era portato sulla sponda austriaca dell’Isonzo ed aveva recato soccorso ai feriti, recuperando, anche, una preziosa quantità di materiali. Lo sprezzo del pericolo dimostrato gli valse la menzione nel Decreto Luogotenenziale del 6 aprile 1916 e la concessione di una medaglia di bronzo.

Ancora in linea, dopo tredici mesi di guerra di trincea, nonostante una fastidiosa otite derivatagli da un’esplosione, ai genitori che chiedevano il ritorno a casa per una breve licenza, l’ufficiale replicava: “Il mio posto è quassù, a contatto immediato con la morte che ritempra sempre più l’animo a cruenti imprese. Grato a voi di avermi dato i natali in un’epoca in cui ho potuto essere tra i mille e mille che dovranno spingere la feroce tirannide al di là delle Alpi, torno a ripetervi che il mio posto è e sarà a fianco delle mie mitragliatrici”.

Egli certamente non immaginava ciò che gli sarebbe capitato di lì a poco. L’azione degli austriaci del giugno 1916 fu ben gestita e nulla trapelò sulla sua effettuazione, nessun informatore rivelò alcunché ai nostri servizi informativi. Gli austriaci per lanciare i gas pensarono di adottare lo stesso sistema usato ad Ypres un anno prima: con bombole d’acciaio di circa un metro di lunghezza, del peso di oltre mezzo quintale ciascuna, piene di una miscela di cloro e fosgene. 52 vagoni ferroviari avevano trasportato le circa 6.000 bombole, gli autocarri le portarono a Cotici e a San Martino, le braccia della truppa le nascosero nelle trincee e un reparto speciale si occupò di mimetizzarle e blindarle  al fine di proteggerle contro il tiro delle artiglierie. La sera del 25 giugno era già tutto pronto per l’azione. Le truppe che le maneggiavano erano di nazionalità magiara, fidatissime, fedeli alla monarchia asburgica, altamente istruite e professionali, le quali oltre alla dotazione di una efficiente maschera antigas avevano al seguito un’arma insolita: una mazza ferrata per fracassare i crani e finire i gassati non ancora morti. Gli austro-ungheresi puntarono sul fattore sorpresa: alle 4.15 del 29, i reparti assunsero lo schieramento iniziale d’attacco confidando nel vento che avrebbe dovuto spingere la miscela venefica verso le linee italiane. Il vento fu propizio tra San Martino e Monte San Michele e così, dopo un breve cannoneggiamento, le valvole furono aperte tra le 5.15 e le 5.30. Il gas uscì dalle bombole e, spinto dal vento, scivolò dalle cime del San Michele verso il “Costone dei Bersaglieri”, si insinuò nel “Valloncello di Cima 4”, nella “Trincea Superiore”, lungo il “Camminamento Sterio”, in quel che restava di “Bosco Ferro di Cavallo”, nelle caverne e nei ricoveri. La sorpresa fu totale, molti soldati passarono dal sonno alla morte. Le prime ad essere raggiunte, sotto Cima 1 del San Michele, furono le posizioni del 20° reggimento della Brigata “Brescia”.  Il 30° Reggimento della Brigata “Pisa”, il reparto dell’Orabona, venne decimato sotto il “Dente del Groviglio”. I superstiti, gravemente intossicati ma coscienti, si trascinarono, tossendo, verso i posti di medicazione.  L’effetto dell’azione austriaca fu devastante: migliaia di uomini morirono in pochi istanti, altrettanti si contorsero in una più o meno lunga agonia, parecchi furono quelli che subirono gli effetti deleteri con ritardo, spirando nei giorni successivi negli ospedali delle retrovie o prigionieri degli austriaci.

Gli austriaci della XVII Divisione e gli ungheresi della XXª Honved andarono all’assalto delle posizioni italiane: tra centinaia di morti, gli agonizzanti vennero finiti a colpi di mazza che terminava con un pesante rinforzo in acciaio munito di speroni. Gli attaccanti piombarono su di essi lanciando poderose urla, sparando a bruciapelo, roteando e randellando gli intossicati.

Le perdite alla fine saranno di 200 ufficiali e 6.500 uomini di truppa. La “Pisa”, la Brigata del Ten. Raffaele  Orabona conterà oltre 1.600 vittime. Comandante della settima compagnia, in procinto di essere promosso capitano, l’Orabona rimase gravemente intossicato, cadendo in stato di incoscienza e forse finito dagli impietosi nemici. Trasportato nell’Ospedaletto da campo n. 76, i medici ne constatarono la morte provvedendo alla restituzione del corpo ai familiari nelle settimane successive.

Aversa salutò il valore del giovane ufficiale il 31 luglio di quell’anno alle dieci del mattino nella Chiesa Madre della Real Casa dell’Annunziata, con una cerimonia funebre molto commovente.

     “Numerosa intervenne la parte più eletta della cittadinanza. In luogo del consueto tumolo fu ideata una grandiosa aiuola, ricca di candidi e rari fiori, disposti, con fine gusto artistico, intorno all’effige dell’eroico ufficiale. Ad un lato di esso olezzavano, profumo di dolorante poesia, tuberose e gardenie, simbolo della fanciulla che doveva essere per Lui il premio della gloria. Sullo sfondo si elevava una croce adorna di edera e di lauro. Una radiosa figura angelica intrecciava serti di alloro sulla tomba ricoperta di una pietra di marmo bianco, su cui era stata scolpita un’epigrafe, dettata dall’illustre concittadino Canonico Prof. Antonio Galiero”.

Era originario di Parete il Capitano di complemento Domenico Cecaro, ingegnere e fratello del medico Francesco Cecaro, ragazzo del ‘99 e bersagliere anch’esso nella Grande Guerra.  Il 29 ottobre 1918, il Cap. Cecaro era al comando della quarta compagnia complementi del 36° Rgt. Fanteria della Brigata “Pistoia”, dalle prime ore del mattino era di ispezione presso i trinceramenti del Gufo a Serravalle d’Adige nei pressi di Marco, una frazione a sud di Rovereto, tenuta ancora dagli austriaci. Il giorno precedente il capo della Commissione Armistiziale Austriaca, Gen Viktor Weber Von Webenau, aveva dato incarico al Capitano di Stato Maggiore dell’Esercito Austriaco, il trentino Camillo Ruggera, di chiedere alle autorità militari italiane le modalità di presentazione della Commissione da lui presieduta, per dare inizio ai preliminari d’armistizio. La mattina del 29 verso le ore sette del mattino, accompagnato da un’esigua scorta formata da un alfiere che recava un drappo bianco e un trombettiere, Ruggera uscì dalle posizioni austriache di Rovereto, ma, giunto in vista delle linee italiane, all’altezza del “Casello T” lungo la ferrovia, il piccolo nucleo di parlamentari venne accolto da un serrato fuoco di mitragliatrice proveniente dalla postazione tenuta dagli uomini di Cecaro, perché il presidio italiano che piantonava il punto di attraversamento non aveva scorto la bandiera bianca, né aveva udito gli squilli di tromba. Un elemento della scorta venne addirittura ferito. Il punto è ora indicato da un cippo stradale, al Km. 9.900, dove iniziava il calcestruzzo della linea di sbarramento della prima linea italiana, nel Comune di Serravalle d’Adige. Dopo l’improvvida salva di raffiche e fucileria, chiarita la situazione, la delegazione, fu ricevuta dal Capitano Cecaro con cavalleresca cortesia e condotta dapprima al comando della XXVII Divisione e quindi al Comando del XXIX Corpo d’Armata a Villa Gresti.

Il cameratismo fu uno dei sentimenti che Luigi Andreozzi porterà sempre nell’intimo, nel corso della sua storia di uomo, vivendo in maniera intensa e solidale, che lo pose in evidenza nel contesto socio-culturale aversano, concorrendo in modo tangibile a condurre l’esile navicella cittadina tra i flutti di oltre un ventennio difficile, per gli avvenimenti di cui la città, che egli difese oltremisura, fu protagonista. Fu l’aversano più decorato, meritando nella Grande Guerra ben tre medaglie d’argento al valor militare. L’Andreozzi nacque a Napoli il 20 settembre 1891 da antica famiglia aversana, spirito libero e fortemente amante degli ideali supremi si arruolò nell’XI Reggimento Bersaglieri, reparto di tradizione garibaldina ma aperto all’innovazione dell’arte militare. Proprio a Napoli nel 1910 si era costituita la Sezione “Bersaglieri Ciclisti” che parteciperà sempre da protagonista alle operazioni belliche. Nel conflitto sarà impiegato nella zona Carsica tra il Monte Sei Busi, il San Michele, fino agli abitati di Selz, Doberdò e Monfalcone. Lo slancio eroico meritò al Reggimento tre medaglie d’argento al valor militare alla Bandiera per la conquista del Monte San Michele nel luglio 1915, di quota 144 ad est di Monfalcone nel settembre 1916 e per l’aggiramento della stretta di Serravalle il 30 ottobre 1918.

E’ in questo contesto che opera Luigi Andreozzi, ufficiale che seppe guadagnarsi la stima di soldati e superiori, le cui azioni seguono di pari passo le vicende del reparto, nell’immenso rogo delle battaglie isontine. Fedeli alla consegna ricevuta di avanzare e combattere, i bersaglieri dell’XI sulle loro Bianchi e con una camicia rossa che vestivano sotto il grigio-verde, parteciparono con cadenza continuata a molti avvenimenti bellici sulle colline e nella pianura friulana. Nel proprio reparto l’Andreozzi ebbe la ventura di avere tra i propri sottoposti il caporale Benito Mussolini, che incorporato il 31 agosto 1915 era stato assegnato alla IIIª Compagnia con matricola 12467, suscitando la curiosità e il rispetto tra sottoposti e superiori. Non sarebbe da stupirsi se uno dei tenenti di cui Mussolini parla spesso nei suoi Ricordi di Guerra sia proprio il nostro Andreozzi.

Impiegato a difesa del “Trincerone” italiano, l’Andreozzi, alle quote 12 e 93 presso Monfalcone, merita in breve tempo le due prime decorazioni, con queste motivazioni: Alla testa del suo plotone, conquistava una trincea nemica, facendoci prigionieri tre soldati avversari e trascinando con l’esempio tutta la sua linea, che conquistava l’intera posizione (Valloncello di Seltz – 23 aprile 1916). Alla testa dei suoi uomini si slanciava calmo e sereno attraverso zone intensamente battuto dall’artiglieria nemica. Riordinava quindi il suo reparto per portarlo là dove urgevano rinforzi. Ferito gravemente al capo si allontanava dai suoi bersaglieri solo quando le forze gli vennero meno, non prima di aver impartito precise disposizioni al suo successore (Monfalcone 15 maggio 1916).

Riavutosi dalle ferite, Luigi Andreozzi tornò al reparto con una meritata promozione a Capitano. All’inizio del 1917, dopo un periodo di riposo, il reggimento abbandona le biciclette alle Cave di Selz e viene schierato con la 62ª Divisione nella zona di Flondar, in un’azione che si prolunga fino alla fine del mese di maggio e che porta alla conquista di varie posizioni e alla cattura di molti prigionieri. Purtroppo nelle azioni, l’XI perderà 6 ufficiali e 106 bersaglieri. E’ in questo frangente che Andreozzi merita una nuova decorazione con la seguente motivazione: Ferito gravemente ad un braccio, mentre alla testa del suo reparto muoveva all’attacco di fortificazioni nemiche, noncurante dei sé stesso, rimaneva in combattimento, fino a quando la sua opera fu utile per lo sviluppo favorevole della lotta (Flondar 25 maggio 1917 ).

Il cameratismo dell’Andreozzi matura a fronte di queste contingenze e condivisioni. Al fronte partecipare il pericolo, dormire quando possibile, mangiare quel poco che si possiede condividendolo con i commilitoni, diede vita a un rapporto molto più forte e significativo. Questo legame che unisce i soldati di ogni era definito dai militari stessi “Spirito di Corpo”: poche parole per racchiudere un concetto di fratellanza che rende orgogliosi di appartenere alla famiglia in arme come se si fosse cellula di un organismo onnicomprensivo. Il dolore, il sacrificio, le privazioni cementarono il legame di quei soldati, certamente non lo indebolirono neanche dinanzi alla tragedia di Caporetto. Ci si sentì fratelli più che colleghi, ci si chiamò per nome, al di là del grado, pur sempre rispettando le forme e i comportamenti che la gerarchia militare imponeva. Questo non faceva diminuire il rispetto che doveva esistere, perché l’autorevolezza che contraddistingueva un militare andava oltre il grado vestito sulla giubba. E questo avvenne sempre nello spirito di Luigi Andreozzi che nel dopoguerra fu il primo Podestà di Aversa in epoca fascista.

Concludo la breve rassegna di questi “eroi di complemento” con una citazione biblica, che penso adeguata a definire lo spirito con cui ho scritto queste righe: “Alcuni di loro hanno lasciato un nome che ancora è ricordato con lode. Di altri, invece, non sopravvisse memoria: essi sono scomparsi come se non fossero mai esistiti e sono diventati quelli che mai videro la luce” (Sir. 44,8-9).

 

 

 

 

 

Autore articolo: Salvatore Palladino.

Testo pubblicato in “Guerra di Popolo. Propaganda, mobilitazione civile e partecipazione popolare ad Aversa durante la Prima Gerra Mondiale”, volume edito dal Civico Museo di Storia Militare di Aversa.

 

 

 

Salvatore Palladino, Capitano della Riserva Selezionata dell’Esercito Italiano, ricercatore di storia militare e storia del meridione d’Italia, archivista ecclesiastico e consulente scientifico del Civico Museo di Storia Militare di Aversa.

 

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