La morte di Libero Serafini
Nel 1799, il notaio Libero Serafini abbracciò le idee della rivoluzione e presiedette la municipalità di Agnone. Nel mese di maggio di quell’anno, coi giacobini delle sue contrade, s’era portato a Campobasso per chiedere rinforzi con cui fronteggiare l’avanzata dei sanfedisti. Nel mentre, Agnone fu occupata dal nemico e lo stesso gruppo di agnonesi finì travolto dalle formazioni della armata di Ruffo che marciavano nel Molise. Tradotto prigioniero ad Avellino, Serafini rifiutò eroicamente di rinnegare il suo giuramento di fedeltà alla Repubblica Napoletana e così andò incontro alla morte. Il racconto dei suoi ultimi istanti di vita è estrapolato dal “Brieve dettaglio di alcuni particolari avvenimenti accauti nel cros della campagna nella spedizione dell’Eminentissimo D. Fabrizio Ruffo” redatto da Francesco Apa, arciprete della Chiesa di Santa Severina.
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Merita assolutamente in questo luogo aver parte la narrativa d’un fatto singolare, che fa addivedere in quale stato di frenesìa giunsero taluni invasati dallo spirito Repubblicano. Portavasi, poco dopo l’arrivo dell’Esercito in Avellino, il Signor Colonnello D. Scipione della Marra in compagnìa del Padre Maestro Cimbalo, a sedare in un quartiere alcune Truppe di Fucilieri, i quali trasportati da entusiasmo, volevano in ogni conto diriggere la marcia per la Capitale, e da per loro tentarne immaturamente il riacquisto. Nell’atto d’eseguire costoro un tal’incarico commessoli dall’Eminentissimo Ruffo, s’incontrarono per istrada con un Picchetto di Calabresi, che conducevano legato un uomo più tosto d’avanzata età, chiamato Notar D. Libero Serafino. Mossi da natural curiosità, ne addimandarono la cagione, per cui venisse arrestato quell’infelice, anzi si chiese a quegli stesso, chi mai si fosse; ed ebbe ognuno a sbalordire nel sentirsi francamente rispondere: Io sono il Presidente della Municipalità d’Agnone in Provincia d’Abruzzo. Quest’artida risposta tirò seco un’altra dimanda, e si fu quella del Chi viva? Ed egli senza punto arrossirsi, o sgomentarsi dal vedersi cinto dalle Reali Truppe, rispose: Viva la Repubblica Francese, e Napoletana. Questa seconda risposta mosse a tale sdegno coloro, che l’ascoltavano, che lo avrebbero sul fatto ucciso, se non si fosse riflettuto all’istante, che forse quel disgraziato privo fosse dell’uso della ragione; e tale senza meno si sarebbe creduto da ognuno, se il fatto non ne avesse poscia addimostrato il contrario. Fu quindi quell’ex-Presidente condotto innanzi l’Eminentissimo Duce, da cui interrogato su le stesse domande, dava con tal pacatezza d’animo quell’identiche risposte, come se stato si fosse fra la stolta turba de’ voluti Repubblicani. Procurò allora il Clemente Porporato di farlo entrare ne’ suoi doveri, facendogli comprendere, ch’era caduto nelle forze Reali, e che potea salvarsi detestando il fallo commesso: ma che! invano gli furono addotte mille ragione; invano si procurò qualunque espediente per esimerlo dal rigor delle leggi; ed invano infalmente riuscì pure il tentativo di fargli pronunziare Viva il Re, nonostante la promessa, che a questa sola voce avrebbe egli campata la sua morte. No; rispondea, ho giurato fedeltà alla Repubblica Napolitana, e Francese; e quindi non posso, nè devo più retrocedere dal prestato giuramento. Vedendosi dunque inefficace la clemenza con un soggetto, il cui cuore era talmente depravato, che si rendea del tutto incapace di ravvedimento, fu subito rimesso a’ Ministri della giustizia, per essere giudicato, e condannato a tenor delle leggi. Se ne fece perciò la causa nella notte stessa, e fu condannato a perdere la vita su d’una forza, come seguì il giorno appresso. E fu da notarsi altresì, che neppur l’aspetto d’una morte infame, nè le persuasive de’ padri assistenti valsero affatto a rimuoverlo dalle folli idee, da cui era allucinato, contentandosi così di riportare il premio del suo giuramento alla Repubblica.