La peste del 1656 al Largo del Mercatello
Domenico Gargiulo, meglio conosciuto come Micco Spadaro, in quanto proveniente da una famiglia di fabbricanti di spade, mise su tela l’anima più vivace e drammatica della Napoli del Seicento. Lo si percepisce bene nell’opera La peste del 1656 al Largo del Mercatello.
Il quadro descrive i dieci terribili mesi che segnarono profondamente la storia della città e ne sconvolsero anzitutto gli assetti socioeconomici. Furono duecentomila le vittime su una popolazione complessiva di circa quattrocentomila abitanti.
Si invocarono la Madonna e San Gennaro, ma non bastò. Si fece dunque ricorso al patrocinio di San Gaetano. I settemviri “Carlo Principe di Camporeale pel sedile di Forcella, Francesco Mele pel sedile di Porto, Annibale Capece per Capuana, Domenico Sanchez per Montagna, Carlo Brancaccio per Nilo, Vincenzo de Liguoro per Portanova e Japoco Pirro pel fedelissimo popolo, il dì 7 agosto 1656, ultimo della novena fatta da tutta la città, con singolare edificante devozione si portarono dal palazzo municipale di S. Lorenzo alla chiesa di S. Paolo Maggiore scalzi, con funi al collo, vestiti con i ruboni ed ornati di tutte le loro insegne”. Essi dopo tale processione fecero voto al santo di ascriverlo tra i santi patroni della città se il flagello fosse cessato ed andò così (F. Ceva Grimaldi, Della città di Napoli dal tempo della sua fondazione sino al presente).
La risposta del santo facesse cessare prodigiosamente la mostruosa epidemia. Il magistrato di Napoli, allora, con una deputazione di patrizi, chiese al papa Alessandro VII la grazia d’avere anche San Gaetano tra i patroni di Napoli.
Il popolo rivolse, però, anche a San Rocco le sue preghiere e ne è testimonianza un monumento eretto nella Chiesa di San Rocco proprio nel fatidico anno.
Alcune cronache dell’epoca raccontano come, il 16 giugno del 1656, “Marcello Caraffa, Andrea de Ponte, Fabio Russo, Girolamo Capece Piscicello e Giuseppe Vulturale, rappresentanti il Municipio napoletano, si fossero congregati per porre la città sotto l’ombra benefica del valevole patrocinio del beatissimo Rocco della Croce. Considerarono i nobili uomini tenere il glorioso Santo speciale protezione di quelli, che sono travagliati dal male contagioso; avere essi medesimi veduto e sperimentato che quanti di quei giorni erano a lui ricorsi, avevano dal Signore ottenuto la grazia di esserne liberati o guariti; dover quindi il Municipio d’allora in poi andare in ciascuno anno in forma pubblica ad assistere alla messa cantata nella chiesa al benedetto nome di lui intitolata alla spiaggia di Chiaja; decretare ancora di presentargli in quello stesso dì, sacro alle sue glorie, in segno di tributo e riverenza, sette torce di cera lavorate alla Paulina; eleggerlo infine per uno dei santi patroni e protettori della nobile e devota città”. Nonostante il voto, il male aumentò, ma proprio il 16 agosto, giorno sacro alla memoria del santo, “poscia che gli eletti “settemviri” ebbero compiuto nella chiesa del prodigioso Santo il municipale voto, allentaronsi per modo le furie del micidiale influsso, che nel paese non rimasero che i soli malati, già per innanzi dalla peste attaccati” (E. Mandarini, Storia di S. Rocco da Mompellieri e delle più celebri pestilenze).
Scrive il Celano che Napoli “in soli sei mesi mieté, con orrori da non potersi scrivere se non da chi l’ha veduta… Non vi era più luogo da seppellire, né chi seppellisse: videro questi occhi miei questa strada di Toledo dove io abitava così lastricata di cadaveri, che qualche carrozza che andava a Palazzo non poteva camminare se non sopra carne battezzata”.
Dai registri risultano numerosi i religiosi morti durante il flagello per aver prestato soccorso agli afflitti. I teatini perdettero 120 affiliati, i crocifiri 95, i padri dell’Oratorio 38, i barnabiti 12, impreciso il numero di morti tra i trinitari, i padri della madre di Dio, i francescani, i cappuccini, i minoriti ed i dottrinari (AA.VV., Archivio storio per le province napoletane, Volume 3). Il morbo scemò sul finire di luglio nei quartieri Mercato, Pendino e Porto e nella prima metà di agosto scomparve pure nella parte occidentale della città. Gli ammalati diminuirono e fu allora che si cominciò l’espurgo e la quarantena generale, mentre Napoli acquisiva i due nuovi patroni.
Nell’opera conservata al Museo nazionale di San Martino, il pittore fa sua una rappresentazione realistica di quello specifico dramma storico che non manca di toni encomiastici. Moribondi e soccorritori riempiono quella che è l’odierna piazza Dante. Tra i corpi però emerge il viceré García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, che, a cavallo, percorre la piazza portando soccorso alla gente. E’ così che Micco Spadaro unisce il popolo e i signori, la fede e la superstizione, la paura e la tragedia con la gioia ed il conforto e concorre a presentarci un’analisi completa di una della città all’epoca più popolose d’Europa.
Autore articolo: Angelo D’Ambra