La pittura di Michetti

Nel 1867 giungeva a Napoli dalla nativa Tocco di Casauria, presso Pescara, Francesco Paolo Michetti.
L’abruzzese, nato nel 1851, mostrò sempre attenzione per gli aspetti tipici e folcloristici della vita sociale con una vena spiccatamente illustrativa, lo fece nella capitale del Regno delle due Sicilie morente come lo aveva fatto al cospetto dei monti della Maiella e del Morrone.

Il suo soggiorno napoletano, nonostante la breve durata di appena due anni, fu assai fecondo e decisivo per la sua arte, almeno quanto il successivo incontro col conterraneo D’Annunzio.

E’ a Napoli che egli si formò conservando per tutta la carriera qualcosa di Morelli e di Palazzi, i grandi maestri della pittura verista e storica. Non solo Michetti fece propri gli insegnamenti della pittura locale, ma riscosse un successo notevole reinerpretando i suoi schemi.

Fu molto apprezzato dai contemporanei grazie ad un realismo esteriore e teatrale fortemente ispirato dall’ambiente abruzzese. A causa di problemi disciplinari abbandonò temporaneamente l’Accademia napoletana per far ritorno in Abruzzo, poi si decise ad intraprendere un viaggio a Parigi assicurandosi, tramite Giuseppe de Nittis, la partecipazione agli ambitissimi salons parigini raccogliendo apprezzamenti continui.

“La Processione del Corpus Domini” o “Il Voto”, per esempio, risultano ancora oggi opere fresche di vivace cromatismo, ai limiti dell’esattezza fotografica. I temi popolari e folcloristici erano sempre sviluppati con grave sensibilità cromatica esattamente come in “La raccolta delle zucche” che sviluppa temi popolari e folcloristici con grave sensibilità cromatica.

Questo dipinto deve gran parte della sua popolarità alla penna di Gabriele D’Annunzio che nel 1883 così lo descrisse: “Il paesaggio è di Bolognano, un fondo di paesaggio roccioso, erto, a strisce bianche, grigiastre e rossigne di ruggine, che fa pensare a una ruina immane di pagoda, a frammenti di colossi buddistici. Un vapore latteo fluttua nell’aria mattinale, sale dalli acquitrini verdognoli; e le piante dalle larghe foglie ruvide serpeggiano, s’intrecciano sul terreno, si levano in gruppi per l’alto. Per quella freschezza vaporosa vengono uomini e donne con enormi ‘cocozze’ in capo, ‘cocozze’ gialle, verdi chiazzate, di strane forme, di strani contorcimenti, simili a teschi mostruosi, a vasi guasti da gonfiori, a trombe barbariche, a tronchi di grossi rettili disseccati. È un effetto fantastico, quasi di sogno; ma la scena è reale” .

Una visione decadente, un forte cromatismo, un respiro pittorico europeo si respirano poi in “Gli Storpi” e “Le Serpi” che portarono in alto la sua fama nel momento culminante del suo estro verista.

“La figlia di Iorio” è la tela che trionfò alla Biennale di Venezia del 1895. Da questo dipinto Gabriele D’Annunzio trasse ispirazione per l’omonima tragedia del 1904. I due artisti cementificarono la comunione di ideali nel Convento di Francavilla al Mare, in provincia di Chieti. Quì, in questo edificio quattrocentesco, proprietà di Michetti, si incontrarono ripetutamente Francesco Paolo Tosti, Costantino Barbella, Basilio Cascella, Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, fior fiore del mondo culturale ed avanguardistico dell’epoca.

Michetti rappresentò il dramma di Mila di Codro, figlia di Iorio, la donna perseguitata e bandita, condannata dalla rigida morale perché ritenuta di facili costumi ma desiderata dagli uomini che, seduti sul ciglio di un monte, la guardano andar via mentre si fa schermo del viso con un mantello rosso. Sullo sfondo di pennellate ruvide si staglia la bianca mole della Maiella, incrollabile scenario della sua infanzia.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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