La politica di Cavour

Il complesso coniugarsi di azione diplomatica, guerra regia e guerra di popolo in tutta la Penisola, vede una figura su tutte ergersi con impulsi e intuizioni decisive, quella di Cavour. Ce ne parla lo storico Luigi Salvatorelli (Unità d’Italia, Einaudi, 1961).

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Con uno scorcio semplificatore, ma non arbitrario, potremmo rappresentare la formazione del regno d’Italia come il risultato di tre grandi occasioni colte da Cavour a volo, e sfruttate fino all’inverosimile: la guerra di Crime e il Congresso di Parigi; la guerra di Lombardia e la rivoluzione dell’Italia centrale; la spedizione dei Mille e quella delle Marche e dell’Umbria. Nessuna delle tre occasioni scaturirono (nè potevano) da una iniziativa di Cavour; ma in tutte tre egli seppe collocarsi in posizione politicamente centrale, e condurre ad effetto il programma politico italiano.

La partecipazione moralmente paritaria del Piemonte prima alla guerra di Crimea, poi – e soprattutto – al concresso di Parigi e alla situazione politica europea successiva, permise a Cavour quello che (applicando un detto di Caprivi per Bismarck) può chiamarsi il gioco delle tre, o anzi delle quattro palle. Cacicatosi arditamente tra Francia, Inghilterra e Russia (senza trascurare i contatti con la Prussia dalla «nuova èra»), egli vi si mantenne con destrezza intensificando man mano la sua attività. Non cessò da allora in poi di mettere innanzi alle potenze, a ogni occasione, la questione italiana come nodo precipuo della pace e dell’ordine europeo: nodo che non si poteva sciogliere se non in armonia col nuovo diritto dei popoli, difeso dalla monarchia piemontese combinante tradizione e progresso, ordine e libertà. O la monarchia nazionale e liberale di Vittorio Emanuele, o il perpetuo conturbamento della democrazia «sovversiva». In fondo, Mazzini, uomo di autorità e di ordine per eccellenza, presentava all’Europa un dilemma analogo: ma il suo «Dio e popolo»,  la sua confederazione di popoli liberi e sovrani, non erano digeribili per le classi dirigenti europee, anche liberali, a parte il fatto che non se ne vedeva un principio di realizzazione.

Così Napoleone III aderì a Plomieres, non già (come Mazzini pretese) alla vecchia aspirazione sabauda alla Lombardia, ma ad una ricostruzione totale dell’italia, e all’impiego del movimento popolare a suo pro; donde l’immediato congiungimento della rivoluzione dell’Italia centrale con la guerra all’Austria, e l’arrivo della monarchia nazionale a Firenze.

Così la spedizione popolare dei Mille – avversata alla vigilia da Cavour, non più temerario come a Villafranca, ma poi protetta dal suo gioco politico-diplomatico – poté abbattere il regno borbonico, e integrarsi – in nome sempre dell’ordine europeo congiunto alla libertà – con la spedizione regia delle Marche e dell’Umbria: tollerante e proteggente la Francia cesarea, avallante l’Inghilterra liberale, passivamente corrucciata la Russia, più antiaustriaca che conservatrice. E l’unità italiana fu fondata.

Mantenere alla monarchia l’iniziativa, al di sopra del movimento popolare secondato, frenato, spinto, fronteggiato: ecco la spina dorsale della politica di Cavour. Di qui la sua preoccupazione angosciosa, nell’estate 1860, di fronte a Garibaldi capo nazionale unico nel Mezzogiorno e minacciante l’avanzata su Roma; preoccupazione che generò il tentativo fallito di insurrezione monarchica a Napoli, e il vagheggiamento temerario di una nuova guerra della monarchia sabauda isolata contro l’Austria. Ma l’ispirazione di questa politica non è semplicemente monarchica e governativa, nè di pura opportunitò interna e internazionale: essa è altrettanto, e più, nazionale e liberale. Abbandonata a se stessa – questa era la persuasione di Cavour – l’iniziativa popolare sarebbe finita nella dittatura all’interno, all’estero nel disastro. Con veduta oggi più che mai attuale, egli additava come antidoto alla tirannide demagogica montante dal basso la libera lotta politica regolata dal regime parlamentare.

Ancor più elevata, di valore ancora più universale, fu l’ispirazione di Cavour per la questione romana. Nel suo ultimo grande discorso del 25 marzo 1861 – testamento morale per l’Italia e per l’Europa – Cavour dichiarò che Roma, «la nostra stella polare», doveva essere la capitale d’italia: quando lo fosse divenuta, l’Italia avrebbe proclamato «il gran principio della libera Chiesa libero Stato». Si sarebbe così realizzata qualche cosa di più grande, di più sublime che la risurrezione di una nazione: si sarebbe «firmata la pace fra la Chiesa e lo Stato, fra lo spirito di religione ed i grandi principi della libertà».

Van osarebbe oggi discutere quanto ci fosse qui di profezia, quanto di utopia. Diciamo, invece, c he ci fu l’indicazione di u ntraguardo perenne per l’umanità: quello dell’intesa fra ragione e fede. Averlo additato in mezzo al travaglio politico più aspro, più appassionato, basta per innalzare il maggior uomo politico del secolo decimonono nel consesso delle «stelle polari» dell’avanzamento umano: basta per collocare Camillo Cavour accanto a Giuseppe Mazzini.

 

 

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