Le armi chimiche e l’Italia

Approfondiremo in questo articolo la storia della armi chimiche e l’impiego che ne fece l’Italia.

Precisiamo subito che un elemento o un composto chimico usato a scopi bellici viene denominato aggressivo chimico. Durante il XX secolo ne sono stati prodotti e stoccati circa 70 tipi diversi. Questi aggressivi possono essere liquidi, solidi o gassosi: quelli liquidi in genere evaporano rapidamente; molti agenti chimici sono volatili in modo da poter esser rapidamente dispersi sopra una vasta area tecnicamente vengono così classificati:

a) Aggressivi convenzionali, asfissianti o soffocanti, che provocano lesioni più o meno gravi nei polmoni fino a produrre la morte per asfissia (p. es. il cloro e il fosgene).
b) Tossici, che hanno vera azione velenosa. Essi agiscono attaccando qualche centro funzionale importante dell’organismo e arrestando la sua attività (p. es., l’acido cianidrico): alcuni agiscono particolarmente sul sistema nervoso, altri attaccano i globuli rossi del sangue, ecc.
c) Lacrimogeni, che hanno azione predominante sulle mucose dell’occhio, producendo lacrimazione e irritazione tali da impedire la vista per un certo tempo (p. es., la cloropicrina e i bromuri di xilile). Essi vennero chiamati anche affaticanti, perché costringono a tenere la maschera per lungo tempo, producendo disagio e minore resistenza nelle truppe.
d) Starnutatori o vomitivi, che provocano irritazione specialmente sulle mucose del naso e della gola, producendo starnuti, dolori alla gola, tosse o vomito (p. es., le arsine)
e) Vescicatorî o caustici, che non solo hanno azione irritante sulle mucose degli occhi e della gola, ma attaccano anche la pelle, producendo infiammazioni e piaghe dolorose, difficili a guarire (p. es., la iprite).

Gas nervini

I gas nervini differiscono per varie proprietà: alcuni sono volatili e si diffondono nell’aria; altri sono oleosi e agiscono per contatto, assorbiti dalla pelle o dagli occhi. Questo fa sì che abbiano scopi militari diversi: una molecola a lunga persistenza per esempio serve più a negare al nemico l’accesso in un’area che a un attacco rapido.Tutti i gas nervini noti funzionano però allo stesso modo, sconvolgendo la trasmissione dei segnali nervosi ai muscoli. Bastano pochi secondi: le pupille si contraggono, i muscoli del corpo perdono il controllo, e in particolare il diaframma (il muscolo che permette la respirazione) non riesce a funzionare e, assieme alla contrazione dei bronchi, fa sì che la vittima soffochi rapidamente. A questo si aggiungono altri sintomi terrificanti: viene perso il controllo delle funzioni corporee, per cui la vittima urina, sbava, vomita; crisi epilettiche e dolori gastrointestinali completano il quadro.

L’iprite (gas mostarda/mustard gas) è il più pericoloso tra gli aggressivi convenzionali, è un liquido oleoso, non un gas, ma può essere diffuso in forma di aerosol si può dire che esso agisce principalmente per contatto delle goccioline sulla pelle degli individui colpiti. Il contatto ha luogo anche attraverso gli indumenti di qualsiasi natura essi siano (lana, tela, cuoio, ecc) se chi li indossa, appena si accorge di essere colpito, non abbia l’avvertenza di liberarsene. L’effetto dell’aggressivo liquido non è immediato. I primi sintomi si manifestano dalle 6 alle ore 12 dopo che l’individuo è stato colpito. Dopo 12-24 ore si manifestano le prime lesioni che, se la superficie colpita è grande, sono gravissime e che, ad ogni modo sono di lentissima guarigione anche se la superficie colpita è piccola.

La persistenza dell’aggressivo sul terreno, varia a seconda della natura di quest’ultimo ed a seconda della temperatura dell’aria tendenzialmente meno di 24 ore. Un fattore che tende a ridurne la pericolosità è il fatto che emana un forte odore di mostarda nettamente percepibile a concentrazioni 28 volte inferiori a quelle dannose il che, unito al fatto che le sue gocce sono riconoscibili su vegetazione e terreno, permette di individuare agevolmente e evitare le zone ipritate.
Queste comunque sono rapidamente bonificabili mediante la diffusione di cloruro di calce ma in caso di necessità spargere zolle di terreno e ramaglie permette di attraversare le zone contaminate.

L’efficacia di tali armi dipende da molteplici fattori ambientali temperatura, tasso di umidità, quota, vento Per immaginare l’effetto delle armi chimiche sono state fatte diverse simulazioni e sono stati studiati diversi modelli. Una delle più famose è stata elaborata nel 1993 dall’Office of technological assessment del Congresso degli Stati Uniti. Secondo questa simulazione se una città con una densità tra i 3 mila e i 10 mila abitanti per chilometro quadrato venisse attaccata con una tonnellata di gas nervino (sparso da un aereo a meno di cento metri di altezza), in condizioni climatiche ideali potrebbero esserci fino a 8 mila morti (si tratta di una stima ritenuta oggi un po’ esagerata). Ma basterebbe una brezza leggera e i morti si ridurrebbero a un numero compreso tra 300 e 800.

Per gli agenti convenzionali l’efficacia è minore. Durante al prima guerra mondiale furono usati in quantitativi massicci Germania 52000 tonnellate, Francia 26000, Gran Bretagna 14000, Austria Ungheria 8000, Italia 6000, Russia 5000, infliggendo le seguenti perdite:

Russia 56,000 morti e 419,340 feriti
Germania 9,000 morti e 200,000 feriti
Francia 8,000 morti e 190,000 feriti
Impero Britannico 8,109 morti e 188,706 feriti
Austra Ungheria 3,000 morti e 100,000 feriti
Stati Uniti 1,462 morti e 72,807 feriti
Italia 4,627 morti e 60,000 feriti
Totale 90,198 morti e 1,230,853 feriti

L’arma chimica utilizzata per la prima volta nel 1915, doveva essere l’arma destinata a spezzare lo stallo della guerra di trincea, ma fallì clamorosamente il suo obbiettivo. Le armi chimiche si rivelarono un’arma incredibilmente poco letale: se impiegate contro truppe adeguatamente equipaggiate la mortalità era del 3 per cento dei soldati che furono colpiti dai gas, a fronte di una media del 30 per cento dei soldati colpiti da altre armi (tra i sopravvissuti il 2 percento riportava lesioni permanenti e il 70 percento potevano rientrare ai reparti in 6 settimane per le male equipaggiate truppe russe la percentuale saliva al 12 percento rimanendo comunque inferiore alle armi convenzionali). Si calcola che durante la guerra per uccidere un solo soldato sia stata necessaria un’intera tonnellata di gas e che nell’ultimo anno di guerra il loro uso era destinato più ad ostacolare il nemico che a ucciderlo oppure a scatenare il panico perché è dimostrato che il semplice timore dei gas, data la natura particolarmente “subdola” della loro minaccia, è in grado di scatenare il panico tra le truppe più disciplinate, con effetti psicologici di prima grandezza.

Quelli della Prima Guerra Mondiale erano aggressivi “primitivi” e non efficaci come gli agenti nervini moderni. Negli ultimi decenni sono stati prodotti gas molto più letali, ma i loro risultati in guerra non sono stati migliori. Durante la guerra tra Iran e Iraq dei 27 mila soldati iraniani esposti ai gas ulceranti e soffocanti ne morirono “soltanto” 265. In tutta la guerra soltanto l’1 per cento dei morti (circa 5 mila, anche se alcune stime parlano di un numero molto maggiore) è stato causato dalle armi chimiche, una percentuale inferiore a quella della Prima Guerra Mondiale.

Tony Cordesman, un ex membro del dipartimento della Difesa americana che ora lavora al Center for Strategic and International Studies, ha riassunto la questione durante un’intervista alla CNN. «Gli attacchi con armi chimiche non sono necessariamente più orribili che l’utilizzo di armi convenzionali», ha detto Cordesman, «la letalità delle armi chimiche è sempre stata molto maggiore sulla carta che nella realtà». Quando sono state usate in contesti militari le armi chimiche hanno sempre fallito il loro obbiettivo. Non sono riuscite a sbloccare lo stallo della Prima guerra mondiale e non sono riuscite a fermare le ondate umane dell’esercito iraniano durante la guerra Iran-Iraq. Il problema è raggiungere concentrazioni adeguate per l’iprite deve essere di un decimo di grammo per metro cubo d’aria. Occorrono quindi almeno 32 tonnellate d’iprite, in condizioni ambientali ideali, per saturare fino a venti metri di quota un’area di 4 chilometri di lato.
Prendendo a modello la tipica granata d’artiglieria “A liquidi speciali” da 100/17, adottata dal Regio Esercito tra le due guerre, sarebbe quindi necesario tirare ben 25.000 colpi per saturare l’area sopra descritta. Il tutto naturalmente in un brevissimo lasso di tempo, così da ottenere la necessaria concentrazione dell’aggressivo e l’indispensabile effetto sorpresa.

In ultima analisi si trattava quindi di impiegare il volume di fuoco di un corpo d’armata per saturare di gas il settore di un reggimento; e neppure così i risultati erano ecaltanti.
Ad esempio, a mezzanotte del sette giugno 1918 i tedeschi scatenarono un micidiale attacco nella zona fra Compiegne e Montdidier con un bombardamento di una violenza inaudita: furono sparati 750.000 proiettili all’iprite, al fosgene e alla difenilcloroarsina, per un totale di 15000 tonnellate di proiettili a caricamento chimico . Come risultato, quasi quattromila francesi furono messi fuori combattimento, e 32 morirono, (Mertin Gilbert, La Grande Storia della Prima Guerra Mondiale) un risultato non certo proporzionato alla intensità dell’attacco e con questo bilancio di arma pericolosa ma non più di tante altre si concluse la prima guerra mondiale.
È difficile comprendere l’ostilità con cui tali armi furono considerate dalle opinioni pubbliche, la loro pericolosità è in linea con altri armamenti e non è che le sofferenze inflitte da una pallottola o una pugnalata siano trascurabili,si può ipotizzare che il rifiuto della guerra che ci fu al termine della prima guerra mondiale che non poteva esprimersi contro gli armamenti convenzionali,il cui uso era accettato da secoli venne rivolto verso un arma mai sperimentata su questa scala in precedenza e che appariva particolarmente sleale. Comunque quale che sia la sua origine nacque presto un movimento di opinione volto al divieto del loro uso che nel 25 portò a un trattato che ne limitava l’uso.

La guerra chimica italiana fra le due guerre

Come tutti i paesi l’Italia non cessò la sperimentazione di aggressivi chimici dopo la Prima Guerra Mondiale, che come in tutto il mondo, erano visti come una componente normale delle operazioni militari. Nessuno si stupì del loro impiego da parte degli Spagnoli in Marocco e degli Inglesi in Iraq e furono usati sporadicamente in Libia, nel 1928, contro la tribù dei Mogàrba er Raedàt, e nel 1930, contro l’oasi di Taizerbo, i gas vennero invece impiegati in maniera sistematica durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nelle successive operazioni di «grande polizia coloniale» e di contro guerriglia. L’Italia aveva firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri venticinque paesi, un trattato internazionale che proibiva l’utilizzazione delle armi chimiche e batteriologiche, ma, come abbiamo visto, neppure tre anni dopo violava il solenne impegno usando fosgene ed iprite contro le popolazioni libiche.

In Etiopia le violazioni furono così numerose e palesi da sollevare l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale indignazione che non coinvolse i militari di ogni paese che mostrarono un limitato interesse per quello che succedeva,una relazione dei servizi segreti francesi poco precedente la seconda guerra mondiale avente ad oggetto le capacità di guerra chimica italiana neppure cita l’impiego in Africa, dato che confermava le teorie e la pratica di impiego codificate e che comunque consideravano il passaggio all’uso di armamenti chimici come un passo inevitabile dopo lo scoppio di un conflitto. Le prime bombe all’iprite furono lanciate sul finire del 1935 per bloccare l’avanzata dell’armata di ras Immirù Haile Sellase, che puntava decisamente all’Eritrea, e quella di ras Destà Damtèu, che aveva come obiettivo Dolo, in Somalia.

In tutto, durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate su obiettivi militari e civili 1.597 bombe a gas, in prevalenza del tipo C.500-T, per un totale di 317 tonnellate. Altre 524 bombe a gas furono lanciate, tra il 1936 e il 1939, durante le operazioni contro i patrioti etiopici. Se si aggiunge, infine, che durante la battaglia dell’Endertà furono sparati dalle batterie di cannoni di Badoglio 1.367 proiettili caricati ad arsine, non si è lontani dal ritenere che in Etiopia siano stati impiegati non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici dal 1935 al 1940.
La violazione dei trattati internazionali era palese ma dati i quantitativi utilizzati nella Prima guerra mondiale non certo massiccio anche perché l’ambiente non si prestava al loro uso pur considerando lo scarso addestramento e le scarsissime dotazioni dell’esercito etiopico (circa 8000 maschere) e una limitata scorta di pomate per il trattamento delle lesioni da iprite.

Uno studio redatto dal Colonnello Venditti del Servizio Chimico nell’imminenza dell’invasione riporta che la temperatura e l’umidità dell’ambiente etiopico riducevano il rendimento di tutti i gas, e suggeriva concentrazioni e densità maggiori di quanto normale in Europa, cosa che non stupisce, visto che in Africa la Spagna usò l’iprite nel ’23 e nel ’24, ma ne interruppe l’impiego constatandone la scarsa efficacia.
Degli aggressivi impegnati un modesto quantitativo (500 kg in totale) era contenuto nei 1367 proiettili sparati duranti la battaglia dell’Amba Aradam con mediocri risultati e comunque inferiori a quelli del fuoco d’artiglieria tradizionale e infatti il loro uso non fu ripetuto.

Ben più massiccio l’uso da parte della Regia aeronautica che nei sette mesi di campagna lanciò 1529 tonnellate di bombe, di cui il 21% era costituito da ordigni chimici (fosgene e iprite).
L’arma più utilizzata fu la bomba C.500.T che pesava 280Kg, di cui 212Kg di Iprite, 1.5 Kg di carica esplosiva e 66.5 Kg di involucro. che esplodeva a circa 250 metri dal suolo vaporizzando il liquido e contaminando un’area di 500-800 metri per 100-200.
La C.500.T era stata realizzata piuttosto rapidamente, prova ne è che diverse bombe, causa difetti nella spoletta,probabilmente deflagrarono al suolo invece che esplodere in aria nei primi tempi del conflitto.
L’impiego era piuttosto complicato, in quanto occorreva lanciare prima una bombetta fumogena per conoscere la direzione del vento e dopo aver compulsato le apposite tabelle, si lanciava l’ordigno.
Malgrado i racconti nessun nebulizzatore è stato utilizzato in Etiopia, era accertato che erano quasi più pericolosi per gli equipaggi che per il nemico, visto che le testimonianze etiopi parlano di «fusti che si rompevano», «bombe che facevano una sorda esplosione toccando terra» oppure parlano di «pioggia» o «nebbia» sparsa dagli aerei, credo che ambedue i fenomeni si riferissero all’impiego della C.500.T.
In effetti, se le bombe esplodevano in aria generavano una pioggia di iprite, mentre se cadevano a terra si sfasciavano oppure esplodevano spargendo iprite in un raggio molto ridotto… penso che questo spieghi il racconto dei “fusti” e dei “nebulizzatori”.

Si noti che la frequenza delle testimonianze relative ai “fusti”, mi fa ritenere che parecchie C.500.T si siano sfasciate al suolo, con limitato effetto bellico.
Tuttavia il loro impiego non fu quello che possiamo immaginare. Dai documenti dell’aeronatica, gli obiettivi colpiti sul fronte nord (di gran lunga il principale per l’impiego degli aggressivi) possono così essere classificati: 80% Guadi e passaggi obbligati infatti tali azioni erano definite Sbarramenti C (chimici); 10% bersagli animati (truppe ma anche bestiame che serviva al loro sostentamento); 6% Sbarramenti tattici; 4% Non classificabili.

Cioè furono usati l’altro più che altro per coprire lati esposti o stretti passaggi o per uccidere il bestiame che non per attaccare direttamente i soldati nemici, è da notare che gli “Sbarramenti C” non erano invincibili, visto che, non infrequentemente, le bande di armati etiopi li “bucavano”. Di contro, il figlio di Ras Immirù afferma che si imparò presto a disperdere le truppe per ridurre l’efficacia degli aggressivi e un cubano combattente con gli Etiopi (tale Suero) sostiene che gli spezzoni erano più temuti dei gas perché ad effetto istantaneo e in grado di colpire anche chi si fosse straiato a terra.

Sugli effetti mancano statistiche affidabili l’unica fonte che fornisce una quantificazione è la Croce Rossa internazionale: “Red Cross sources record a little less than 1,000 gas casualties treated, but this figure gives an incomplete picture. It has to be kept in mind that the 12 Red Cross field hospitals – basically the only medical service available to the Ethiopian army – displayed disparities in terms of organization, staffing and equipment. More importantly, they managed to get close to the war fronts only relatively late in the war. And very often, when their services were most required, the units were in retreat themselves, like the defeated soldiers. Available information suggests that, for about 90% of the chemical warfare, there was little or no access to modern medical care”.

In questa nota si stimano 10.000 etiopi colpiti dai gas (1.000 curati dalla CRI, e 9.000, ossia il 90% del totale). Il dato, trovato on line, non ha altri riscontri tranne il riferimento a un migliaio di curati nel saggio di Del Boca però mi sembra in linea con la letalità della Prima guerra mondiale e le modalità di impiego che raramente prevedeva l’attacco diretto perché alle concentrazioni indicate (2 t ad attacco in media). Considerando che nella Grande Guerra (con concentrazioni di gas enormemente maggiori, su masse di uomini compatte e obbligate a stare sul loro posto, per di più sotto il livello del terreno: pessima posizione contro gas più pesanti dell’aria) si va da un minimo del 2% di morti (USA) ad un massimo dell’11,8% (Russia, i cui soldati erano praticamente indifesi) – fonte: http://www.bordeninstitute.army.mil/cwbw/Ch3.pdf – , si può ritenere che su 10.000 colpiti (supponendo un’esposizione ai gas elevata come quella dei Russi e una similare mancanza di difese) 1.200 morirono. Se da un lato forse i russi avevano un servizio medico migliore, d’altro canto si trovavano a subire attacchi di certo ben maggiori di 2 tonnellate in media alla volta (e la concentrazione del gas è importantissima per la sua letalità).
Inoltre per valutare l’efficacia l’uso dell’iprite non era solo allo scopo di uccidere ma di ferire il nemico e di render impraticabili determinate aree (la permanenza dell’iprite è comunque di sole 24 ore, senza contare che l’alta temperatura e la bassa pressione fanno evaporare i liquidi più velocemente).

A conclusioni similari sia sulle modalità di impiego sia sulla letalità arrivarono gli osservatori militari stranieri:

«The U.S. Army closely followed the war and sent Major Norman E. Fiske as an observer with the Italian army and Captain John Meade as an observer with the Ethiopian army.Major Fiske thought the Italians were clearly superior and that victory for them was assured no matter what. The use of chemical agents in the war was nothing more than an experiment. He concluded:
“From my own observations and from talking with [Italian] junior officers and soldiers I have concluded that gas was not used extensively in the African campaign and that its use had little if any effect on the outcome.”….
Captain Meade, on the other hand, thought that “It is my opinion that of all the superior weapons possessed by the Italians, mustard gas was the most effective. It caused few deaths that I observed, but it temporarily incapacitated very large numbers and so frightened the rest that the Ethiopian resistance broke completely.”
….Major General J. F. C. Fuller, assigned to the Italian army, highlighted the Italian use of mustard agent to protect the flanks of columns by denying ridge lines and other key areas to the Ethiopians.He concluded: “In place of the laborious process of picketing the heights, the heights sprayed with gas were rendered unoccupiable by the enemy, save at the gravest risk. It was an exceedingly cunning use of this chemical.”
Still another observer stated: “I think [where mustard] had [the] most effect was on animals; the majority of the Ethiopian armies consisted of a number of individual soldiers, each with his donkey or mule on which he carried rations. These donkeys and mules ate the grass and it killed them, and it was that which really broke down morale more than anything.”….
B. H. Liddell Hart, another military expert, compromised between the two schools of thought and concluded: “The facts of the campaign point unmistakably to the conclusion that mechanization in the broad sense was the foundation on which the Italians’ military superiority was built, while aircraft, the machine gun, and mustard gas proved the decisive agents.” All observers, however, seemed to agree that the Italians would eventually have won whether chemical agents were used or not».

Tutte queste citazioni sono riprese da “History of Chemical and Biological Warfare: an american perspective” di Jeffery K. Smart.

Credo si possa dire che le armi chimiche furono impiegate per soli scopi militari, né dai documenti italiani né dalle relazioni degli osservatori stranieri risultano attacchi deliberati a civili anche se saranno stai sicuramente coinvolti quelli al seguito delle armate etiopiche e coloro che abbiano tentato di usare i punti di passaggio ipritati.

L’efficacia fu rilevante non tanto in riferimento alla letalità ma per aver assicurato i fianchi permettendo rapide avanzate, nel disperdere le colonne di etiopi (sia in avanzata, che, molto di più, in ritirata) che, per evitare gli attacchi aerei, si frazionavano in gruppi sempre più piccoli perdendo coesione e spesso cadendo vittima degli insorti che approfittando delle sconfitte delle armate del Negus avevano preso le armi contro di lui , nell’incanalare il loro attacco in zone prestabilite, o nell’impedire loro il paesaggio in certi punti (passi, guadi) limitando l’arma migliore delle armate etiopiche cioè l’estrema mobilità su terreni difficili e privi di strade e facendo collassare il loro morale privandole dei rifornimenti.

 

 

 

Autore articolo: Gianluca Bertozzi

Bibliografia: A. Del Boca, I gas di Mussolini; E. Cernuschi, La minaccia chimico batteriologica.

 

 

Gianluca Bertozzi, laureato in Giurisprudenza, è studioso di storia militare

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