L’esercito sardo nei fatti d’armi della Sforzesca e di Mortara

I fatti d’armi della Sforzesca e di Mortara furono episodi della Prima guerra d’indipendenza italiana che funsero da prodromo alla Battaglia di Novara, scontro decisivo con cui ebbero fine le aspirazioni unitarie di Carlo Alberto di Savoia.

Il 7 marzo del 1849, ad Alessandria, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito del Regno di Sardegna, il polacco Alberto Chrzanowski, incontrò i ministri Cadorna e Tecchio, risoluti tutti a riprendere le armi contro il nemico austriaco. Si fissò l’inizio delle nuove operazioni militari per il 10 marzo. Carlo Alberto ne fu messo al corrente ma pretese di prorogare l’inizio della guerra al 20 marzo. Il due marzo, intanto, Cadorna già comunicava a Radetzky, a Milano, la fine della tregua.

Dopo sette mesi l’esercito sardo era tornato alla guerra. Nessuna particolare preparazione c’era stata, nessuna fortificazione. Si riteneva che, incalzato, il nemico avesse rapidamente ripiegato al Mincio e all’Adige. La forza complessiva del Regno di Sardegna era di 120.000 uomini, pari a quella nemica. Alessandro La Marmora era stato eletto a capo di Stato Maggiore, al generale Gerolamo Ramorino era stato affidato il comando delle divisioni lombarde.

Il 14 marzo si annunciò la ripresa delle ostilità per il 20, il 16 Carlo Alberto si spostava a Novara, il 18 si procedette alla benedizione delle bandiere, il 19 le truppe sarde di schierarono occupando una lunga linea di 200 chilometri circa. Radetzky, però, era già schierato: il 18 marzo, lasciati appena 4000 uomini a Milano, dissimulò la fuga, apparentemente diretto alle rive dell’Adda, per poi, invece, piazzare il suo esercito a Pavia. Il giorno in cui la tregua scadeva, quindi, gli austriaci erano già pronti.

Le prime truppe a muoversi furono quelle della 4ª Divisione del Duca di Genova. Capeggiate da Carlo Alberto di Savoia, puntavano ad attraversare il Ticino. Giunsero fino a Magenta pensando ad un ripiego nemico, in realtà gli austriaci, da Pavia, attraversarono lo stesso fiume con tre colonne comandate dal generale Konstantin d’Aspre e Ramorino e Luciano Manara dovettero ripiegare per inferiorità numerica.

 

La divisione lombarda, in effetti, contava 6500 uomini e non poteva certo resistere ai 17,200 di d’Aspre (Ramorino venne arrestato ed imprigionato a Torino, dove poi venne condannato a morte). Inferiori in numero erano pure i bersaglieri di Manara, sebbene provarono a resistere proprio sul Gravellone.

Al tramonto del 20 marzo, Chrzanowski ordinò alla divisione Durando di spostarsi a Mortara ed alla divisione di Michele Giuseppe Bes di spostarsi alla Sforzesca. Il giorno dopo partì per Vigevano.

La Sforzesca fu presa d’assalto dagli austriaci, i quali vennero più volte respinti alla baionetta dal 17º Reggimento di fanteria, comandato dal colonnello Filiberto Mollard e dal 23° del colonnello Enrico Cialdini, comandato dal maggiore Fontana, che nell’azione perse il cavallo ucciso mentre lo montava. Due squadroni del Piemonte Reale eseguirono due cariche molto irruente, che respinsero il nemico e lo costrinsero a lasciare molti prigionieri. In questa azione il Reggimento Piemonte Reale si guadagnò la sua prima Medaglia d’Argento al Valor Militare.

Un attacco degli austriaci ci fu pure a Gambolò, ma il 1º Reggimento Savoia, comandato dal colonnello Saillet di Saint. Cergues, ebbe la meglio. In realtà questa e quella della Sforzesca, furono mosse effettuate dagli austriaci al fine di distrarre l’attenzione dal loro principale obiettivo che era Mortara.

A Mortara si trovava il generale Alessandro La Marmora, con alla destra la divisione di Durando ed alla sinistra la divisione del Duca Vittorio Emanuele di Savoia.

Il generale D’Aspre avviò l’attacco delle artiglierie. Si resistette ad un cannoneggiamento continuo, ma troppo grande era la sproporzione fra i sei cannoni sardi e i trentadue asburgici. D’Aspre quindi fece seguire l’azione delle fanterie che si gettarono sulla destra della divisione sarda, la Brigata Regina, ormai provata dal fuoco delle artiglierie. Le truppe sabaude, composte in gran parte di reclute di volontari, non riuscirono a sostenere l’urto e ripiegarono in disordine verso Mortara, inseguite dagli austriaci che continuarono ad incalzarle col colonnello Benedeck. Fu una disfatta. Un’ultima sortita fu tentata da La Marmora con granatieri del 10° e cacciatori del Cuneo, ma anche questa fu vana.

Durante tutta la giornata, l’esercito sardo perse cinquecento uomini in combattimento ed altri duemila furon fatti prigionieri. Gli austriaci in totale, tra morti e feriti persero circa cinquecento uomini.

Quando re Carlo Alberto ricevette la comunicazione della disfatta di Mortara palesò subito il desiderio di ritentare la sorte delle armi con una battaglia decisiva e volle concentrare le forze intorno a Novara aspettando lo scontro con Radetzky che intanto attaccò Vercelli credendo di trovarvi l’armata sarda.

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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