Liberismo, liberalismo e libertarismo. Viaggio storico.

L’idea della libertà intesa come spinta al progresso divenne il fondamento del liberismo, quell’insieme di dottrine che affermano come, nella libertà, la società umana dia il meglio di sé anche nel campo economico. L’ambiente storico nel quale nacque il liberismo è quello della fine del Settecento, quando emerse il fervore delle iniziative private. I frutti rilevanti dell’individualismo sul piano economico divennero un manifesto politico a favore della libertà imprenditoriale e la proprietà privata assurse a credo fondamentale dell’organizzazione sociale.

L’economista francese Frédéric Bastiat, autore del celebre “Harmonies économiques”, era convinto che mediante la libertà di iniziativa d’impresa e la libertà di proprietà privata si potesse sviluppare, in spontaneo equilibrio economico, il migliore sistema economico perché l’uomo, sotto lo stimolo della libera competizione, tendeva a dare il meglio di sé e la proprietà dei suoi mezzi lo induceva al miglior utilizzo di essi, in una esaltazione del principio di autoresponsabilità che nobilitava gli egoismi.

Altro aspetto importante fu quello della libertà dei commerci internazionali. Alle origini, il liberismo in Inghilterra si presentò, quasi esclusivamente, come una dottrina dei rapporti economici internazionali. La famosa scuola liberista di Manchester di Richard Cobden predicava il libero scambio internazionale come suo verbo fondamentale, esprimendo le istanze della giovane industria britannica che voleva raggiungere i lontani mercati mondiali in un libero gioco concorrenziale che combatteva i protezionismi all’interno ed all’estero.

La dottrina liberista al suo sorgere si configurò, proprio per questa ragione, come rivoluzionaria. Essa si opponeva ai grandi proprietari fondiari inglesi che sostenevano invece le ragioni del protezionismo agricolo. Abbattendo questo protezionismo – affermava Cobden – l’Inghilterra avrebbe acquistato più a buon mercato i prodotti agricoli esteri e all’estero avrebbero acquistato a buon mercato i manufatti inglesi. Sarebbero caduti i privilegi dei ceti agrari mentre si sarebbe assistito ad un aumento del potere d’acquisto dei salari dei lavoratori. Per tale ragione, in origine, a favore del liberismo si ritrovarono molti teorici avversi ai conservatori ed alla nobiltà fondiaria.

Nei suoi scritti Cobden criticò aspramente l’aristocrazia ed il bellicismo imperialista inglese, sognando un primato nazionale sui mercati internazionali raggiunto attraverso la libertà economica. L’unico intervento del governo doveva quindi essere quello di abbattere le tasse, implicitamente quelle militari e quelle daziali, in modo da favorire il commercio.

Su questa base si consumò la divergenza col liberalismo. Se il liberismo pose ai vertici valoriali la libertà economica e la proprietà privata, il liberalismo vi pone le libertà politiche, civili, religiose e culturali e, se sostenne le libertà economiche, fu nella misura in cui esse potevano tutelare le altre libertà. Alcuni liberali ritennero tale nesso indissolubile, altri no. In Italia una celebre polemica vide scontrarsi Croce ed Einaudi. Il primo sostenne che il liberalismo non si identificasse necessariamente con le libertà economiche, il secondo affermò il contrario pur ammettendo interventi statali qualora si configurassero monopoli. In buona sostanza nessuno dei due era un liberista puro, individuavano entrambi una sorta di conflitto tra le varie libertà lì dove il liberista pura o non coglieva conflittualità o sceglieva la libertà imprenditoriale.

La controversia apriva la strada a posizioni come quelle assunte da William Beveridge, liberale eppure propugnatore dello “stato sociale”. In “Why I am a Liberal” polemizzò con Friedrich von Hayek sostenendo che il “radicalismo liberale riconosce le sfere autonome entro le quali i fini dell’individuo sono supremi, ma a differenza del professor Hayek, non riconosce, fra queste sfere, quella che riguarda la libertà di investire i capitali. Questa è una libertà secondaria, desiderabile in sé stessa, ma solo fino al punto in cui non danneggia altri. Infatti l’investimento di capitale, come è stato fino a ieri praticato da persone che non tenevano contro dell’interesse generale, si è dimostrato un grande male sociale”.

Beveridge lamentava che l’aver consentito agli industriali di far sorgere fabbriche dove volevano, aveva condotto ad un dannoso ingrandimento urbano e causato degrado, congestione e la nascita di zone di depressione economica e disoccupazione. Sostenne che “interferire con la libertà, per nulla importante, di pochi industriali di scegliersi la località nella quale costruire le loro fabbriche o di regolare a loro talento gli investimenti, è il modo per assicurare a migliaia di altri uomini gli elementi indispensabili per una vita sana e dignitosa”. Così si giunse al paradosso di un liberismo – in particolare americano, quello del Partito Democratico – capace di propugnare interventismi simili a quelli dei laburisti scandinavi.

Negli Stati Uniti d’America si denominano liberal coloro che in Europa si definirebbero socialisti democratici (e che nel Novecento hanno propugnato l’interventismo della teoria keynesiana). Fu così che i liberisti statunitensi si appropriarono del termine “libertario”.

La libertà era ribadita come il più alto fine politico ma il modo per ottenerlo diveniva assolutamente quello di ridurre la presenza statale in economia come nella società, affidando al governo, al massimo, compiti basilari di difesa e ordine pubblico. Friedrich Von Hayek influenzò pesantemente questo ambiente (che poi espresse Milton Friedman e Murray Rothbard). Il pensiero di Hayek puntava l’indice contro ogni intervento pubblico dello stato in economia, avversava sia le economie collettiviste sia la teoria keynesiana, sostenendo che l’unico sistema ottimale è il libero mercato perché l’intervento pubblico poggia su notizie limitate e genera segnali distorti che inducono i produttori a investimenti errati.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: F. Forte, Manuale di Politica Economica; A. Roncaglia, Breve storia del pensiero economico; H. Landreth e D. C. Colander, Storia del pensiero economico; P. D. Groenewegen e G. Vaggi, Il pensiero economico. Dal mercantilismo al monetarismo

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